Il giorno dopo il bosco di felci non andai a casa di Isora. Avevo le cosce e la patata piene di zecche e di pulci e mi prudeva tutto. Nonna passò la mattinata a togliermele e mi domandava di continuo dove cavolo mi ero ficcata, vedrai che sei andata a cercare dei cani abbandonati pieni di miseria e di pulci, perché sennò non mi spiego dove hai beccato tutte queste pulci. E sentendo scoppiare le pulci schiacciate fra le unghie ruvide di nonna e nonna che tossiva e diceva questo raschio in gola m’ammazza, sono bella conciata, tesoro, mi misi a piangere fortissimo, come quando ero caduta nella bordura di gerani e rose e mi ero punta tutta e non sapevo far altro che piangere. E a forza di vedermi piangere e piangere senza altre ragioni che le pulci e le zecche sulla patata e sulle gambe, nonna si intristì e cominciò a dirmi tesoro tu devi andare a farti segnare perché a me mi sa che ti sei presa un bello spavento, sei bianca come un cencio. E io sapevo, dentro il mio cuore sapevo, che le pulci e le zecche e lo spavento li avevo presi dentro la grotta, quando Isora mi aveva lasciato da sola, quando Isora mi aveva lasciato da sola per andarsene con uno zozzone di ragazzetto.
Il giorno dopo il bosco di felci, non volevo vedere Isora. Solo a pensare al suo nome mi saliva un veleno in gola. Passai tutta la mattina a guardare nonna che cosava le sue cose, come diceva lei. Facemmo colazione con una tazza di latte e pane e burro. Il pane lo portava la fornaia e aveva dentro l’anice. A me non piaceva l’anice e nonna me lo toglieva con i diti. Demmo da mangiare alle galline, pelammo le patate davanti alla televisione. Nonna si innervosiva sempre quando me le vedeva pelare. Diceva che toglievo mezzo chilo ogni patata. Ma io continuavo a pelarle con lo sguardo fisso su Walker Texas Ranger, che era il telefilm che piaceva di più a nonna. All’ora di pranzo, zio Ovi uscì dalla sua stanza e mangiammo le patate con alette fritte e mojo. Mi ricordai del modo in cui Isora mangiava le coscette di nonna, del modo in cui apriva e chiudeva la bocca come un cane malconcio, un cane perso nel bosco che non mangia da settimane e ingoia la roba marcia della spazzatura senza masticare. Isora mangiava facendo un rumore fortissimo, i suoi denti erano piedi che calpestavano le alghe di uno stagno vuoto.
Quando finimmo di pranzare, zio Ovidio si rinchiuse di nuovo nella sua stanza a vedere i film di Cantinflas, i suoi preferiti dopo le telenovele e Corazón Corazón. Alla tv era già iniziata la telenovela e io cominciai di nuovo a sentirmi prudere le punture sulla patata e sulle cosce. Strinsi forte i pugni. Mi tremarono le palpebre dallo sforzo di non grattarmi. Mi passò nella testa l’immagine di Isora che saliva su per il pendio con Mencey. Pensai a quando i piccioni sono deboli e indifesi e cadono dal nido perché il fratello ben nutrito li ha buttati fuori e loro si sfracellano per terra. Ecco cosa ero io, un uccello spennacchiato e pieno di pulci, un uccello col cuore stanco e il becco aperto, il becco aperto in attesa di Isora, delle sue parole, dell’odore di pane biscottato delle punte dei suoi capelli, del marciume nero che c’era sotto le sue unghie a raso come la bassa marea che striscia contro gli scogli. Mi venne voglia di piangere, volevo che nonna mi prendesse in braccio come un bimbo piccolo e che passassero subito quei due o tre giorni in cui avevo deciso di non parlare con Isora, perché sentivo già la sua mancanza. Ogni volta che ero arrabbiata con Isora mi piaceva immaginare di avere una disgrazia. Pensavo a rompermi una gamba o a bruciarmi un braccio col fornello così avrebbe capito quanto ero importante nella sua vita. Invece di bruciarmi o rompermi un osso, mi grattai da sopra le mutande così tanto che le punture volevano esplodere come il vulcano. Non piansi. Feci il muso ancora di più e continuai a guardare la tele. Nel frattempo nonna pelava patate per la cena. Dalla cucina si sentiva la risata acquosa di zio Ovidio, la sua risata come di pesce che soffoca. Zio Ovidio sempre triste, zio Ovidio sempre gobbo, che rideva da solo davanti alla telenovela o guardando i film di Cantinflas.
E propio allora suonò il telefono e andai di corsa a rispondere. Era lei. Sentii il suo respiro come una fitta, aveva la voce di chi sta mangiando caramelline gommose di nascosto, una voce da criceto con chili di semi in bocca e mi disse shit, vieni domani a giocare al canale? E anche se mi ero riproposta di odiarla gli dissi di sì e gli avrei detto di sì anche se mi avesse camminato sulla schiena con le pale dei fichi d’india come scarpe, anche se mi avesse sputato negli occhi, anche se. Riappesi e mentre tornavo in cucina continuavano in sottofondo le risate di zio Ovidio. Guardai fuori dalla finestra e mi chiesi perché zio Ovi se ne stava chiuso in casa da così tanti anni, perché era malato da così tanti anni, malato di mente diceva mia madre, malato matto, matto da legare, diceva mio nonno molti anni prima quando io ero piccolina e lui non se n’era ancora andato. E vidi il mare, il mare e il cielo che sembravano sempre la stessa cosa, la stessa massa grigia e compatta di tutti i giorni. Mi venne in mente che la tristezza della gente del barrio erano le nubi, le nubi piantate sulla collottola, sulla cima della colonna vertebrale, all’ora della telenovela.