Era il giorno della Candelaria e c’era la calima. Il cielo era tutto nuvoloni e terra. Io a volte pensavo che era colpa nostra se c’era tutta quella terra che volava nell’aria: la cappa di nubi nere che tappava il cielo non lasciava salire il nostro fiato e l’aria diventava sempre più pesante finché non cominciavamo a soffocare. Era il giorno della Candelaria, il giorno preferito di Isora, il giorno della sua madonnina nera, quella che teneva sempre appesa al collo, alla catenina, quella che si metteva in bocca e ciucciaciuccia tutto il tempo. Andai a cercarla alle prime luci del giorno e gli portai un mazzetto di acetoselle giallissime che avevo trovato in un angolo all’ingresso della casa di nonna. Ormai non c’erano più molte acetoselle, a dire la verità, perché più andava avanti l’estate più seccavano e bisognava aspettare l’inverno perché tornassero gialle e belle e potessimo succhiare le acetoselle come i capretti la tetta della capra, muà muà, che fresche.
Diedi il mazzetto di acetoselle a Isora, gli feci gli auguri e gli raccontai che Saray mi aveva chiamato al numero di nonna per sapere se volevamo andare a giocare in piscina. Saray aveva una piscina di plastica gigante. Il padre la montava nel campo accanto a casa, che non era di nessuno, non aveva un padrone. La riempivano all’inizio dell’estate con acqua della cisterna e anche se di tanto in tanto ci buttavano un pochino di cloro che gli portava Gracián (quello con le sopracciglia grosse come bruchi, che lavorava negli alberghi del Sud e puliva le piscine), a estate avanzata la piscina diventava verde, verde e paludosa, piena di muschio e animaletti morti e salterini, che all’inizio erano piccoli e poi grandi come i ghiozzetti delle pozze.
A me e a Isora piaceva da morire andare nella piscina di Saray, ma potevamo andarci solo quando ci invitava, perché la casa di Saray non era come il negozio, dove ci si poteva presentare sulla porta come se nulla fosse. Quando andavamo a giocare alle annegate e alle bagnine, che era il nostro gioco preferito nella piscina di Saray, c’era sempre una che annegava e due che facevano le bagnine. Quella che annegava doveva trattenere il respiro sott’acqua finché non si sentiva mezza tramortita per davvero e allora le bagnine andavano a salvarla. A me, a dire la verità, non mi piaceva molto fare l’annegata perché a volte la prendevo così sul serio che trattenevo il fiato finché la testa non mi diventava come un tamburo e mi faceva veramente malissimo. E poi se stavamo tanto sott’acqua, quando uscivamo ci veniva la faccia verde dal muschio e nonna mi sgridava.
Ci piaceva molto andare alla piscina di Saray anche perché i suoi genitori avevano un bar a El Amparo. Un bar paninoteca. Quando tornavano dal lavoro con il buio portavano panini e papas locas a tutte e tre, ormai morte di fame e di sonno. Ecco perché resistevamo a casa di Saray fino a tardi, per mangiarci i panini e le patatine fritte con le salse di tutti i colori. A Isora piaceva da morire il cruassan con uovo, lonza, formaggio e insalata e a me il tramezzino con la carne sfilacciata e il formaggio. A Saray portavano sempre una focaccina di mais con dentro solo formaggio e prosciutto perché poverina era delicata di stomaco, diceva mia madre, glielo aveva rovinato tutta la frittura del bar, poverina, ecco perché Isora diceva che era lei quella che andava a scacazzare in giro e non le streghe del Paso del Burro. Dopo, quando avevamo finito, io e Isora eravamo piene come zecche e lei andava quasi sempre a vomitare in un angolo del campo della piscina, urghurghurgh, come un cane col raschio in gola.
Mio padre diceva che Saray era un po’ strana perché i genitori la trattavano come un bebè. Aveva due anni più di noi ma a volte sembravano quattro di meno. La verità è che quella di noi due che andava più d’accordo con Saray ero io, non Isora. Io andavo più spesso a giocare con lei e la conoscevo meglio, più che altro perché la casa di Saray era attaccata alla mia. In generale a tutti piaceva di più Isora: perché era più sveglia, più tosta, aveva più pepe e più chiacchiera. Sapeva come parlare con i vecchi e anche con i giovani, io no. Saray era l’unica a preferire me.
Quel giorno Saray mi stava più appiccicata che mai. Quando giocavamo alle annegate e alle bagnine voleva sempre che noi due facessimo le bagnine e Isora l’annegata e questo a Isora non piaceva neanche un fisquito. Lo fece due volte solo per obbligo, perché era abituata a essere sempre lei quella che comandava nei giochi e stavolta invece a comandare era Saray, perché la piscina di plastica era sua e il terreno era suo, anche se non era propio suo ma se lo erano preso. La seconda volta che Isora dovette fare l’annegata uscì dalla piscina con la faccia verde di muschio e arrabbiatissima. Sembrava un pesce marcio e incazzato. Io non ci sto, carina, io l’annegata di merda non la faccio più, ma siamo matti, disse Isora quasi urlando. Va bene, va bene, va beneeeee, gli rispose Saray. Allora adesso giochiamo alle modelle, sentenziò. Il gioco delle modelle era un gioco che si era inventata Saray e era che una di noi era superbella per un giorno e si poteva mettere i vestiti della madre di Saray e truccarsi e sfilare sulle scale della casa di Saray, che erano a chiocciola e ci piacevano davvero da morire. Isora e io sognavamo di avere una scala a chiocciola quando da grandi avremmo abitato tutte e due nella stessa casa con i nostri mariti.
Uscimmo dalla piscina e così bagnate com’eravamo e senza ciabatte entrammo correndo in casa di Saray e salimmo le scale a chiocciola e entrammo nella camera matrimoniale. Lì, Saray aprì l’ultimo cassetto dell’armadio della madre. C’erano tanti vestiti di raso sbrilluccicanti con le paiett e le frange, roba di quando la madre di Saray era giovane e lavorava negli alberghi del Sud come aiutante di un mago, che infatti Saray diceva sempre che sua madre era famosa. E mentre Saray tirava fuori i vestiti più sexi dall’ultimo cassetto dell’armadio di sua madre, Isora dai nervi rosicchiava la catenina della Vergine della Candelaria. Saray mise tutti i vestiti sulla trapunta di raso fucsia del letto matrimoniale e si girò verso di noi. Quella che sarà superbella per un giorno seiiiii… tu, e indicò me. E a quel punto mi agitai davvero un casino perché era meglio che fosse Isora la superbella per un giorno, perché sapevo che non gli sarebbe piaciuto nemmeno un fisquito che Saray scegliesse me dopo la faccenda della piscina. Pfffffff, sul serio? Guarda, carina, che oggi è il mio onomastico! Dici sul serio? Io non ci sto e con voi non ci gioco più perché siete due egoiste, uffa, non si fa così, disse Isora con gli occhi di fuori dalla rabbia. E se ne andò nel bagno che c’era accanto alla camera matrimoniale e chiuse la porta. Ora tu ti siedi qui e io ti trucco, mi disse Saray. E siccome ero paralizzata dalla paura per quello che era appena successo, io mi sedetti sulla poltroncina da tualett della madre di Saray e gli lasciai fare quel che gli pareva.
Dopo avermi messo tutti i colori sgargianti che c’erano dentro il biuty dei trucchi e avermi obbligato a provare almeno sei vestiti, Saray mi disse che potevo andarmene, che lei era stanca e si metteva a dormire un pochino. Io non capivo come facesse una bambina a dormire di giorno come un bebè di tre mesi, ma obbedii, mi tolsi i vestiti e andai a bussare alla porta del bagno a Isora. Iso, andiamocene che Saray va a dormire. Oggi non restiamo per i panini?, mi domandò lei da dietro il legno della porta. No, dice che è stanca. E Isora aprì la porta e andò dritta alla scala a chiocciola senza aspettarmi. Io la seguii. Nell’ingresso della casa di Saray c’era uno specchio. Mi vidi la faccia, orribile. Le labbra col rossetto fuori dai bordi e gli occhi neri neri come le piume di un merlo. Con la faccia tutta sbavata raggiunsi di corsa Isora. Mi fissò e mi disse magari avessero truccato me il giorno della Candelaria. Sembrava più calma, strana, forse triste. Aveva gli occhi a posto. La catenina sul labbro di sotto, così stretta al collo che quasi gli tagliava la pelle. Guardava tutto il tempo l’asfalto, dava calcetti ai sassi per terra e sospirava. Si toglieva le mutande dal culo e sospirava. Arrivammo a casa di nonna e Isora rimase lì impalata, le braccia penzoloni, rigide come bastoni. Shit, tu sei mia amica?, mi domandò. Certo, sei l’amica più jarrapa che ho, gli risposi. No, dai, dico sul serio adesso. Sei mia amica davvero?, continuò. Ma sììììì che sono tua amica. Dei gatti gialli passarono di corsa sulla strada e li guardammo. Isora sospirò di nuovo e si tolse le mutande dal culo. Secondo te mia madre era bella?, mi disse di colpo. Sì, tua madre era bellissima. Nella foto sul comodino è superbella. Sì, aveva i capelli lisci come l’olio, più lisci di me, mi rispose. E si girò e si avviò giù per la strada. E io la guardai scendere a zigzag, con quella specie di saltello che veniva dal grattarsi il culo ogni tre passi. Quando arrivò all’incrocio si girò, piano, si girò piano piano come un vecchio col bastone e il berretto del ferramenta Los Dos Caminos. Shit, accompagnami fino a casa di Melva, per piacere, che io t’accompagno sempre.