Mancava poco più di un mese alle feste del barrio e io morivo dalla voglia di vedere le bandierine appese a zizzà, fra un palo e l’altro della luce, dalla casa di doña Carmen all’angolo in cima alla mia strada, dove l’aria di festa si mischiava coi pini. Quell’estate il comitato non smise di chiedere soldi nemmeno un giorno. Nonna li sentiva ridere per la via, sentiva arrivare la macchina con gli altoparlanti e la musica di Pepe Benavente e gridava c’è il comitato delle feste!!! E io andavo di corsa a spegnere la tv e a chiudere le persiane. A razzo mi nascondevo nella rimessa e respiravo pianino perché non sapessero che eravamo in casa e non ci potessero chiedere soldi. Le volte in cui non reagivamo in tempo, perché toglievano il volume alla musica e non ci accorgevamo che stavano arrivando, quelli del comitato delle feste si avvicinavano alla porta e dicevano Almeriiiiiinda, esci fuori! E a nonna non restava altra scelta che aprire e dargli i quattro spiccioli che aveva messo da parte per pagare la spesa segnata al negozio quella settimana. Altre volte, se aveva solo due miseri euro nel portafoglio e loro avevano sentito la tele accesa, era nonna a infilarsi insieme a zio Ovidio nella rimessa e mandava me a aprire la porta. Vedevo gli uomini del comitato con le teste abbronzate e sudate e sopra i cappelli di paglia con scritto Dorada sul nastro rosso e i secchielli di alluminio per la raccolta dei soldi che gli penzolavano dalle mani e mi dicevano piccola, di’ a tua nonna che esca fuori, e io con il panico che mi paralizzava la bocca, perché non mi piaceva dire bugie, rispondevo che mia nonna non c’era, dovevano passare un altro giorno, e prima che potessero reagire chiudevo la porta a chiave.
Quel pomeriggio il comitato delle feste aveva fatto il giro delle case del barrio e aveva lasciato tutti spolpati come granchi. Io stavo giocando all’incrocio, dove la mia strada tagliava quella del Paso del Burro, con una bicicletta arrugginita che aveva dei pedali durissimi e appuntiti che mi graffiavano gli stinchi. Nonna uscì sulla porta e mi disse di andare a comprargli affettati e uova. Dall’incrocio vidi la sagoma di Isora giù in fondo alla via. Mi piaceva vederla arrivare, sentire i suoi passi sull’asfalto, il suolo tremava. Bastava vederla laggiù in fondo, nel punto dove la strada diventava quasi verticale, e sentivo una botta di gioia. Come entrare in mare dopo tanti anni. Isora si toglieva di continuo le mutande dal culo e questo la faceva camminare al ritmo di un’anatra zoppa con lo scignon. Da là lontano mi gridava shiiiiit! E io alzavo la mano.
Scendemmo saltando, perché Isora diceva che secondo lei poteva essere un modo di far prima. Il brutto di scendere così veloce era che a volte frenare diventava difficilissimo, perché tutto era talmente ripido che il peso del corpo ti buttava in avanti. All’altezza della casa di Melva incontrammo Ayoze e Mencey, due ragazzi un anno più piccoli di noi che però erano molto svegli. Stavano giocando a pallone e dovevano rincorrerlo tutto il tempo giù per la discesa perché il pallone gli scappava e a volte arrivava fin sotto la chiesa. Quel giorno stavano giocando sulla strada, ma di solito giocavano nel Campo di Cavoli Futbol Club, una specie di campo di calcio improvvisato in uno dei terreni dietro allo stagno. Dato che nel barrio era tutto così ripido, era ripido anche il Campo di Cavoli Futbol Club. I ragazzi avevano cercato di livellare il terreno mettendo aghi di pino e pietre nella parte più bassa, ma quando pioveva andava tutto affanculo. Dopo anni di ingiustizie, avevano deciso che la porta della squadra che stava dalla parte meno ripida era già mezza parata e i gol valevano il doppio. Ragazze, giochiamo a toccaculo?, ci domandarono quando videro che saltavamo giù per la strada. Io mi fermai ma Isora andò avanti e, dal basso, gridò no, noi giochiamo alle nostre cose. Mi piaceva da morire la capacità di Isora di dire no alla gente. Lei non aveva paura che non gli volessero più bene. Diceva quello che gli pareva tutte le volte che gli pareva. Mi girai e la seguii sveltasvelta perché mi venne paura che i ragazzi ci tirassero una pallonata per l’antipatia e quando raggiunsi Isora frenai premendo le scarpe da tennis contro l’asfalto. Isora si tolse di nuovo le mutande dal culo e mezza asfissiata, rossa paonazza, mi disse shit, hai mai visto il pisello di Sinson quando ce l’ha fuori? Non sembra un rossetto rosso?