Ulrico Zwingli nacque a Wildhaus in Svizzera nel 1484. Terzo di dieci figli, studiò a Vienna, a Berna e a Basilea. Il padre magistrato lo volle per forza sacerdote. Lui fece carriera e in breve tempo divenne parroco nella cattedrale di Zurigo. Nei primi anni fu preso da una profonda ammirazione per i classici. Ebbe varie cotte. I suoi autori preferiti erano nell’ordine: Platone, Aristotele, Epitteto e Seneca. Per poterli leggere in versione originale imparò da solo il greco e il latino. Era solito dire: «A volte valgono più una frase di Cicerone o una strofa di Pindaro che non un versetto del Vangelo».

Da giovane fu un ammiratore sfegatato di Erasmo da Rotterdam e di Pico della Mirandola. Le attività che lo resero famoso in Svizzera furono la predicazione e la politica. Come predicatore, in particolare, pare che disponesse di una voce straordinaria, quasi come se avesse in petto un microfono incorporato. Parlava con grande semplicità e si faceva sentire in ogni parte della chiesa, anche nelle ultime file.

Nei confronti di Erasmo, però, passò dall’ammirazione sconfinata all’antipatia più assoluta, e sempre per colpa di Lutero e del libero arbitrio. Secondo Zwingli, l’uomo è un predestinato dalla nascita e la salvezza la può ottenere solo se ha ricevuto la Fede in dono da Dio. Per Erasmo, invece, capita l’esatto contrario: a decidere è il modo in cui è vissuto e come si è comportato con il prossimo.

Anche Zwingli si scagliò contro il Papa per lo sporco commercio delle indulgenze. Non era un mistico come Lutero, o un puritano come Calvino, ma quando vedeva i preti cancellare i peccati come se niente fosse, anche in cambio di contanti, non poteva far finta di niente. Un giorno prese a male parole un certo Samson, un prete che aveva addirittura esposto in chiesa un listino prezzi.

Nel 1519 in Svizzera scoppiò una terribile pestilenza. Zwingli, religioso com’era, si dedicò al volontariato. Passò giorni e notti ad assistere i malati. Scrisse perfino una poesia intitolata L’inno alla peste, dove, rivolgendosi a Nostro Signore, diceva: «O Dio misericordioso, decidi tu della mia sorte: se pensi che per me sia più vantaggioso morire, lasciami morire, altrimenti salvami». Dio lo salvò.

Si arruolò come cappellano in una delle tante guerre indette da Giulio II, e rimase sconvolto alla vista dei soldati che gli morivano intorno. Non faceva a tempo a dare l’estrema unzione a uno che ce n’era un altro che lo chiamava disperatamente.

Oltre al fervore religioso, era anche animato da un grande spirito nazionalistico: lui in pratica tifava per il Zurigo e non perdeva occasione per dimostrarlo. Ora, bisogna sapere che all’epoca la Svizzera non era come oggi uno Stato indipendente, ma un insieme di staterelli, i cosiddetti cantoni, che Lutero aveva diviso in due schieramenti contrapposti: da una parte c’erano quelli rimasti fedeli al Papa e dall’altra quelli che avevano abbracciato le tesi della Riforma. Zwingli si era schierato con questi ultimi, anche se con alcuni distinguo. Pur essendo convinto della predestinazione, aveva abolito tutta una serie di riti, da lui definiti superstiziosi, quali ad esempio i fioretti, i digiuni e le processioni in onore dei santi. Si dichiarò contrario al celibato ecclesiastico e, anche per dimostrarlo con i fatti, ebbe numerose amanti, finché non mise la testa a posto e non sposò una vicina di casa di nome Anna Reinhard. Poi, quando scoppiò la guerra tra i cantoni, si arruolò nell’esercito di Zurigo e morì in battaglia, a Kappel, nel 1531.