Edwin Rivera

I ragazzini mi facevano tutti schifo ma credevo di dovermi innamorare di loro. Una volta, prima di addormentarmi, mentre i gufi piangevano dietro la finestra e io pensavo che i gufi erano le streghe della montagna trasformate in uccelli, mio padre mi disse di pensare a cose belle, perché se pensavo a cose belle e a cose che avrei voluto che mi succedessero, avrei preso sonno. Ricordo che cominciai a pensare a un bambino di scuola mia che credevo mi piacesse come fidanzato e m’immaginai di camminare con lui su per la strada, mano nella mano, in un giorno di solleone e funzionò, presi sonno. Così cominciai a farlo tutte le sere dopo e continuava a funzionare. Funzionava solo quello, anche se in realtà i bambini mi facevano abbastanza schifo, schifo come mi faceva schifo il puzzo del camion della spazzatura che saliva su dalla chiesa quando eravamo lì a giocare, schifo come mi facevano schifo i vermi bianchi che uscivano dai secchi della spazzatura e dai culi dei cani, e dei gatti, i vermi bianchi che nonna mi diceva che se mangiavo tanta cioccolata La Candelaria mi sarebbero usciti anche a me, schifo come mi faceva schifo il brodino che colava di sotto dai sacchetti della spazzatura, schifo come mi faceva schifo quella specie di terra che mia madre si toglieva dall’ombelico e che annusava quando nessuno la vedeva e che puzzava come se avessero tenuto per quattro anni un topo schiacciato nel fodero di una racchetta da tennis. Io pensavo che da grande avrei voluto un fidanzato come Jerry Rivera, grosso come un armadio, con la faccia pulita e ben rasata e i capelli pettinati all’indietro, lisciati con l’acqua. O come Edwin Rivera, suo fratello, che era altrettanto bello, ma un pochino meno. Però da grande. Da piccola non volevo che i bambini mi si avvicinassero.

Quel giorno io e Iso scendemmo al negozio dalla strada sterrata che passava dal Campo di Cavoli Futbol Club e lì c’erano Ayoze e Mencey che si sparavano cannonate da una porta all’altra. Le porte erano fatte con quattro pietroni, due e due per ogni lato. Isora passò dal centro del campo e loro cominciarono a gridargli dietro delle cose e io non volevo passare dal mezzo perché avevo paura che mi sparassero una pallonata tremenda, ma siccome Isora l’aveva fatto gli andai dietro come se nulla fosse. Fu tutto molto rapido. Quando arrivammo dall’altra parte del campo, Isora gli aveva già detto di sì, ci fermavamo a giocare con loro. Io non volevo giocare con Ayoze e Mencey, perché come mi succedeva con tutti i bambini tranne che con Juanita Banana, mi faceva schifo starci insieme. Erano animali e volevano giocare soltanto a toccaculo, ma anche Isora era un animale, ecco perché forse quel giorno voleva che giocassimo coi ragazzi, perché si era stufata di giocare alle barbi e alle criticone e alle casine e alle casette e alle superbelle e ai fannulloni e voleva giocare a impallinare gli uccelli o a far saltare per aria le cose. Successe tutto alla svelta, così alla svelta che senza nemmeno rendermene conto io ero già seduta dietro sulla bici di Mencey e Isora su quella di Ayoze. Ci portarono in un posto più in basso del negozio, parecchio lontano dal retro del bar di Antonio. Era un campo gigante di patate che in fondo aveva delle felci altissime, come un bosco dove non c’erano pini ma felci. Un bosco per gente piccola.

Saranno state le sette di sera di un giorno di metà agosto. Quando arrivava quell’ora il sole, invece di starsene nascosto dietro i nuvoloni grigi, cominciava a attaccarsi al colle di El Amparo. Lasciammo le biciclette per terra sul ciglio e partimmo correndo come capre sul campo di patate, che era grande quanto un campo da calcio, correndo e correndo e man mano che correvamo come capre strappavamo acetoselle e ce le infilavamo in bocca. Isora le succhiava e anche Ayoze e Mencey le succhiavano, io invece le mordevo e mi pizzicava il palato, un brivido in tutto il corpo, e correvamo più forte, ancora più forte, saltando le piante di patate e salendo sui sassi come capre ma, come diceva nonna, le capre vanno sempre al pericolo.

Quando arrivammo in fondo al campo dove ormai avevamo rovinato tutti i solchi di patate frenammo di colpo e sbattemmo contro i ragazzi e loro dissero uau!, guardando quant’erano alte le felci. Poi si misero a quattro zampe e cominciarono a camminare là sotto. Avanti e avanti finché non sparirono e non li vedemmo più perché il bosco di felci li aveva inghiottiti. Guardai Isora e mandai giù la saliva e la saliva era secca e la pelle dentro la bocca era ruvida per le acetoselle. Isora si mise a quattro zampe e s’infilò dentro il bosco di felci e mi disse dai, shit! No, Iso, se arrivo tardi mi sgridano e lei mi disse dai, shit, non fare la scema. Guardai il cielo e sul colle di El Amparo si vedeva il sole che era fortissimo. La luce mi graffiava le spalle e io sapevo che quando il sole era così forte da lì a poco cadeva la notte. Ma mi accucciai e seguii Isora. La seguii perché mi angosciava l’idea di allontanarmi da lei, di non vederla più fino al giorno dopo. La foresta di felci pian piano ci ingoiò, prima Isora e poi me.

Sentivamo i ragazzi che gridavano e ridevano più avanti ma non li trovavamo. Avanzavamo come due caprette perse che cercano le loro madri e io sentivo i sassi che mi si piantavano nei ginocchi e le felci che mi si infilavano nei capelli e a volte ci si aggrovigliavano così tanto che gridavo. Davanti alla faccia avevo il culo di Isora nella tuta strizzatissima e tagliata al ginocchio. Sotto si vedeva il segno delle mutande un po’ strappate a fiorellini rossi e bianchi che per di più trasparivano, e mi piaceva guardare il suo sederone che si muoveva, con le chiappe all’aria come diceva mia madre, tolòn tolòn diquaedilà. Si muoveva così in fretta e così bene che sembrava fosse una vita che gattonava dentro un bosco di felci.

Alla fine del tunnel c’era uno spiazzo senza niente, solo quattro alberi di fico e una montagna di macerie. I ragazzi stavano già tirando sassate ai fichi e li guardavano cadere e spiaccicarsi per terra senza smettere di ridere. Isora aveva il fiatone. Mencey prese la rincorsa e partì a razzo su per il mucchio di macerie e Isora lo seguì senza dirmi nulla, senza guardarmi. La rabbia mi ribolliva dentro. Ayoze mi disse ma siamo matti, lasciali perdere quei due buzzurri, andiamo in un posto superbello che c’è dietro i fichi. Io non avevo voglia di seguirlo, non avevo voglia di essere lì, non volevo veder scendere il sole fino a sfiorare la cima di El Amparo. Si stava facendo tardi e volevo solo prendere Isora per i capelli e ammazzarla, acchiapparla per i capelli e strascinarla per terra, stringerla, stringerla come fosse una lucertola, come i gattini quando gli volevo tanto bene e loro mi ignoravano e a me veniva solo voglia di strizzarli fino a fargli schizzar fuori gli occhi.

Le grida e le risate di Isora e Mencey si sentivano da lontano e io continuavo a camminare dietro Ayoze, svogliata, come chi si alza a far pipì a notte fonda e è un morto che cammina nei corridoi di casa. Arrivammo a una parete di pietra gigante dove c’era un buco buio. Ayoze mi disse di entrare, che c’era bello e fresco. Il buco nella roccia era una specie di grotta con un sacco di aghi di pino per terra. Puzzava di capra, di cacca di gatto, delle pieghe che hanno i cani fra i cuscinetti delle zampe. Sdraiati per terra, mi disse Ayoze. E perché, gli risposi. Perché sì, disse lui. E io mi sdraiai e lui mi saltò addosso e sentii il suo peso sul petto come una lastra di pietra fredda, e i sassolini del terreno mi si piantarono nella schiena. La bocca gli sapeva di uovo crudo, delle uova che prendevamo dal pollaio e che avevano delle macchioline di cacca di gallina quando nonna mi mandava a sceglierne uno per farmelo fritto e io li toccavo tutti cantando tin marín, de dos pingüé, cúcara, mátara, títere fue, e quello che usciva me lo friggeva.

Arrivò una zaffata di merda di gatto che veniva come dal vulcano e corse sul fondo della grotta. Mi mossi un po’ perché lo schifo mi prese come una pallonata allo stomaco, ma il ragazzino si schiacciò ancora di più a me e sentii che faceva qualcosa con le mani. Il vento fischiava. Devo andare o mia madre mi sgrida. Aspetta un fisquito, tirati giù i pantaloni, voglio provare una cosa. Per piacere, sul serio, Ayoze, mia madre si arrabbia. Un secondo e basta, mi rispose. E io mi tirai giù i pantaloni e lui mi afferrò le mutande e me le abbassò all’altezza delle cosce e allora mi ricordai che una volta avevo sognato che Isora mi regalava una vasca da bagno piena di gatti e che io, invece di fare il bagno nell’acqua, facevo il bagno nei peli dei gatti, e che poi non avevo più peli di gatti sui vestiti per sempre, e all’improvviso sentii una roba molle che mi entrava nella patata e pensai che mi si era bloccata la digestione, come una specie di nausea, come quando mio padre si era mangiato un ramo intero di nespole e un panino al formaggio bianco e era stato male con vomito e diarrea e mia madre gli aveva detto che il latte e le nespole non si possono mescolare, specie se poi ti metti a dormire subito dopo perché nella pancia cagliano e Ayoze respirava come un cane con la lingua fuori quando sta tutto il giorno nel patio sotto il solleone, un cane stracco, come diceva mio padre. Toby, bastardo!, gridò un uomo e Ayoze si tirò su svelto i pantaloni appoggiando il petto contro il mio. La puzza di uovo mi entrò nel naso come quando uno annusa una cosa che sa che si ricorderà per sempre, anche dopo anni e anni, e facendomi forza con la paura che mi mangiava dentro, mi tirai su anch’io le mutande e i pantaloni. Ayoze aveva i vestiti tutti sporchi di terra. Sulle gambe gli si vedevano dei piccoli peli che cominciavano a spuntargli come bullette. Mi alzai e cominciai a strapparmi a uno a uno i forasacchi e le lappole dalla camicia. Toooooby, sentimmo gridare di nuovo. Isora e Mencey scesero di corsa il pendio e ci raggiunsero. Iso, io vado, dissi. Iso, io vado, e basta, e me ne andai camminando sul bordo del campo, senza attraversare il bosco di felci. Quando arrivai dov’erano i solchi di patate e mi voltai indietro a guardare, il sole stava scomparendo dietro la cima di El Amparo. A quell’ora della sera le nuvole si aprivano per far passare la luce e adesso era tutto arancione, i pini, le piante di patata, la terra, il mare che mi diceva dove finiva il mondo.