Shit, la bitch mi ha messo di nuovo a dieta, mi disse Isora per telefono. È una dieta di cipolle, devo mangiare solo zuppa di cipolle per due settimane. Bleah, che schifo, gli risposi. Shit, vieni giù che ho una voglia matta di fare una ciambella ma non me la posso mangiare, perché posso mangiare solo quella zuppaccia puzzolente, vieni giù così ti guardo te che la mangi. Rivo subito, risposi.
Per strada si sentiva il rumore delle betoniere che giravano il cemento. Tutti i giorni c’era qualcosa da costruire nel barrio e dietro i muri c’era sempre una betoniera in movimento che faceva un rumore tipo fantasma che trascina le catene. Anche quel giorno non si vedeva il sole nel cielo, ma si sentiva che si era cacciato dietro le nuvole. Il cielo era come una parete bianca con un cerchietto giallo disegnato coi pennarelli che qualcuno poi aveva coperto con dell’altra pittura bianca. Faceva un gran caldo. Era la calima, come diceva mio padre: faceva male il petto a respirare, le cose diventavano più pesanti, come avessimo il cemento delle betoniere dentro le scarpe da tennis. Quando arrivai a casa di Isora la porta sul retro era aperta e si sentiva odore di ciambella. Sinson dormiva sdraiato su una panca di pietra vicina alla porta. Isora si era messa un grembiule di Campofrío che gli avevano regalato i rappresentanti del prosciutto. Shit, non è ancora pronto, disse con gli occhi bassi. Era triste quel giorno. Ogni volta che Chela la metteva a dieta, Isora diventava triste. Dopo non faceva altro che parlare di roba da mangiare, di quello che gli sarebbe piaciuto, di come si faceva la ciambella di iogur e il latte alla portoghese. Sul ripiano della cucina c’era una strisciata di farina e vasetti di iogur vuoti. Ora ti faccio vedere una cosa fantastica, shit, una cosa che ho trovato in un cassetto, mi disse, e tirandomi per il braccio mi portò nella stanza di sua zia Chuchi che aveva un quadro dell’Ultima cena a rilievo sopra la testata del letto. Isora tirò fuori dal cassetto un accendino su cui si vedevano un uomo con un pisello molto lungo, come un chorizo perro, e una donna appoggiati a una palma su una spiaggia con la sabbia bianca. Isora muoveva l’accendino e, ogni volta, il pisello dell’uomo spariva dentro la donna oppure ricompariva, era un accendino con un disegno in treddì brillante. Bella porcata, dissi io. Shit, tu credi che mia zia fumi le canne?, mi domandò. Non lo so, magari gli hanno regalato l’accendino per il suo compleanno. E Isora lo rimise nel cassetto perché dal forno arrivava odore di bruciato.
Quando Isora mise la ciambella sul tavolo io stavo cercando di ingoiare il nodo che avevo in gola. Era rotonda, col buco in mezzo, e sopra era bruciacchiata. Isora mi disse mangiatela bella calda che è più buona. Mia madre dice che se la mangi calda ti viene maldipancia, gli risposi. Ma non è vero, shit, te lo dice perché così non la mangi e sopporti la fame. Lei sapeva sempre quando i grandi dicevano le bugie. Isora mi mise un pezzo di ciambella in un piattino e cominciai a mangiarla a poco a poco. Non era buona, ti restava sulla lingua un sapore di bicarbonato che sembrava di aver mandato giù una boccata d’acqua di una piscina piena di cloro. Mentre la mangiavo piano Isora mi raccontò che era stata una donna in chiesa a dire alla nonna che con la zuppa di cipolla si potevano perdere alla svelta tanti chili e che quello che doveva fare era mangiarsi la zuppa a colazione, pranzo e cena, e che era schifosissima, ma che se davvero se la mangiava alla fine sarebbe diventata supermagra come Rosarito, quella di Pasión. Isora prese il pentolone con dentro la zuppa che gli aveva preparato sua nonna e alzò il coperchio perché la vedessi coi miei occhi. Aveva un sacco di cipolle che galleggiavano come barche perse in un’acqua giallastra. Anch’io, pensai, volevo che la gente si preoccupasse della mia linea. L’unica che mi appoggiava sul mangiar poco era Isora, ma quando era a dieta non gli importava più molto se mangiavo tanto, perché voleva solo veder qualcuno mangiare al posto suo. Isora diceva sempre che il giorno in cui ci lasciavano raderci le gambe e diventavamo magre come Rosarito saremmo state felici, e io pensavo che era vero e che il giorno che mi toglievano i baffi sarebbe stato il più felice della mia vita.
Tra lo schifo dell’odore della zuppa di cipolla e quant’era cattiva la ciambella avevo voglia di sputare e di bere un goccio d’acqua, ma sopportai e mandai giù mentre Isora mi guardava prendere i pezzettini di ciambella briciola dopo briciola. Per lei, ogni movimento era importante. Gli piaceva guardarmi i diti che andavano dalla ciambella alla bocca e mentre mi fissava mi diceva di continuo mangialo così, mangialo cosà. Quando si alzò un momento per andare in bagno, mi avvicinai di corsa alla porta e dissi to’ Sinson, e gli diedi il pezzo di ciambella che mi restava. Il cane si mise a tossire coffcoff, perché la ciambella era asciutta e lui aveva il raschio in gola per la vecchiaia, ma riuscì a ingoiarselo intero, come quando nei documentari i serpenti si mangiavano i conigli senza masticarli, perché era abituato a ingoiare tutto quello che gli buttavano. Chela gli dava sempre un pastone di avanzi del pranzo, ossi e tutto.
Buono, eh, shit? Te ne do un altro fisquito?, mi disse Isora tornando. E io, invece di dire che non lo volevo, mossi la testa su e giù. Allora mi mise un altro pezzo su un tovagliolo e andammo a giocare alle barbi. Isora era attenta solo alla ciambella. Ogni volta che vedevo che la fissava, posavo la bambola, ne prendevo un po’ e me lo infilavo in bocca. Quel giorno le barbi vivevano in una finca a Redondo. Prendevano i servi a calci nel sedere dicendo lavora somaro che ti pago, fannullone che non sei altro. Mentre Isora tirava calci con una barbi all’unico ken che aveva, che facevamo finta fosse tanti schiavi diversi, io mi misi a pensare che non ero capace di dirgli che una cosa non mi piaceva, e che se lei me lo chiedeva, io lo facevo e basta, senza dire ba, come se io fossi stata un ken e lei una barbi che tira calci.
Quando nonna mi chiamò al telefono di Chela perché tornassi a casa a pranzo tutti gli schiavi erano ormai morti di fame e di caldo. Aiutai Isora a raccogliere le barbi e uscii dalla porta, ma prima che sparissi Isora mi gridò shiiiit, prenditi sto fisquito di ciambella, e mi venne dietro di corsa con due pezzi, ognuno nel suo tovagliolo. Li presi e me ne andai senza dire nulla perché facevo una gran fatica a separarmi da lei. Preferivo far finta di non andarmene. Mi avviai sulla salita e quando ero all’altezza dello stagno ci trovai Gaspa che puzzava di piscio. Gaspa era un cagnetto piccolo e isterico, grigio come un asino, con il pelo per niente morbido e i denti in fuori, come tutti i cani del barrio. Pensai di buttargli un pezzo di ciambella ma poi mi ricordai di Sinson, del suo coffcoff, e mi venne paura che gli raschiava la gola a morte, perché Gaspa era parecchio più vecchio di Sinson. Continuai a salire su quella pettata e Gaspa cominciò a seguirmi. Trascinava le zampe di dietro come se il corpo gli pesasse quanto cinque sacchi di cemento. Io non sapevo di chi era Gaspa, esattamente, avevo il sospetto che non lo volesse nessuno. Passammo davanti alla casa di Melva, e Gaspa mi si attaccava sempre di più alle gambe. Mi guardava le mani come fosse morto di fame. All’altezza della casa del cugino di nonna spuntò sulla strada un altro cane e anche lui cominciò a seguirmi. Era bianco con una macchia nera sull’occhio destro. Sembrava più morbido di Gaspa e più giovane. Gaspa, quando era più piccolino, era un vero attaccabrighe, ma col passare del tempo si era rammollito e non gli importava più degli altri cani. Gaspa e Chovi, lo chiamai così, camminavano accanto a me senza smettere di fissare la ciambella.
Continuammo a camminare in salita e quando dall’incrocio apparve la casa di nonna, avevo incollati dietro cinque cani di varie taglie e colori. C’erano Gaspa, Chovi, due cani da caccia abbandonati che spuntavano solo il martedì e il giovedì, quando passava il camion della spazzatura e la gente lasciava fuori i sacchetti, per farli a pezzi, e un altro piccolissimo e sconsumato che era il cane più brutto e puzzolente che avessi visto in vita mia. Mi seguirono fino alla porta. Li lasciai fuori. In cucina c’era già il mio piatto di zuppa in tavola. Non mi piaceva la menta e la tolsi. Cincischiai a lungo col cucchiaio ma alla fine non la mangiai tutta. Nonna mi lasciò mangiare lo stesso l’insalata russa e il pezzo di tortilla di patate con la salsa di pomodoro lybis, perché a casa di nonna non era obbligatorio mangiare tutto, potevi fare come ti pareva. Dopo mangiato, nonna mise la telenovela alla tv in cucina. A quell’ora mi veniva un abbiocco bestiale ma non dormivo perché non mi piaceva andare a letto di giorno. Mi alzai a bere un po’ d’acqua della cisterna dal secchio che stava sul ripiano davanti alla finestra. A mia madre non piaceva che bevessi l’acqua della cisterna perché diceva che non era trattata, ma io quando ero sola con nonna la bevevo lo stesso perché mi sembrava più saporita della Fonteide e a volte mi veniva la cacarella e la cosa mi faceva felice perché faceva felice Isora. Presi un po’ d’acqua con la tazza di alluminio di zio Ovidio. Mi misi a succhiarla coi denti premuti contro il bordo. L’acqua entrava pian pianino dallo spazio fra i denti davanti. Mi allungai un po’ per guardare fuori dalla finestra e lì di fronte, sdraiati all’entrata di casa di nonna, c’erano una decina di cani, alcuni addormentati, altri che si mordicchiavano le pulci. In alto, il cielo era tutto un nuvolone nero. Ora viene a piovere, pensai. Viene a piovere.