Testo e immagine

L’osservazione diretta dei codici, sottraendo i testi al loro carattere astratto, senz’altra corporeità che quella linguistica, ha reso più attenti all’intervento, nella confezione del manufatto, di categorie diverse di decoratori. I paleografi hanno sempre avuto cura di notare la presenza e la qualità di elementi decorativi come le rubriche, i capo-lettera colorati (di solito alternativamente in rosso e blu) e altre fioriture marginali. Queste caratteristiche a volte definiscono la bottega in cui il codice è stato prodotto e sempre un certo livello di eleganza, e quindi di costo, e quindi di livello del committente del libro.

Un elemento che non sfuggiva certo all’attenzione dei paleografi e dei redattori dei preziosi cataloghi dei manoscritti era la presenza, oltre che di annotazioni di possesso, del blasone d’armi di colui che ne aveva ordinato la confezione o che lo aveva acquistato per le sue collezioni. Si tratta dello scudo che reca le armi del casato, di solito con qualche particolare che vale ad identificare il singolo possessore nell’ambito della famiglia.

Questo primo foglio recto del codice latino 6381 della Bibliothèque Nationale de France di Parigi, che contiene il De clementia di Seneca, reca in alto alla prima colonna le armi di Normandia (due leoni d’oro passanti in campo rosso). La decorazione dei margini data il codice con sicurezza alla seconda metà del secolo XV e in questo periodo solo un personaggio ha portato le armi di Normandia. Si tratta di Carlo di Francia, fratello cadetto del re Luigi XI e suo erede fino alla nascita nel 1470 del futuro Carlo VIII. Il nostro Carlo aveva ottenuto dal fratello il titolo di duca di Normandia nel 1465 e nel 1469 sarà fatto duca di Guienna. Il codice di Seneca è stato dunque realizzato tra 1465 e 1469.

Foto di una pagina del De clementia.

Seneca, De clementia, BNF, Cod. lat. 6381, f. 1r. Paris, Cliché Bibliothèque Nationale de France.

Queste immagini sono spesso belle e comunque utilissime per ricostruire la storia del codice. Diverso è però il caso dell’illustrazione vera e propria. In questo caso le immagini integrano il testo, ne sono parte altrettanto essenziale che le frasi o i versi, e devono quindi essere tenute in conto dai filologi, soprattutto se è presumibile o sicuro che esse risalgano all’autore stesso.

L’uso di immagini nei libri risale certamente all’antichità, già al rotolo che ha preceduto il codice come tipologia libraria. I testi scientifici, ad esempio astronomici o medici, sono stati sempre accompagnati da disegni, indispensabili per la loro comprensione. In questo caso gli editori moderni per lo più si sono resi conto della inseparabilità di testo e figure e li hanno stampati insieme. Un esempio di grandissima qualità di immagini funzionali al testo è il codice Vaticano Palatino latino 1071, che contiene il De arte venandi cum avibus di Federico II di Svevia, con splendide immagini faunistiche.

Ma le immagini accompagnavano alcune volte anche i testi letterari. Abbiamo ancora un Virgilio tardo-antico illustrato, che risale al IV o al V secolo ed oggi è uno dei tesori della Biblioteca Apostolica Vaticana, il codice Vaticano Latino 3225. In questo caso è impossibile che le illustrazioni siano state volute e suggerite dall’autore, ma le figure sono sempre importantissime perché ci dicono spesso come i copisti, e quindi i lettori, intendessero il testo. In primo luogo, è lecito ipotizzare che le immagini accompagnino i passi che erano ritenuti più rilevanti (quale che fosse caso per caso la ragione di tale rilevanza). In secondo luogo, come i copisti medievali attualizzavano la lingua del testo che copiavano, altrettanto spontaneamente rendevano in forme comprensibili ai loro contemporanei le immagini che si trovavano davanti. Nel medioevo il concetto di copia non corrispondeva a quello moderno: la copia era una ricreazione dell’originale, e la copia di immagini ancor più di quella di testi.

Un codice delle commedie di Terenzio, il Vaticano Latino 3868, è stato copiato in età carolingia su un manoscritto tardo-antico e ne riproduce con una certa fedeltà le immagini: i personaggi portano le maschere a suo tempo in uso e sono abbigliati con abiti e calzature di epoca imperiale. Questo codice fu poi più volte copiato e man mano la tipologia delle miniature andò deteriorandosi. All’inizio del secolo XV sono stati prodotti a Parigi due Terenzi (quello detto di Martin Gauge, Bibliothèque Nationale, latino 7907A, e quello detto dei duchi, Bibliothèque de l’Arsenal 664) che discendono da questo filone figurativo; ma in questi codici, magnificamente illustrati, i personaggi sono abbigliati come era normale all’inizio del secolo XV e si muovono in ambiente del tutto tardo-medievale. Confrontiamo due immagini. La prima è dal codice carolingio, dove illustra la prima scena dell’Andria; sono rappresentati Simo, Socia e due schiavi che portano a casa vivande:

Terenzio, prima scena dall’Andria, miniatura da Terenzio, Commedie, BAV, Vat. Lat. 3868, f. 4v. © 2012 Biblioteca Apostolica Vaticana, riprodotta per gentile concessione, ogni diritto riservato.

Terenzio, prima scena dall’Andria, miniatura da Terenzio, Commedie, BAV, Vat. Lat. 3868, f. 4v. © 2012 Biblioteca Apostolica Vaticana, riprodotta per gentile concessione, ogni diritto riservato.

La seconda è dal Terenzio di Martin Gauge e illustra il ratto di Callidia; due personaggi, uno dei quali armato, tirano fuori la donna da una casa mentre un terzo osserva la scena; abiti ed edifici non hanno nulla di antico:

Ratto di Callidia.

Ratto di Callidia, da Martin Gauge, Terenzio, BNF, lat. 7907A, f. 77v. Paris, Cliché Bibliothèque Nationale de France.

La tradizione di illustrare le opere letterarie non si è fermata mai. Se le immagini di Gustave Doré, che sono la più diffusa traduzione visiva della Commedia di Dante, non hanno nulla a che fare con l’epoca del poeta (una tradizione figurativa del poema esiste fin dal Trecento, ma è assai diversa), è Alessandro Manzoni in persona ad avere seguito con suggerimenti e proposte di modifica il lavoro di Francesco Gonin, che illustrò con incisioni l’edizione del 1840, quella definitiva, dei Promessi sposi. Le immagini di Lucia e di Renzo, di don Abbondio e della monaca di Monza che sono rimaste legate ai personaggi sono dunque quelle volute dallo scrittore e le figure di Gonin fanno in certo modo parte integrante del romanzo: è grave che la maggior parte delle edizioni moderne dei Promessi sposi presentino il testo senza immagini. Questa è, ad esempio, la vignetta, molto romantica, che illustra il famoso «Addio, monti» di Lucia:

Addio ai monti.

Francesco Gonin, Addio ai monti.