Se basti l’analisi linguistica

Quando abbiamo esaminato le definizioni lessicali, un altro punto che aveva suscitato i nostri dubbi era la preminenza o addirittura l’esclusività data, tra i metodi applicati alla filologia, all’analisi linguistica. Che lo studio di un documento il quale, sia scritto che orale, ha una natura ed una sostanza linguistica debba presupporre nello studioso adeguate conoscenze della lingua in cui esso è redatto è assolutamente ovvio. Una categoria a parte è quella formata dai testi redatti in una lingua che ci è ignota, per esempio una delle tante degli indiani d’America, o in una grafia che non siamo in grado di interpretare, come accade, per fare un esempio famoso, per il disco di Festo, il reperto cretese di ceramica (del 1700 a.C. circa) con una indecifrabile iscrizione a spirale. È indubbio che anche essi vadano sottoposti ad analisi linguistica, ma addirittura per cercare di individuare quale sia la lingua in cui furono redatti, quindi a quel livello preliminare di analisi che in generale per noi è reso superfluo dall’immediato riconoscimento della lingua con cui abbiamo a che fare.

Altrettanto evidente è che il testo debba essere interpretato nella sua veste linguistica nel modo più accurato possibile e che quindi la conoscenza della lingua in questione da parte dello studioso debba essere vasta e sicura. A me non è chiaro a quale tipo di analisi linguistica ci si riferisse nelle definizioni dei lessici. Spesso nelle edizioni italiane sono carenti (o del tutto assenti) anche i glossari. Abbiamo visto che l’analisi linguistica è tanto costitutiva della filologia da aver permesso che in alcune tradizioni ‘filologia’ inclini verso il significato di ‘linguistica’ (appunto come linguistica storica), sicché non sarebbe necessario specificarne l’opportunità. Ma per il momento quello che ci chiediamo è se l’analisi linguistica elementare (ripeto: indispensabile) sia l’unico tipo di analisi necessario per il filologo.

Che la risposta sia negativa è evidente. Ciò in ragione della stessa ricchezza di conoscenze che sono implicite e necessarie nella conoscenza della lingua. Se noi siamo in grado di comprendere ciò che ci viene detto o che sentiamo dire, non è soltanto perché conosciamo la lingua in cui questi enunciati sono formulati ma perché siamo capaci di risalire a quella che è stata chiamata l’enciclopedia di conoscenze che condividiamo con chi parla o scrive.

Per mostrare l’importanza di questi aspetti comincio da un aneddoto relativo al primo anno di partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale. Un ufficiale italiano di origine palermitana cade subito prigioniero degli Inglesi in Africa settentrionale ed è rinchiuso in un campo di concentramento in India; egli può scrivere alla moglie in Italia brevi messaggi che, dopo essere stati sottoposti alla censura inglese, sono inoltrati dalla Croce Rossa Internazionale; la moglie riceve così una cartolina in cui l’ufficiale le dice di trovarsi assai bene, come se fosse ospitato al Grand Hotel Ucciardone. Il censore inglese probabilmente conosceva bene la lingua italiana ma la sua enciclopedia mentale non includeva l’informazione che a Palermo non esiste un Grand Hotel Ucciardone ma un (ben noto) carcere dell’Ucciardone. Così aveva lasciato passare un’informazione che avrebbe dovuto cancellare.

Si può essere ambigui anche in ragione di circostanze non linguistiche, che quindi vanno accertate per evitare di esserne tratti in inganno. Ricorro ancora una volta ad un aneddoto, sulla cui autenticità non posso giurare. Tra i firmatari dell’appello antifascista di Benedetto Croce nel 1925 si dice ce ne fosse uno di animo pavido che, quando un funzionario del Partito o della polizia gli rinfacciò minacciosamente il suo operato, rispose candidamente: «Il fatto è che nel momento in cui il senatore [Croce], a casa sua, mi chiese se volevo firmare il suo appello, dalla camera accanto la signora Adele [la moglie di Croce] mi domandò se volessi rimanere con loro a cena. Il mio ‘Sì’ era una risposta alla signora, ma il senatore capì che era rivolto a lui e mi incluse tra i sottoscrittori del suo appello».

Passiamo ai testi letterari e ad esempi più seri. Si ricorderà che la rovina dei Malavoglia comincia con il naufragio di una barca carica di lupini. Nessuno chiosa questo termine, dando per scontato, penso, che si tratti della leguminosa color giallo chiaro che fino a poco tempo fa si mangiava bollita e sgusciata. Ma a Napoli si chiamano lupini, e sono molto diffusi, anche dei crostacei simili alle vongole, sicché il lettore napoletano interpreta la pagina di Verga in modo diverso da quello di altre regioni, tanto più che pare ovvio che dei pescatori trasportino crostacei e non legumi. L’equivoco è minimo, e tutto sommato non è grave, ma mostra bene come la differenza tra le enciclopedie di conoscenze dei diversi lettori possa avere influenza sulla comprensione del testo.

Se noi abbiamo bisogno di annotare i nostri classici, è proprio perché una quantità di informazioni che sono indispensabili per una compiuta comprensione di un testo del passato ci sono ormai estranee. Né si tratta solo di usi linguistici. Per questi, c’è almeno l’estraneità della forma a indicarci che dobbiamo stare attenti al significato. Più pericoloso è il caso che ci si riferisca tacitamente a persone, a cose o ad usi che al tempo di chi scrive erano normali e poi sono stati abbandonati. Man mano che il tempo passa, anche gli scritti di autori più vicini a noi hanno bisogno di chiose di questo genere.

Ricordiamo tutti che il tema dominante della Coscienza di Zeno di Italo Svevo è la rinuncia a fumare sigarette, sempre ripetuta e mai realizzata. Questo tema è ancora comprensibile perché il fumo, per quanto non più praticato da una buona parte della popolazione, è ancora una esperienza quotidiana. Ma se e quando esso sarà ridotto ad un costume marginale di pochi, capire cosa significasse per Svevo questo tema comporterà lo sforzo che dobbiamo fare con altri testi dell’Ottocento che pongono al centro il fumo dell’oppio o il consumo dell’assenzio, che oggi appaiono molto rétro.

Ci si è chiesti più volte se non sia diventata necessaria una nota esplicita al verso dantesco sull’Italia, «non donna di province ma bordello» (Dante, Purgatorio, VI, 78) in ragione del fatto che l’ultima parola ha ormai soprattutto (o soltanto?) il significato in origine traslato di ‘confusione, rumore confuso’ e non tutti hanno chiaro cosa fosse e come funzionasse l’istituzione così denominata.

Siamo ancora sul filo del dubbio sulla necessità di chiarire a cosa si riferisca un testo italiano (da Verga a Pirandello e oltre) che parli di delitto d’onore. Forse anche per la durevole fortuna di qualche film, si ricorda ancora che nel codice penale italiano, fino al 1981, era prevista un’attenuante per chi uccidesse per vendicare il suo onore macchiato, cioè – per essere chiari – per un marito che assassinasse la moglie che lo aveva tradito e il suo amante (e più raramente per una moglie che ammazzasse il marito e la sua amante). Tra qualche tempo nessuno ricorderà più l’esistenza di questa norma.

Come si potrebbe mettere correttamente a fuoco un grande romanzo come Der Zauberberg (La Montagna incantata) di Thomas Mann se non si tenesse presente la grande diffusione della tubercolosi tra fine Ottocento e primo Novecento e la conseguente fortuna dei sanatori sulle montagne svizzere? Il sanatorio è però un luogo pericolosamente contaminato dalla malattia, analogamente a quanto accade con il colera nella laguna di Der Tod in Venedig (Morte a Venezia) dello stesso autore, in cui la città è avvolta nei miasmi del contagio. In ambedue i casi è naturale e fortissima la fascinazione della morte; i sottili ragionamenti di Hans Castorp e dei suoi compagni come l’introspezione impietosa di Gustav von Aschenbach portano i segni del loro tempo, ma in ambedue i casi è necessario sapere cosa significasse nei primi decenni del Novecento il sanatorio in montagna o la vacanza al Lido di Venezia.