L’assetto grafico e linguistico

Una volta che sia stato deciso quale formula applicare per la costituzione sostanziale del testo che dobbiamo pubblicare, va dunque risolto il problema della sua forma linguistica. Conviene fermarsi ancora un momento su questo. I due aspetti, quello sostanziale e quello formale, non possono essere affrontati applicando una stessa formula, in primo luogo perché dal medioevo ad oggi tutti i copisti, chi più chi meno, hanno considerato modificabile l’aspetto grafico del testo che copiavano, ritenendo che esso meritasse una attenzione molto minore di quella che dedicavano alla sostanza del testo. Un copista veneziano che trascriveva un testo fiorentino, anche se si proponeva grande fedeltà alla sostanza, non aveva la stessa cura per la grafia, per la fonetica, per la morfologia, aspetti ai quali applicava automaticamente, senza problemi, le proprie consuetudini.

Da ciò consegue che, anche se si è convinti della opportunità di una applicazione automatica del metodo di Lachmann, per l’assetto grafico non si può procedere alla ricostruzione sulla base degli accertamenti stemmatici. Un metodo simile ha come risultato un testo straordinariamente mescidato e che, in buona sostanza, come tale non è mai esistito. Quando dunque abbiamo un testo tràdito da una pluralità di testimoni, anche se abbiamo ragionevolmente concluso per una costituzione testuale basata su più manoscritti, è necessario che scegliamo uno di essi per adottarne le forme linguistiche. Sarebbe opportuno che si scegliesse tale codice sulla base non solo della sua posizione nella storia della tradizione (e dunque nello stemma che la riassume), che dovrà essere quanto più alta possibile, ma anche della sua provenienza geografica, e quindi linguistica, che dovrebbe essere identica o vicina a quella dell’autore.

Questo principio determina spesso serie difficoltà. Faccio l’esempio della Divina Commedia di Dante. In assenza di qualsiasi autografo dantesco, fin dal lontano studio di Ernesto Giacomo Parodi (1896), l’analisi delle rime ha permesso di accertare che il poema è sostanzialmente scritto non in un generico toscano, ma proprio in fiorentino. Ma Dante ha trascorso fuori della città natale tutto il periodo in cui ha composto la Commedia e tra i manoscritti più antichi quelli di mano settentrionale sono parecchi ed autorevoli. In questa situazione gli editori si sono barcamenati, di solito confidando per la grafia in codici che fossero insieme stemmaticamente autorevoli e di mano fiorentina.

Recentemente Federico Sanguineti ha invece creduto di poter sostenere che la famiglia più autorevole è quella in cui il principale testimone, il codice Vaticano Urbinate latino 366, è di area emiliano-romagnola. Ciò sarebbe anche coerente con la circostanza che è in Romagna dove Dante ha vissuto gli ultimi anni e terminato il poema. Ne consegue però che la recente edizione Sanguineti della Commedia, che assume l’Urbinate come «buon manoscritto», cioè come manoscritto di base, ha dovuto eliminare un certo numero di tratti linguistici e grafici estranei al fiorentino, intervenendo sul testo numerosissime volte. Fino a che punto ciò è accettabile? Se la ricostruzione che Sanguineti fa della storia della tradizione risultasse errata, il problema si risolverebbe da sé. Ma se essa fosse non controvertibile, si porrebbe seriamente il problema se sia realistico leggere la Commedia in una forma linguistica non del tutto fiorentina oppure largamente ritoccata dall’editore. Potremmo accettarlo?

Non mancano nella letteratura medievale casi in cui non è possibile sfuggire ad una situazione del genere. Si pensi alla lirica dei poeti siciliani della corte sveva. La loro tradizione manoscritta, salvo importanti ma minuscole eccezioni, è interamente toscana e la lingua dei codici risulta per quanto possibile toscanizzata, al punto che solo le rime garantiscono che la forma originaria fosse ‘siciliana’, quale che sia il senso di questa parola per il secolo XIII. Le ritraduzioni in siciliano, un siciliano peraltro senza il conforto di riscontri contemporanei, quali sono state le edizioni realizzate da Salvatore Santangelo e dal suo allievo Bruno Panvini, sono del tutto inaccettabili in quanto non sorrette da alcuna base testimoniale e fondate solo su ipotesi non solo non dimostrate ma indimostrabili. Il restauro linguistico di un testo è sostanzialmente impossibile, tranne che per singole forme.

Poiché molto spesso si può rimanere in dubbio, in mancanza di autografi, se le forme linguistiche che accogliamo a testo in ragione dell’analisi della tradizione e alla scelta del manoscritto di base risalgano effettivamente all’autore, sarebbe meglio che, quando le usiamo come documenti linguistici, esse venissero sempre attribuite al testimone che le contiene effettivamente piuttosto che all’inattingibile originale. Ad esempio, citare una forma grafica o morfologica come appartenente a Giovanni Villani invece che al manoscritto in cui la troviamo, è sostanzialmente improprio.

Il caso opposto è quello in cui l’editore dispone di un autografo. Qui siamo portati ad adottare senza esitazione il criterio che Rosario Coluccia formula in queste parole: «il testo [autografo] andrà pubblicato rispettandone le più minute particolarità, senza trascurare alcun dettaglio, senza interventi immotivati, senza indulgere a tentazioni di tipo ammodernante o uniformante».

Se però riflettiamo su questo problema ci accorgiamo che questo criterio, che sostanzialmente avvicina, fino a identificarle, edizione critica e riproduzione digitale dell’autografo, è esposto ad un pericolo che, in termini generali, Michel Zink ha formulato di recente, come ho già detto, in forma paradossale: l’edizione risulta talmente sofisticata da respingere i normali lettori.

Torniamo dunque ad un problema che abbiamo toccato e che non è affatto superficiale: per quali lettori è fatta un’edizione? Non possiamo accettare che il perfezionismo uccida la lettura dei testi classici. Essi sono il fondamento della nostra cultura, non il patrimonio esclusivo di noi filologi. Come scrive Rico, il testo critico è un compromesso tra esigenze diverse e quindi un compromesso il cui risultato è variabile in rapporto ai fattori che entrano in gioco.

È evidente che la formula di Coluccia è adatta, anzi è l’unica accettabile, per una edizione destinata agli studiosi. Essa è applicata, per fare un esempio recente, all’edizione dei Ricordi di Francesco Guicciardini ad opera di Giovanni Palumbo. Ma se l’edizione è destinata ai molti lettori che un’opera come i Ricordi guicciardiniani può avere, ed è bene che abbia, allora essa deve abbandonare questo criterio ed adattarsi a quello che il lettore medio può accettare.

Nel caso dei testi propriamente italiani (non dialettali), la cui lingua è sostanzialmente stabile dal toscano medievale ad oggi, il problema si riduce alla grafia. Adattare il lessico è comunque impensabile; fonetica, morfologia e sintassi non possono che restare quelle che sono, tutt’al più con note che chiariscano i casi più oscuri. Ma la grafia? Su alcuni interventi non ci sono molte esitazioni. Tutti gli editori che non mirino ad una riproduzione diplomatica adottano l’uso moderno per le maiuscole e minuscole, non conservano sostituendola con s, distinguono u vocale e v consonante come si fa dal Cinquecento in poi, ricorrono ai diacritici (accenti, ecc.) come usiamo oggi.

I problemi sono altri, come possiamo mostrare subito. Nei testi medievali ch ha funzioni molto diverse. Faccio l’esempio dei testi siciliani antichi. Qui accanto a citati e Sicilia possiamo trovare chitati e Sichilia, ed anche chamandu per ‘chiamando’ o mercha dove basterebbe merca, e perfino ischachati ‘scacciati’, dove il digramma ha due funzioni diverse nella stessa parola.

Michele Barbi, seguito da Gianfranco Contini, aveva ritenuto che fosse necessario rendere il valore fonematico dei segni antichi, senza conservarne la forma grafica, che spesso può indurre in errore. L’uso più recente propende per il rispetto integrale della grafia, ma al prezzo di rendere il testo più ostico da leggere. Vale la pena, quando non si tratti di edizioni puramente scientifiche? Ne dubito. Una storia della grafia è necessaria e quindi sono necessari testi che la rendano possibile, conservando le grafie in uso nei diversi secoli e nelle diverse regioni, ma non tutti i lettori sono interessati a questo aspetto.

Del resto, problemi del genere non si risolvono in opposizioni secche. Nelle scritture antiche, ma anche in quelle di qualche secolo fa, la punteggiatura o è quasi inesistente o segue norme assai diverse da quelle cui siamo abituati. Una edizione diplomatica darà ovviamente i pochi segni esistenti nei testimoni; a maggior ragione se essi sono autografi. Ma sarebbe accettabile una edizione della Divina Commedia quasi senza segni di interpunzione?

Anche qui sembra indispensabile distinguere tra edizioni che permettano lo studio della storia della punteggiatura, ma che inevitabilmente saranno riservate a pochi, ed edizioni che aggiungano questo importante ausilio a soccorso del lettore. Naturalmente la punteggiatura non è neutra: essa, come si è detto, può cambiare il senso del testo. Si tratta di un punto delicatissimo, che investe in pieno la responsabilità degli editori, i quali non possono, a mio parere, scaricarne il peso sui lettori. Io trovo incomoda finanche la scarsissima e spesso ambigua punteggiatura delle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, quale si legge nell’edizione dei Meridiani Mondadori.

Lo stesso vale per tutti gli elementi del paratesto. Non c’è dubbio che gli a-capo dei manoscritti e perfino la scelta tra pagine ad una o a più colonne non siano affatto privi di significato. Ma trovo che lasciare nelle nostre edizioni paragrafi lunghissimi e pagine prive di spazio e di luce valga a dare al lettore l’impressione che lo si voglia respingere, mentre nei codici ciò è giustificato per il risparmio di spazio (e quindi di costo) che tali caratteristiche implicano.