Nel negozio, Chela urlava da far venire il timor di Dio, come diceva nonna. Quelle puttane hanno di nuovo cacato fuori dal negozio, diceva, quelle puttane l’hanno rifatto ancora. Chela diceva che le streghe della montagna quando gli veniva in mente scacazzavano peggio delle bubbole, pattume dappertutto. Parlava delle streghe della montagna come se le conoscesse dalla nascita. A volte le vecchie del barrio raccontavano che da piccole quando andavano a prendere gli aghi di pino sulla montagna le trovavano a ballare, nude e coi capelli lunghi sciolti, che si strusciavano contro i pini. Appena mi vide Isora mi disse shit, devo raccogliere la merda delle streghe con la pala, aiutami che io ti aiuto sempre e poi giochiamo alle barbi. Non mi diede il tempo di dire di sì che già mi aveva messo in mano un sacchetto di plastica di quelli del negozio per farmi raccogliere una cacca gigantesca che c’era davanti alla porta sul retro del negozio, tanto che perfino il tappetino di stracci rosicchiato su cui si sdraiava Sinson era tutto pieno di merda. Sinson era il cane di Chela, si chiamava Sinson, come Omer dei Sinson, e aveva un occhio di meno perché una volta era uscito in giro nel barrio e un bmw metallizzato che gli fischiavano le gomme l’aveva investito e lui era tornato al negozio con un occhio di fuori e Chela aveva gridato ommadonna, mi hanno rovinato il cagnolino. E disse cagnolino come chi è carino con i cani, ma la verità è che se le vecchie del mio barrio avevano qualcosa in comune era che ai cani non volevano bene neanche un fisquito, i cani gli facevano quasi schifo, li trattavano come avrebbero voluto trattare i mariti, che passavano tutto il giorno al bar di Antonio a bere vino e giocare a carte.
Cominciai a pulire, perché in effetti Isora non faceva niente di niente. Tirai fuori il tubo di gomma che c’era nel patio di Chela e buttai per terra un fisquito di fairi e cominciai a schizzare acqua a pressione. Shit, la bitch dice che sono state le streghe, ma secondo me invece è stata quella puttana di Saray, mi disse mentre sciacquavo il tappeto e Sinson m’abbaiava perché stavo toccando una cosa sua. Saray era la bambina che abitava accanto casa mia e che aveva due anni in più di noi. A volte andavamo a giocare con lei, ma a Isora non piaceva molto perché pensava fosse mezza scema, e anche un po’ odiosa. Isora arrotolò il tubo e io mi asciugai le mani sulla camicia. Facemmo tardi malignando e raccattando merda dalla strada. Quando ormai gli stronzi erano tutti ben chiusi dentro i sacchetti di plastica bianca cercammo un campo pieno di rovi per buttarli via. Era quasi completamente buio. Sentivamo l’odore del gelsomino notturno che ci diceva che si stava facendo tardi e che dovevamo separarci fino al giorno dopo. In quel momento, quando il manto di nuvole si apriva in crepe sottili sottili, l’ultima luce del giorno cominciava a trapassare il cielo e tutto diventava d’oro brillante. Mi veniva un’angoscia fortissima al petto, come se mi mancasse il respiro. Io non sapevo mai salutare Isora. La guardavo come una che doveva salutarla per molti anni.
Ma Isora mi accompagnava a casa. Mi accompagnava sempre.
E poi io accompagnavo lei.
E lei accompagnava me.
Propio come le confezioni di iogur del negozio, aveva detto lei una volta. Lo aveva detto parlando di noi pensando che non la sentissi, e invece sì. Come le confezioni di iogur che sono sempre a due a due.
Ecco perché, dopo aver passato tutto il giorno a giocare alle barbi e a fare che le barbi erano personaggi delle telenovele e i ken erano Juan, Franco e Gato e le barbi erano Gimena, Sarita e Norma e i ken erano brutali e bruni e le barbi erano magre, molto magre, magrissime, e ballavano bene e baciavano bene e si sdraiavano sopra i ken e i ken si sdraiavano sopra di loro e tictictictic, sbattevamo i loro corpicini di plastica uno contro l’altro e dicevamo che si stavano amando come si amavano Gimena e Óscar, Norma e Juan, e Franco e Sarita, e Franco e Rosario, e Franco e Rosario e Franco e Rosario, e Rosario era la più puttana ma anche quella che ballava meglio e così ci litigavamo sempre per essere Rosario e per essere Gimena o, per ultima, per essere Norma, ma mai Sarita, perché Sarita ci sembrava la più noiosa, la più zotica, era come la Molly delle Superchicche e ci faceva schifo. Ecco perché Isora, dopo aver giocato alle barbi e aver fatto finta che Juan litigava con gli altri ken e prendeva a cazzotti Franco perché andava con Rosario e tirava cazzotti ai gatti di nonna e ai muri di cemento coperti di muschio dietro casa di nonna e cazzotti in aria e cazzotti cazzotti, cazzotti da innamorato, Isora mi accompagnava, mi accompagnava sempre. Veniva con me fino alla porta di casa mia e i galli e i cani e gli uccelli e perfino i conigli che non sono capaci di fare nessun verso (forse muacumuacumuacu) strillavano perché ci sentivano avvicinare alla porta. Allora Isora si allontanava un po’, e mi diceva a domani, shit, a domani. E mi diceva shit perché era come affettuoso, ma affettuoso timido, piccolo, silenzioso. A domani, shit, a domani, e si avviava giù per la discesa e il suo scignon cominciava a dondolare, sinistra-destra, sinistra-destra, sinistra-sinistra, destra-sinistra, e ormai a metà strada quando cominciava a sparire e vedevo solo i capelli che oscillavano di qua e di là senza un corpo, si girava verso di me e mi gridava dai, su, per favore, accompagnami che io ti accompagno sempre. E allora, insieme, facevamo a ritroso tutta la strada che avevamo disegnato a zizzà, sinistra-destra, sinistra-destra, sinistra-sinistra, destra-sinistra, perché Isora diceva che se andavi da un lato all’altro ti stancavi meno, e ci mettevamo a parlare di una volta che c’eravamo pisciate addosso per sentire com’era, l’avevamo fatto nel campo di patate di un vicino di nonna, che aveva tanti campi, e ci eravamo strusciate lì per terra pisciose e senza renderci conto io e Isora eravamo già all’altezza della casa dei ghei e ormai mancava poco al negozio e allora Isora mi disse se mi ricordavo di quella volta che a scuola avevamo versato un succo di mela in testa a una bambina che ci stava antipatica e ci avevano messo in castigo. La luce d’oro brillante non passava più dalle fessure delle nuvole, guardai il cielo e ormai era quasi buio. Chiesi a Isora se si ricordava di quella volta che a scuola stavamo giocando ai cani, e lei aveva un cane che era Josito, il ragazzino di Redondo, che era Josito a quattro zampe con una corda legata al collo e lui alzava la gamba e faceva finta di pisciare sui muri della scuola, i muri con sopra i disegni delle Isole Canarie e omini e donnine piccolini in costume tradizionale e caschi di banane e carretti coi buoi delle feste patronali e patate e mortai di quando festeggiavamo la Giornata delle Canarie e allora Isora gli gridava a cuccia stronzo bastardo, buono stronzo bastardo, a cuccia, e io ridevo e ridevo perché mi piaceva da matti quando Isora diceva stronzo, mi si riempivano gli orecchi di miele quando Isora diceva
stronzo
a cuccia stronzo bastardo
puzza di cane stronzo carogna
puttana tua madre stronza e stronzo di Sinson
stronza di una troia
stronzo coglionazzo
stronza pottona
stronzo sunnormale
stronza di una merdicchia
stronza fakin bitch
stronza più puttana delle maiale
E senza rendercene conto eravamo già davanti alla casa di Melva, la ganza, come la chiamava la nonna di Isora, perché non era sposata ma viveva con uno scozzese. Ormai mancavano solo una ventina di metri a arrivare alla porta del negozio. E continuammo a camminare e ricordavamo quella volta che eravamo andate a messa e ci eravamo sedute nella prima panca davanti e Isora aveva cominciato a imitare i movimenti del prete e a me era venuta la ridarella, mi era venuta una ridarella così forte che il prete aveva fermato la messa per dirmi di uscire e di mettermi davanti alla porta della chiesa, in piedi, e tutte le vecchie del barrio mi avevano guardato male e allora mentre lo dicevamo mi ricordai di quando ero in castigo davanti alla porta della chiesa e tutte le vecchie mi guardavano male e era stato lì che mi era venuta paura perché sapevo che ormai non mi volevano bene, che volevano più bene a Isora, e che ora mi avrebbero voluto ancora meno bene, ma non dissi niente.
E continuammo a camminare.
E arrivammo al negozio.
E poi daccapo.
A domani, shit, mi disse, a domani. Mi avviai sulla salita e quando ero ormai a metà strada mi venne la tristezza e guardai il cielo e ora sì che era davvero notte e i ranocchietti dello stagno dove nessuno nuotava cominciavano già a cantare e sembrava una canzone antica, una canzone che veniva da secoli indietro, quando io e Isora non eravamo ancora amiche ma eravamo predestinate a esserlo, perché se c’era qualcosa che sapevo era che Isora e io eravamo fatte come sono fatte le cose che nascono per vivere e morire insieme e mi girai e gli dissi shit, accompagnami anche solo fino alla casa dei ghei, accompagnami, su, dai, che io ti accompagno sempre.