Andai a cercare Isora prestissimo, appena fece giorno. Scesi sulla strada piano piano come chi cammina con la luce spenta. Scesi pensando a lei, a quello che volevo dirle quando la vedevo in faccia. Pensai che non avrei retto un’altra settimana senza essere sua amica, che per me era lo stesso se facevo la figura della pappamolla, del verme strisciante. Pensai che ero un verme strisciante. Ma non mi importava di essere un verme strisciante. La cercai con gli occhi all’incrocio, giù in fondo alla strada, dove il mare e il cielo di nuvole si confondevano. La immaginai accucciata come una cagna da caccia, che ingoiava il mangime di Sinson senza masticarlo, là a un angolo della strada. Gli occhi di fuori, il tanfo di spazzatura fra i denti e lacrime terrose che gli segnavano la faccia sporca. Perdonami shit, perdonami, immaginai che mi diceva.
Quando arrivai il negozio era ancora chiuso. Sinson si stava rosicchiando la punta della coda con quei quattro denti in croce che gli restavano in bocca. La porta sul retro era aperta, come sempre. Scivolai nel corridoio e la trovai in bagno, davanti allo specchio, che si raccoglieva i capelli come tutti i giorni. Isora se li pettinava ben stretti sul cranio, con l’acqua. Bagnava il pettine e si tirava la pelle della testa. Li arrotolava strettissimi ma gli restavano comunque dei riccioli fuori. I capelli gli crescevano troppo vicino agli occhi. Sembrava una ragazzina dei tempi dei Guanci. Così scura, con gli occhi come due luci verdi accese, la testa stretta, la fossetta nel mento sempre più grande. La fossetta nel mento quasi come un nido di picchio, perfetta, rotonda, come scavata col becco.
Isora mi vide arrivare nello specchio. Mi disse shit, andiamo a camminare a Redondo, dove finisce il barrio, che sono stufa di vedere sempre le stesse cose. Me lo disse senza girare la testa, lo disse al mio riflesso nel vetro appannato, sporco, pieno di macchie di umidità negli angoli. Me lo disse così, come se non mi avesse mai spaccato la bocca con un cazzotto. E io gli risposi va bene, Iso, andiamo, così, come se non mi avesse mai spaccato la bocca. Poi si mise a lavarsi i denti. Era senza maglietta. Portava un reggiseno elastico bianco che Chela gli aveva comprato da El 99 quando Isora aveva compiuto nove anni e gli era venuto il ciclo propio il giorno del suo compleanno. Sputò sangue perché si lavava i denti sempre troppo forte. Si sciacquò una volta sola, si lasciò tutta la bocca e il petto macchiati di dentifricio. Aprì il rubinetto e l’acqua portò via quella mescolanza rosa sottoterra. Nella mia testa vidi il sangue di Isora che viaggiava nelle tubature dell’acqua, fin dentro l’isola. Si passò il braccio sulla bocca e tolse il pizzicorino di menta che gli restava sui baffetti. Si sedette sulla tazza e rimase lì a guardarmi come un cane che fa la cacca in un campo. Aveva un assorbente macchiato di nero di quelli che puzzano di sacchetto della spazzatura. Non era il ciclo, era catrame sciolto. La guardai e per un attimo provai vergogna. Lei si pulì e si alzò. Gli vidi la patata appena rasata, tutta piena di ponfi rossi, tutta irritata. Volevo abbracciarla, sentire le sue budella che mescolavano latte e gofio dentro il suo corpo come una betoniera a tutta velocità. Non feci nulla, come al solito. Aspettai che finisse di vestirsi e ce ne andammo.
Ci avviammo sulla strada del canale. Io camminavo dietro a Isora. Isora andava piano, spostando le frasche con le mani, facendomi rimbalzare addosso i rami di erica. Io camminavo fissandole i capelli raccolti. Non m’importava non saper tornare da sola nei posti. Isora era la mia guida di El Drago e io la sua turista zozzona. Come quando non sapevo dire che ora era e Isora guardava il suo orologio di winnipù e mi diceva mezzogiorno e un quarto e io ero sicura che era vero, che era mezzogiorno e un quarto, e così non mi preoccupavo mai di imparare quelle cose che lei sapeva fare così bene, come leggere l’ora sull’orologio a muro della cucina, fare le addizioni e le sottrazioni con i diti, contare i soldi, sbucciare una mela, calcolare quante caramelle gommose si potevano comprare con un euro, tirarsi su oppure no le mutande quando un ragazzino te le abbassava in una grotta, arrivare fino in fondo al barrio dalla strada del canale.
Passammo sopra i lastroni rotti dove ci lavavamo i piedi. Isora si fermò, si abbassò i pantaloni e le mutande e ci pisciò dentro. Pipì con sangue per la gente di sotto, disse scuotendosi svelta sull’acqua che scorreva via. Continuammo a camminare e arrivammo dove finivano i lastroni del canale. Imboccammo uno sterrato. Ai lati c’erano muri bianchi e ruvidi e ci passammo sopra i diti per sentire le palline nella pittura. Più avanti, quasi in fondo alla strada, c’era un cancello verde con su scritto ATENZIONE CANE PERICOLOSO e accanto ATENZIONE VELENO. E due bestioni enormi cominciarono a abbaiare da dietro. Zittoooo brutto bastardo, gli gridò Isora lanciandogli sassi da sopra il cancello, cane del cazzo, bastardo di merda, stronzo! Ci incollammo al lato opposto della strada e passammo in fretta, come quando vedevamo un film di paura e poi di notte dovevamo andare a far pipì. Isora mi prese per il braccio e mi disse attenta shit che lì ci abita la strega Gloria che ha vissuto un mucchio di anni a Cuba e ha imparato la stregoneria, e indicò una casetta piccola con un vetro rotto alla finestra. E tu come fai a sapere che ci vive una strega?, dissi io. Mia nonna mi ha raccontato che una volta ci portò mia madre perché gli segnasse lo spavento che non gli andava mai via. E è cattiva?, le domandai. No, non è cattiva, aiuta la gente a risolvere i problemi, rispose. E allora perché tua madre non l’ha curata?, dissi io. Mi si rizzarono tutti i peletti del braccio. Isora non disse nulla. Continuammo a camminare, io appiccicata a lei, lei tenendomi forte per il braccio, così forte che mi bruciava.
Arrivammo su uno spiazzo deserto. Enorme. Con sgommate di moto e derapate per terra. Propio lì accanto, in un angolo accanto a un susino c’era un cartello vecchio e sporco che diceva REDONDO. Tutto sto terreno era del mio bisnonno José Casiano, mi disse Isora indicando il terrapieno. Tutto?, le domandai. Sì, shit, tutto. E ora lo usano per fare le corse con le moto e le minimoto. Dice la bitch che lei non l’ha conosciuto ma che era ricco e grasso e fumava sigari in Venezuela. Davvero? Sì, la bitch non l’ha conosciuto perché dicono che aveva centoundici figli con più di quaranta donne diverse. Tutte le sere andava a letto con una donna differente. Maddai, sul serio?, gli domandai un po’ diffidente perché a volte non capivo se s’inventava le cose, centoundici figli sono una marea. Già, ma immagino che avesse molta voglia di scopare perché sennò mica fai così tanti figli. Doveva avere il pisello distrutto, mi sa. Be’ sì, per forza, risposi. Io continuavo a non capire bene come si facevano i bambini. Piano piano, con cautela, arrivammo al cartello che diceva REDONDO. Strappammo delle foglie di acetosa e ci mettemmo a mangiarle. Isora si fermò di colpo. Shit, mi disse guardandomi negli occhi. Che c’è?, gli domandai. Ho paura a andare avanti. Perché?, dissi io un po’ spaventata. Ho un po’ paura a uscire dal barrio, disse con la tremarella alle mani. Ci sedemmo su un sasso che era lì. Rimasi zitta. Guardai il cielo e le nuvole si stavano muovendo. Erano molto scure, molto vicine alle nostre teste. Pensai adesso piove. Anche a me fa un fisquito di paura, a dire il vero, gli dissi poi. Dissi così, ma a dire il vero non mi faceva paura andare avanti. Non mi faceva nemmeno un fisquito di paura, a dire il vero.
Tornammo indietro che la pioggia stava già inzuppando tutto. Tornammo indietro passando dai cani che abbaiavano indemoniati e vedemmo la vecchia Gloria che raccoglieva i panni stesi davanti casa. Da lontano Isora alzò la mano, gli mostrò il dito medio e gridò fack you bitch uitch! E scappò di corsa a tutta velocità trascinandomi via per il braccio. Corremmo e corremmo finché non arrivammo quasi all’altezza del canale. Passò un vecchio con un sacco di tegasaste per i conigli sulla schiena. Damián ciaoooo, gli disse Isora senza smettere di correre. Ciao, bimba, quanto tempo che non ti vedevo, con questa nebbia eri uguale uguale a tua madre, gli rispose lui da sotto il sacco. Isora respirava svelta, sembrava che il cuore gli saltasse fuori di gola. Passammo accanto ai lastroni sollevati. L’acqua trasportava chili e chili di aghi di pino. Attraversammo il canale in fretta e furia. Si scivolava. Alla fine feci un capitombolo. Mi bagnai tutta la schiena, mi graffiai tutte le mani e i gomiti. Non è nulla, shit, mi disse Isora con la faccia grondante. Mi alzai da terra e riprendemmo a correre. Pioveva come se fosse la fine del mondo. Laggiù in basso, sul mare grande e nero i lampi spezzavano le nubi. Arrivammo sul retro del centro culturale e Isora s’infilò sotto una tettoia. Mi disse shit, vieni qui sotto finché non passa un fisquito la pioggia. Ci sedemmo tutte e due per terra. Eravamo quasi d’acqua, Isora e io, da tanto eravamo bagnate. Shit, ci diamo un bacio da fidanzati?, mi disse all’improvviso. Va bene, gli risposi alzando le spalle. Chiuse gli occhi e unì le sue labbra alle mie. Io le lasciai aperte. Avevo la sua faccia così vicina che non riuscivo a vedere nulla. Mi faceva ancora male il cazzotto, avevo ancora le labbra gonfie. Aprii la bocca con forza e tirai fuori la lingua. Sentii le sue ciglia sulla faccia. Erano lunghissime, pungevano come aghi. La lingua di Isora era fredda, un pezzo di ghiaccio. Una lingua come la neve sopra il vulcano addormentato.