Il commento

Non è raro il caso di edizioni critiche del tutto prive di note. Così accade nelle edizioni classiche della Teubner o di Oxford e così, sia pure per ragioni diverse, nella pregevole collezione degli Scrittori d’Italia, che Benedetto Croce creò un secolo fa presso Laterza. Egli intendeva che il lettore non dovesse essere influenzato da nulla nel suo rapporto diretto e immediato con il classico.

A me pare che questo principio sia di validità molto dubbia. L’operazione di costituzione del testo non può essere effettuata, in nessun caso, se l’editore non ha piena comprensione del testo stesso. Ne consegue che l’editore al momento di costituire il testo deve possedere le informazioni che sono poi necessarie anche al lettore per comprenderlo bene. Non si vede dunque perché l’editore non debba fornirle al futuro lettore attraverso le note. Ancora più grave è la circostanza che non sempre il testo sarà chiarissimo e che mi pare doveroso che l’editore dica come lo ha capito lui e non lasci il futuro lettore nel dubbio.

Anche trascurando il problema dell’ambiguità, che toccavo or ora, resta il fatto che ogni testo fa implicito riferimento ad un universo di conoscenze che può anche essere condiviso con un lettore contemporaneo ma risulta sempre meno ovvio man mano che il tempo passa. Per produrre una edizione soddisfacente il filologo deve recuperare, se possibile, l’integrità di questa vera e propria enciclopedia mentale. Perché non dovrebbe mettere questo recupero a disposizione del lettore, costringendolo o a non capire o a capire approssimativamente o a rifare il lavoro che egli ha fatto? Se è così, s’intende che un testo contemporaneo in genere non avrà bisogno di annotazione, ma questa diventerà opportuna man mano che aumenta la distanza tra autore e lettore e sarà assolutamente necessaria quando questa distanza è forte ed implica un vero e proprio mutamento culturale.

Anticamente i commenti erano riservati ai maggiori classici, a quelli studiati nelle scuole. Nella letteratura latina il classico per eccellenza, a cui è riservato il commento, era Virgilio. Un po’ diversa è la funzione del commento al testo biblico e di quello ai testi giuridici, tipologie che risalgono anch’esse molto addietro nel tempo. Ha dunque un grande significato che la Divina Commedia sia stata oggetto di commenti fin dai primi anni dopo la morte di Dante, a cominciare da quelli dei suoi figli, prima Jacopo e poi Pietro. I testi di Petrarca e Boccaccio hanno dovuto attendere molto tempo prima di essere ritenuti degni (o bisognosi) di commento.

Sui testi che hanno una tradizione secolare di commento si è accumulata una tale mole di annotazioni da porre seriamente il problema se conservare e riprodurre questo enorme insieme sia un vantaggio o un danno. Ai giorni nostri collezioni come la Pléiade in Francia o i Meridiani in Italia usano fornire dopo i testi, che di norma non hanno note a piè di pagina, una massa sempre crescente di annotazioni, tale da superare a volte di molto l’ampiezza del testo commentato e da rendere difficile al lettore di ritrovare le informazioni essenziali delle quali ha bisogno. Anche le annotazioni che accompagnano i testi greci e latini pubblicati dalla benemerita Fondazione Valla, testi che sono tendenzialmente critici, mirano ad una esaustività di commento che finisce per limitarne l’uso allo specialista.

Faccio qualche esempio dai Meridiani Mondadori. Se si considera la loro traiettoria, magari partendo da quei Classici Mondadori degli anni Trenta del Novecento, dei quali sono di fatto i discendenti, si osserva, specialmente (ma non solo) nel caso in cui una stessa opera ha avuto più di una edizione, una crescita allarmante dell’apparato di commento. I Meridiani non hanno note a piè di pagina, ma in questo modo il fenomeno metastatico è ancora più libero di prodursi. I primi Meridiani, tutti inferiori alle 700-800 pagine, hanno smilze introduzioni ed asciutte note ai testi, che includono, oltre alle informazioni essenziali, qualche forma di brevi commenti. Il rapporto tra testo e paratesto, tutto considerato, non mi pare che sia mai inferiore al 90% a favore del primo. Se prendiamo però i volumi recenti, non solo la loro dimensione risulta molto accresciuta, ma il rapporto testo/paratesto si è modificato in maniera impressionante, fino ai casi in cui il paratesto è più esteso del testo. E non mi riferisco solo al caso eccezionale dei Poeti della Scuola Siciliana, il cui testo occuperebbe poche centinaia di pagine e che qui occupa tre volumi per un totale di più di 3500 pagine, questa volta anche con le note a piè di pagina. La grande edizione pirandelliana a suo tempo promossa da Giovanni Macchia, essendo stata completata nell’arco di parecchi decenni, ha visto al suo interno questo sviluppo irrefrenabile del paratesto. Il primo volume dei romanzi, uscito nel 1973 ad opera di Mario Costanzo, ha 1208 pagine e un rapporto di più del 70% tra testo e paratesto; il primo volume del teatro, pubblicato tredici anni più tardi, nel 1986, è di 1140 pagine; l’ultimo, cui ho collaborato io stesso una quindicina di anni dopo, giunge a oltre 2000 (e debbo dire che a me, ultimo arrivato, è stato imposto un limite strettissimo, che ho rispettato).

Si badi che quanto sto dicendo si applica perfettamente alla Pléiade francese, che dei Meridiani è il modello, tanto che quando in Italia le due serie sono finite allo stesso editore, questi ha giustamente chiuso la meno ampia. Il volume I delle Oeuvres complètes di Lafontaine, pubblicato nel 1991, ha un totale di 1726 pagine, delle quali 929 contengono Fables et Contes, mentre 797 sono occupate dal paratesto; il testo occupa dunque appena un po’ più del 55% del volume.

Non intendo affatto dire che gli studiosi che hanno collaborato a questi volumi, e quindi io stesso, abbiano fatto opera inutile. Il problema è un altro: per chi si fanno questi commenti? Quale è il lettore che, volendo leggere i Sei personaggi in cerca d’autore, che nell’edizione di Alessandro D’Amico occupano 108 pagine, è disposto ad aggiungervi, anche a non parlare dell’introduzione generale, quella alla singola opera (32 pagine), poi la nota al testo, con gli apparati filologici e le note vere e proprie (altre 116 pagine)? La risposta non può che essere: solo lo specialista, lo studioso.

E il lettore comune? Se costui non si lascia spaventare ed è in grado di affrontare la spesa relativa (che non mi pare il problema più grave: i Meridiani in fondo costano poco), probabilmente legge solo il testo pirandelliano. E fa bene, anche se il suo comportamento è analogo a quello del cliente di un ristorante che ordinasse un pranzo di molte portate e ne mangiasse solo una, lasciando anche i contorni. Ma c’è ancora uno svantaggio: pur disponendo di (ed avendo pagato) apparati critici monumentali, questo lettore non ha sottomano la risposta, per esempio, al problema di come mai in Tutto per bene Palma Lori sposi due volte in due giorni successivi: il fatto è che prima del Concordato del 1929 il matrimonio civile si celebrava di norma il giorno precedente rispetto a quello religioso, che era considerato il vero matrimonio.

Dice a ragione Francesco Bruni, a questo proposito:

si pensi all’edizione di Pirandello nei Meridiani, ricchissima di varianti interessanti per l’elaborazione espressiva della prosa dello scrittore, rimaste, salvo errore, non sfruttate. Da un lato è da notare che troppe volte gli studi italianistici rinunciano pigramente all’informazione disponibile; dall’altro l’eccesso dell’informazione disponibile soverchia l’interprete, che trascura di guardare gli apparati. Governare l’eccesso dell’informazione è come si sa un problema non secondario nell’era di Internet. In filologia, la possibilità di edizioni in rete che offrano al lettore un testo corredato da tutti i testimoni che lo trasmettono, riprodotti in rete o digitalizzati, è un’ulteriore opportunità che rischia di tradursi in consultazioni occasionali o in una sorta di turismo codicologico, a svantaggio della lettura sequenziale e continuativa richiesta, per la sua natura, dal testo verbale.

Non voglio generare equivoci: edizioni come quelle dei Meridiani sono fondamentali e più che opportune, ma è miracoloso, a mio avviso, che permettano le tirature che di fatto hanno. Temo che non sia per questa via che si possa assicurare una larga conoscenza dei classici. Nei paesi che meglio del nostro diffondono i loro classici (ed anche, in traduzione, quelli in altre lingue) le strategie seguite dalle case editrici sono diverse. Collezioni come i Meridiani esistono, ma non sempre, e sono riservate a una fascia ristretta di lettori; commenti personalistici o sovrabbondanti ci sono, ma restano fuori dai circuiti comuni (e in particolare dalla scuola), salvo che in casi contati, come le opere di Shakespeare (il cui caso corrisponde a quello di Dante). Il classico circola in volumi di piccolo formato, ma non per questo sempre di scadente qualità: basti citare la Everyman’s Library inglese, che oltretutto – per fare un esempio importante – dei romanzi di Dickens riproduce le illustrazioni originali mentre nessuna edizione tascabile dei Promessi sposi, che io sappia, ci dà le illustrazioni di Gonin, che pure sono parte integrante dell’edizione del 1840. Forse conviene approfondire il discorso, facendo l’esempio del David Copperfield di Dickens, appunto in questa collezione. Il volume, rilegato, di pagine 930, costa £ 12,99 (ma in genere viene venduto con sconti fino al 50%). Il romanzo vero e proprio occupa 877 pagine, cioè circa il 95% del totale. C’è una introduzione di 15 pagine, una bibliografia di 2, una cronologia di 8, più la lista dei personaggi e la prefazione dell’autore (una pagina!), e in appendice 11 pagine di G.K. Chesterton. Neppure una nota. Chi compra questo volume legge Dickens e, praticamente, solo Dickens.

Ma torniamo al problema del commento. Avrete capito che ritengo opportuno, anzi necessario, il commento, ma penso che i tipi di commento di cui ho parlato non favoriscano una vera e profonda conoscenza dei classici. Devo apertamente dichiararmi per il commento di servizio, quello che cerca di prevedere le esigenze di integrazione o di chiarimento del lettore e vi risponde nel modo più coinciso e più sicuro. Questo tipo di commento è tutt’altro che sconosciuto tra noi. Lo propugnò Gianfranco Contini, almeno a partire dalla sua edizione delle Rime di Dante del 1939. Se si esaminano i risultati nei volumetti da lui dedicati più tardi a edizioni non scientifiche (non parlo quindi del Fiore e solo in parte dei Poeti del Duecento) si osserva facilmente che le note sono riportabili ai tipi seguenti:

a) informazioni sulle persone e i luoghi citati nel testo ed oggi non più facilmente riconoscibili da parte del lettore;

b) significati di parole o modi di dire obsoleti o locali o poco comuni,

c) informazioni sulle fonti e su eventuali riscontri.

Questo sembra un programma ovvio e anche facile da mettere in pratica, ma non lo è. Intanto postula che il commentatore, per così dire, sparisca dietro il testo, che non è cosa che tutti gli studiosi accettino di fare. Poi suppone la capacità di prevedere le domande/esigenze del lettore, che non è quanto lo studioso sia abituato a fare. Infine, ed è forse l’aspetto più impervio, impone una grande sicurezza nella informazione: il poco che si dice deve essere assolutamente preciso. Gianfranco Contini poteva proporselo ed anche metterlo in pratica per la straordinaria solidità della propria dottrina. Altri si rivelano incauti e pasticcioni.

So bene che non mancano certo tra noi edizioni il cui commento risponde più o meno coscientemente al programma continiano, che poi corrisponde al buon senso. Temo di dover dire che spesso l’informazione fattuale è lacunosa e quella linguistica è di norma superficiale o francamente errata. Non mi permetto di esemplificare questo severo giudizio con dati di fatto, che peraltro ciascuno di noi potrebbe facilmente esibire, che non possono non riguardare studiosi attivi e peraltro rispettabili. Ma si ha l’impressione, da modesti utenti di libri pur benemeriti, che l’annotatore non ritenga che sia il caso di spiegare luoghi e persone di cui oggi si è persa la memoria (ma che i normali repertori permettono di individuare con sicurezza). Per le difficoltà linguistiche, che non sono affatto poche anche in testi dell’Ottocento (penso a Nievo o a Verga), il commentatore si fida della propria competenza di parlante colto, senza ricorrere ai vocabolari storici e men che meno ad opere più complesse. In Francia ci sono voluti decenni perché i letterati imparassero ad usare il Französisches Etymologisches Wörterbuch, l’inventario di tutto il patrimonio lessicale (lingue e dialetti) della Francia, in Italia non mi pare di avere ancora visto mai citato nei commenti il corrispondente, ancora incompleto, Lessico Etimologico Italiano. Senza pretendere tanto, quanti commentatori si sono accorti che un’opera diffusissima e di uso facile come il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Cortelazzo e Zolli può risultare preziosa?

Conviene non passare sotto silenzio che in Spagna è stata sperimentata, per iniziativa di Francisco Rico, una formula mista che potrebbe essere presa in considerazione anche da noi. La Biblioteca clásica, da lui diretta, ha sdoppiato il commento: a piè di pagina il lettore trova le informazioni essenziali, un commento diciamo di tipo continiano; ma in fondo al volume, con l’apparato critico vero e proprio e quant’altro, si trovano note di grande estensione e approfondimento, a volte lunghe parecchie pagine. In questo modo, se volete leggere Cervantes senza troppi problemi ma con ogni aiuto indispensabile, specialmente linguistico, vi fermerete alle note a piè di pagina, ma se avete interessi più specialistici quanto è nel commento finale risponde ad ogni vostra curiosità. I due piani sono collegati da opportuni richiami dal primo al secondo. La collezione non si sottrae al gigantismo metastatico e specialistico del tipo Pléiade e simili, ma lo confina alla fine del libro in modo da non disturbare la lettura ‘ingenua’. Può accadere che un intero volume sia dedicato al commentario, ma il testo rimane quale lo cerca il lettore meno professionale, annotato ma in modo asciutto.