Non sempre si presta la dovuta attenzione alla domanda per chi sia stato scritto un testo, per quanto sia evidente che la risposta corretta è essenziale per intendere bene il testo in questione. Naturalmente parlo della opportunità di individuare chi sia stato il destinatario intenzionale del testo, colui o coloro per i quali l’autore ha scritto; cosa diversa, e importante, è stabilire se tale destinatario coincida con il lettore reale del passato. Va da sé che un testo che non sia contemporaneo non è stato di certo scritto pensando allo studioso che oggi lo esamina. Tenere presente questa circostanza è dunque tanto più importante per tutti i testi di culture lontane dalla nostra o per la maggior parte dei testi del passato di cui noi non siamo i destinatari intenzionali. L’autore, allora come oggi, si rivolgeva ad un pubblico di cui sapeva calcolare le attese e prevedere le reazioni al proprio testo, ma non calcolava le nostre; a nostra volta noi possiamo reagire al testo, e intenderlo, in modo assai diverso da come lui aveva previsto e voluto.
Un esempio servirà a chiarire l’aspetto più semplice, ma anche più grave e però più diffuso, di quanto voglio dire. Torno al mio Jean Froissart, ricordando che egli ha scritto verso la fine del secolo XIV quattro ponderosi volumi di Chroniques, che riguardano la prima parte di quella che noi chiamiamo guerra dei Cento Anni, tra Francia e Inghilterra. La stesura lo ha occupato per parecchi decenni, durante i quali egli ha potuto godere del mecenatismo di diversi grandi nobili dell’epoca, dalla regina Isabella d’Inghilterra, al cui servizio ha trascorso gli anni della gioventù, al duca di Brabante, a Louis de Châtillon, conte di Blois. Froissart era nato a Valenciennes, oggi in Francia, ma allora appartenente al Sacro Romano Impero, in quanto parte della contea di Hainaut. Non era suddito del re di Francia, come non lo era del re d’Inghilterra. In Inghilterra aveva vissuto a lungo e poi era tornato sul continente, frequentando membri influenti dell’alta società francese, come il signore di Coucy, e soggiornando più volte a Parigi.
Quali che fossero i suoi protettori del momento, egli destinava la sua opera al ceto aristocratico e cavalleresco del suo tempo, di cui voleva consegnare a memoria perenne le imprese e nei cui valori si identificava. Questi valori erano riconosciuti da tutti i membri del ceto, quale che fosse la provenienza o l’obbedienza dei singoli. L’interminabile contesa tra Francia e Inghilterra aveva origine da un problema di diritto feudale: il re d’Inghilterra, in quanto duca di Aquitania, era vassallo del re di Francia, di cui peraltro era pari grado in quanto re d’Inghilterra. Gli attriti erano continui, perché i vassalli aquitani avevano il diritto di appellarsi al parlamento di Parigi contro le sentenze del loro sovrano. La situazione precipitò quando a ciò si aggiunse l’incerto diritto di successione al trono stesso di Francia alla morte di Carlo IV, l’ultimo del ramo diretto dei Capetingi, avvenuta nel 1328. I titoli del giovane re d’Inghilterra, Edoardo III, erano maggiori di quelli di altri pretendenti, anche se egli discendeva dai Capetingi per via femminile; Edoardo però era stato scartato a favore del più maturo ed esperto Filippo di Valois, che era discendente più lontano, ma per via maschile, e che garantiva meglio l’aristocrazia del regno di Francia. Che tra Francesi e Inglesi ci fosse antica antipatia è probabile, ma non più di quanto accada dovunque tra gruppi sociali vicini, senza che vi si mescolasse ancora alcuna ideologia nazionalistica. Del resto non c’è dubbio che l’aristocrazia cavalleresca dei due paesi aveva le stesse abitudini, frequenti legami di parentela e identici valori: l’onore e la gloria militare, soprattutto.
Sono proprio questi i valori che Froissart intendeva celebrare, non quelli di una nazione contro l’altra. Non deve quindi sorprendere che egli parteggi visibilmente per coloro che giudica migliori e non, a priori, per uno dei due partiti. Per lui le grandi vittorie inglesi a Crécy (1346) e a Poitiers (1356) sono ammirevoli altrettanto quanto l’eroismo dei borghesi francesi di Calais assediata dagli Inglesi; le tasse esose imposte dal duca di Berry alle popolazioni del Midi, di cui era stato governatore, sono per lui altrettanto condannabili dei delitti che insanguinano la politica inglese del tempo.
Non risulta che i lettori dei suoi anni e del secolo successivo trovassero nulla di strano in un atteggiamento del genere, che non chiede di essere giudicato imparziale, bensì parziale a vantaggio dei prodi, quale che fosse la loro nazionalità. Ma quando nell’Ottocento l’idea nazionale divenne dominante in tutta l’Europa occidentale gli studiosi si chiesero da che parte fosse stato il nostro cronista. E poiché ebbero l’impressione che egli non stesse sempre dalla stessa parte, lo giudicarono un voltagabbana, un pennivendolo che scriveva a gloria di chi lo pagava meglio. Applicare ad uno scrittore della fine del secolo XIV un metro di giudizio che può aver senso per chi racconta la storia delle contese moderne tra Francia e Germania portava a risultati assurdi. In questo caso, dunque, l’identificazione del destinatario intenzionale, che era esplicitamente il ceto cavalleresco internazionale, permette di evitare letture del tutto improprie.
Del resto non è sempre vero che uno scrittore si indirizzi ad un preciso destinatario esterno. Spesso egli scrive per se stesso, per ricordare. Così sono stati scritti molti diari, i cui autori non cercavano né prevedevano la pubblicazione, che a volte non avrebbero neanche voluto. Può anche accadere che la destinazione prevista sia semplicemente utilitaristica, come accade per i libri di cucina manoscritti, antichi o moderni, che in genere sono semplici raccolte di ricette per uso proprio. Ma accade anche che si scriva per la propria famiglia, come è il caso di quei testi toscani della fine del medioevo che si chiamano appunto Libri di famiglia. Ciò può accadere anche in forme molto elementari, ma utili per i posteri, come l’uso di registrare nascite, matrimoni e morti dei familiari nelle pagine bianche delle Bibbie o dei libri di preghiere. In questo caso chi scrive vuole conservare memoria degli avvenimenti strettamente familiari per i figli e per i discendenti, ma queste liste possono finire in mano ad un biografo o ad uno storico e servire a fini del tutto diversi da quelli che si proponeva chi li aveva scritti.
Ancor più spesso i libri sono stati scritti perché qualcuno ha chiesto all’autore di scriverli, per un committente. Nei secoli passati si trattava in genere di un mecenate che garantiva allo scrittore i mezzi per vivere e ne chiedeva in cambio l’opera: il panegirico delle proprie imprese o della propria nobiltà, un libello contro i propri nemici, uno scritto letterario per distrarsi o per dimostrare agli altri di avere interessi non futili, un poema alla cui fortuna legare il proprio nome. Non sempre è facile distinguere questa situazione, in cui propriamente si può parlare di committenza, da quella in cui l’autore scrive senza esserne preliminarmente richiesto da nessuno ma con l’intenzione di dedicare poi l’opera sua ad un potente che lo ricompenserà ed apparentemente ne risulterà il committente.
In ogni caso è evidente che l’esistenza di questa figura, sia essa già individuata dall’autore o solo sperata, condiziona non poco l’azione dello scrittore, che non può non andare incontro ai desideri o agli interessi, magari inespressi e a volte perfino non ben intesi, del committente. Ciò incide tanto sulla forma che sul contenuto di un testo. Se il committente desidera che gli si scriva un poema epico, l’autore non può dedicargli una tragedia; se ama le più sdolcinate storie d’amore sarebbe fuori luogo indirizzargli un trattato di teologia. Non tenere conto di queste situazioni nella comprensione e nella valutazione di un testo può portare ad errori grossolani.
Molti testi, però, sono stati destinati dai loro autori ad un pubblico generico e, almeno a partire dalla diffusione della stampa, ad un destinatario ignoto: sono libri alla ricerca di un proprio destinatario. Virgilio ed Orazio scrivevano per Augusto o per Mecenate, Livio si rivolgeva a tutti i cittadini romani attenti alla storia del loro impero, Chrétien de Troyes scriveva il Roman du Graal dedicandolo al conte Filippo di Fiandra, il poeta della Chanson de Roland si rivolgeva a tutti i «Franchi di Francia». La stampa ha però cambiato irreversibilmente la natura del pubblico generico a causa della dimensione delle tirature e della possibilità che l’opera finisse nelle mani di chiunque (e dovunque). Fino ad allora è verosimile che ogni autore sapesse dire per chi (persona o gruppo sociale) avesse scritto, ma poi accade sempre più spesso che è l’opera a creare il suo pubblico, che rimane del tutto sconosciuto al suo autore e comunque non è stato tenuto in conto nella concezione dell’opera. Ciò accade almeno a partire dagli Essais di Michel de Montaigne.
Merita un accenno il caso, che non è assurdo, di un testo che non abbia, non voglia (o non debba) avere nessun tipo di destinatario. Il servo di re Mida o il nano di re Marco di Cornovaglia che rivelavano al vento o alle canne che il loro signore aveva le orecchie di asino o di cavallo, escludevano ogni ascoltatore di quanto andavano dicendo. I sacerdoti e i maghi che scrivevano sulla sabbia, subito cancellata dalle onde del mare, o su foglie immediatamente bruciate, non si rivolgevano ad alcun lettore umano. Gli antichi sovrani iranici che facevano scolpire la memoria delle proprie imprese sulla cima di montagne inaccessibili si rivolgevano anch’essi alla divinità.