Nota della traduttrice

Quando ho letto per la prima volta Pancia d’asino, mi è tornata alla mente un’espressione dei miei nonni – forse perché tra i personaggi importanti della storia ci sono due nonne vere e una d’elezione – che per spiegare l’impetuosa vitalità dei ragazzini, la loro invincibile irrequietezza dicevano: è carne che cresce. La protagonista, carne che cresce, deve lasciare un’infanzia selvaggia, perennemente coperta di nuvole, fra quattro case inerpicate sulle falde di un vulcano, e cercare con coraggio il suo posto nel mondo, un mondo estraneo che inizia dal suo corpo, dai nuovi desideri che lo muovono, da una penosa incapacità di reagire alle violenze. Accanto a lei un’amica tiranna, amata e ammirata fino all’odio, e tutto intorno l’isola di Tenerife con le sue irraggiungibili spiagge per ricchi turisti.

Tradurre un libro così vivo non è stato facile, a partire dalla variante dello spagnolo in cui è scritto, e cioè la lingua delle Canarie (anzi del quartiere Los Piquetes, a Icod de los Vinos) che si manifesta non solo a livello lessicale, scivolando talvolta addirittura nel repertorio familiare, ma anche sul piano della grafia, che ama trascrivere la pronuncia ignorando ogni convenzione. La variante geografica mischia i suoi tratti a quelli dell’oralità in generale e del parlato preadolescenziale in particolare, senza tuttavia creare – grazie al contesto – ostacoli insormontabili per un lettore «forestiero». La lista delle difficoltà offerte da Pancia d’asino non termina qui: la scrittura è animata da una grande musicalità, specie là dove fiorisce in una prosa poetica molto intensa, priva di punteggiatura; il ritmo del fraseggio ricorda a tratti un cuore che pulsa in una corsa a perdifiato.

Non potendo utilizzare un dialetto italiano per restituire i tratti delle Canarie, perché sarebbe stato straniante far chiacchierare due ragazzine di Tenerife in sardo, per esempio, o in siciliano, ho lavorato molto sul piano diastratico, quello della provenienza socioculturale e del livello di istruzione (oltre che dell’età), aspetti che nel romanzo coincidono ampiamente con l’uso del dialetto e che fra l’altro mi sono sembrati in armonia con il discorso politico soggiacente, con la rivendicazione di un’identità sotto molti aspetti più che marginale. In sintesi, ho attinto all’italiano neo-standard manipolandolo a livello lessicale e sintattico e ho rispettato più possibile i culturemi, le parole indissolubilmente legate alla realtà canaria, scegliendo spesso di operare prestiti che consentivano di conservare certe sonorità, quasi certi sapori, perché Pancia d’asino sollecita tutti i sensi e spero che i lettori possano apprezzarne appieno, anche in traduzione, il gusto frizzante e aspro come le acetoselle dei campi che succhiano le due ragazzine nelle loro scorribande. Un gusto frizzante, aspro e lungo, lunghissimo, perché questo è un libro che ti resta dentro.

ILIDE CARMIGNANI