Dopo la litigata con Isora al corso d’informatica avevo passato due giorni di seguito a giocare al ghemboy senza mai smettere. Avevo passato due giorni interi quasi senza parlare, con un male tremendo alla bocca per il cazzotto più il male al collo per aver tenuto il corpo rigido giocando ai pokemon per non pensare. Io in realtà non sapevo giocare per niente bene ai pokemon. Di solito era Isora quella che mi spiegava. Quando lei non c’era mi mettevo a combattere con centinaia e centinaia di ratikat nell’erba alta con uno squirtol che Isora un giorno aveva battezzato COGLIONAZZO. Nonna stava tutto il giorno a dirmi di uscire un fisquito fuori alla luce, che ero più scolorita di un gufo, che non potevo essere così moscia, ma io continuavo a far combattere i ratikat dentro e fuori le palestre dei pokemon e poi a leggere e rileggere gli stessi dialoghi con gli stessi fessi dello stesso schermo e con la bocca indolenzita per le labbra tutte gonfie come una che se le è appena operate, solo per non pensare a cosa m’era successo con Isora.
La mattina del terzo giorno, quando tirai fuori il ghemboy e lo posai sul tavolinetto della cucina mentre nonna mi toglieva i semini di anice dal pane, mi disse tesoro, vammi a comprare un fisquito di formaggio e di prosciutto e un fisquito di pane perché io sono troppo conciata per andare fin laggiù a piedi con le gambe che mi ritrovo. E io prima pensai che per nulla al mondo sarei andata al negozio a rivedere Isora, perché mi faceva ancora male la faccia dal cazzotto, perché avevo il cuoricino in mille pezzi e era difficile rimetterli insieme, perché solo a pensare alle grida dei kinki e alla faccia di Isora, Isora come se mi avesse ammazzato con una fucilata sotto la pioggia in mezzo a un bosco, mi si rovesciavano le budella. Ma poi mi misi a riflettere e pensai che poteva essere un bene che Isora mi vedesse andare a fare la spesa al negozio di sua nonna, io tranquilla che me ne sbattevo se non era più amica mia, manco io ero più amica sua, così capiva, gli era ben chiaro, che non mi sognavo di perdonarla e che me ne sbattevo della sua presenza, che ero capace di andare a comprare un fisquito di pane e un fisquito di affettati con lei lì davanti che mi vedeva entrare dalla porta, che mi vedeva entrare, con la sua faccia da anatra con lo scignon.
Uscii e mi avviai giù per la discesa con in testa il ritornello dei trecentocinquanta grammi di prosciutto e dei duecentocinquanta grammi di formaggio che mi aveva appena chiesto nonna. C’era la calima di fine agosto. Il cielo era ancora coperto come al solito da una cappa grigia e stanca di nubi basse. Quando nonna mi diceva i grammi di affettato che dovevo comprare, io cominciavo all’istante a ripetermeli senza mai smettere per non dimenticarli. Mi succedeva spesso che quando arrivavo al negozio vedevo Isora e mi mettevo a parlare con lei e smettevo di ripetermi in testa i grammi di affettato e poi dovevo chiamare nonna col telefono di Chela per sapere quanto dovevo portargli di ogni cosa. Ma quel giorno no, quel giorno ero sicura che non mi sarei dimenticata niente perché il mio scopo era che Isora vedesse che non avevo nessun bisogno di rivolgerle la parola.
Quando arrivai all’altezza del negozio c’era Sinson che strusciava il culo per terra come se gli prudesse qualcosa dentro le budella e volesse grattarsi tutto completo sull’asfalto. Dentro di me risi. Quando Sinson faceva così, ci piaceva da matti a me e a Isora e gli gridavamo forza Sinson grattati il culo! Ma mi trattenni perché volevo sembrare serissima quando entravo dalla porta del negozio. Dentro c’era Chela che serviva un ubriacone che chiamavano Ramoncín che si era comprato cinque cartoni di vino rosso e li aveva messi tutti belli in fila, uno accanto all’altro sul bancone, come se stesse giocando con le bambole. Chela stava segnando i cartoni di vino sul conto della moglie, che aveva già un paginone tutto scritto, e che girava sempre vestita di nero per il lutto del padre e piangeva dalla mattina alla sera perché il marito gli dava tanti dispiaceri, poverina. Chuchi tagliava gli affettati con la testa china e ascoltava le donne del barrio sparlare degli altri con sua madre. E laggiù, in fondo in fondo, in un angolino del negozio c’era Isora. La vidi e sentii una botta in fronte. Aveva dei pantaloni corti della tuta tagliati all’altezza delle cosce e lo stesso maglione di sempre a disegnini di cocomeri coi semi neri, la stessa maglia che la faceva sudare come un maiale. Era lei, ma sembrava un’altra persona. Una persona più grande, con molti più anni e molto più bella e più seria. Io mi domandai come cavolo faceva una a cambiare così tanto in soli tre giorni. Oh, bella, come va la bocca?, mi domandò Eulalia che stava aspettando che Chuchi gli desse degli affettati. Vvvene, gli risposi piano con sentimento, con una voce tremante da disgraziata, e puntai lo sguardo sull’angolo in cui Isora stava sistemando le lattine di mais. Non cambiò minimamente espressione, non si mosse per nulla. Ascoltò la mia voce come chi sente solo silenzio. Nemmeno Chuchi e Chela mi guardavano in faccia, non mi dissero nemmeno crepa. E io supposi che la faccenda della litigata fosse una vergogna per loro, che erano così famose e del centro del barrio.
Mi avvicinai al bancone degli affettati e come se vomitassi sparai fuori tutto di fila, tutto insieme senza pause, trettiemmezzodiprosciutto, duettiemmezzodiformaggio. Cosa????, mi disse Chuchi come se avesse un conato di schifo in gola. È che sta ragazzetta è scema e sua madre non se ne accorge!, gli gridò Chela continuando a segnare sul quaderno. Dalle quattrocento di prosciutto e trecento di formaggio. E Chuchi chinò la testa e cominciò a tagliare. La macchina ronzava avanti e indietro sulla palla di prosciutto e io guardai di nuovo Isora. Era impassibile. Morivo dalla voglia che mi guardasse per poter spostare gli occhi, per mostrargli la mia faccia piena d’odio, perché vedesse come mi aveva rovinato la bocca. Ma non mi guardò nemmeno un secondo. Arrivò Melva, quella che viveva più su del negozio, e lei e Chela e Eulalia cominciarono a spettegolare. Lala, ma lo sapevi che la figlia di Isabelita di Redondo è incinta?, disse Melva a Eulalia. Ma figurati, è quasi una bambina, rispose Eulalia. Invece ha già un bel cocomero, andò avanti Melva. E quale sarebbe, che ora non me la ricordo?, domandò Eulalia. La più piccola di tutte, disse Chela, quella che va in giro mezza nuda, dai, avrà quattordici o quindici anni. Chuchi passò gli affettati a Chela e gli chiesi pianissimo di darmi un pane. Mentre me lo dava continuava a spettegolare con le altre donne e nemmeno mi guardava. Infilò tutto dentro un sacchetto di plastica e cercò dritto la pagina dove era appuntato il nome di nonna. Strusciò il dito sul foglio a quadretti fino in fondo, finì la pagina e continuò a strusciare il dito su quella dopo, finché non arrivò alla quarta pagina, che era dove si concludeva la lista di acquisti a credito di nonna, segnò quello che avevamo preso stavolta e chiuse il quaderno.
Uscii dal negozio. Sentii che la pancia mi si riempiva di una brutta bestia, un lucertolone verde tutto attorcigliato che mi tirava calci dentro. Sinson uscì a abbaiare all’uomo che portava la pasticceria. Shhh, sta’ zitta, bestiaccia!, gli gridò Chela da dentro il negozio. Pensai alla lista di nonna, a quanto era lunga in confronto alle altre liste. Pensai che mia madre andava tutte le settimane a pagargli qualche cosetta, perché come diceva mio padre adesso guadagnavano soldi a palate, facevano un sacco di grana. Ma la lista di nonna era sempre lunghissima, lunga come due Isora una sopra l’altra, e capii che malgrado i soldi a palate, come diceva mio padre, né i griturismi né gli alberghi né i cantieri potevano salvare nonna da tutti i debiti che gli aveva lasciato nonno prima di andarsene. E senza accorgermene ero ormai all’altezza della casa del cugino di nonna. Il cugino di nonna che aveva due donne, la moglie che era una furba e la cognata che gli puliva tutta la casa e gli teneva anche la terra. Quando passai vidi la moglie seduta su una sedia di plastica, che si sventolava con la rivista delle offerte del super. Aveva un vestito a fiori, un cappellone azzurro e i tacchi alti rossi, gli occhi e le labbra truccati e lo smalto. La cognata era china nel campo a strappare l’erba, a strappare l’erba tutta piegata come un fico storto dal vento. Aveva la faccia come il tronco di un pino bruciato, tutta scura e screpolata. Era la stessa faccia di nonna, di doña Carmen, di mia madre, una faccia che arrivava come da un altro tempo, come dall’epoca in cui la gente viveva nelle caverne e dormiva con i cani per terra, quando non c’erano asfalto, betoniere, centro culturale, negozio, bar, chiesa, bmw rasoterra, ghemboy, bebiborn con il buchino per la pipì, cellulari con la cover, messenge. Come quando non esisteva Isora e non esistevo nemmeno io, come quando noi due non eravamo amiche, come non lo eravamo adesso.