Abbiamo visto che nelle definizioni di ‘filologia’ spesso ha un rilievo particolare la filologia testuale, intesa come tecnica o metodologia della ricostruzione del testo quanto più vicino possibile all’originale, insomma ciò che da meno di un secolo si è chiamato anche ecdotica. Probabilmente nessuno studioso serio identificherebbe senz’altro la filologia con la filologia testuale, ma non è eccessivo dire che nella prassi della ricerca in molti casi avvenga proprio questo. Del resto la distinzione tra filologi e storici della letteratura sembra basata proprio su questa accezione restrittiva di filologia. Nella filologia classica che, assieme alla filologia biblica, è stata la matrice da cui si sono sviluppate le diverse filologie moderne e che si considera pur sempre il settore di punta della disciplina nel nostro campo, questa restrizione di significato è ancora più frequente che negli altri campi.
Devo dunque dire subito che non condivido affatto tale identificazione, sia essa teorizzata o soltanto praticata, e anzi la considero pericolosa. La ricostruzione del testo nella sua forma più adeguata possibile è certamente la fase preliminare del lavoro filologico, ma non ne è il compimento. Quando lo studioso ha portato a termine il lavoro ecdotico non ha affatto completato il suo lavoro: ne ha solo costituito il necessario punto di partenza. Al testo, quale è stato ricostruito, restano da porre tutte le domande delle quali parleremo e che nel loro complesso costituiscono i diversi aspetti dell’interpretazione, che è il fine reale della filologia. Poiché la fase ecdotica, quella della costituzione del testo, è preliminare alla sua interpretazione (ammesso che le due fasi si possano considerare successive), conviene parlarne all’inizio della nostra lezione.
Cominciamo con il dire che è un grave difetto di molte pratiche interpretative il fatto che l’esegeta non conosca e non si curi di cosa sia concretamente il testo che ha davanti e studia. Può essere giustificabile che la maggior parte dei lettori, se vuole leggere il Decameron o i Malavoglia, neppure si chieda se l’edizione che ha in mano sia affidabile o no. Capita infatti che per molte opere liberamente disponibili, cioè non più vincolate al diritto d’autore, chiunque possa fare delle ristampe; può dunque accadere che qualcuna di tali ristampe sia trascurata o addirittura piena di strafalcioni. Ne consegue che non tutte le edizioni hanno lo stesso grado di affidabilità. S’intende quanto sia grave che una leggerezza analoga sia compiuta a volte da studiosi dai quali ci si attenderebbe maggiore cautela.
Altrettanto pericoloso è, oggi, affidarsi senza troppe cautele ai testi disponibili sulla rete. Anche a trascurare i casi di testi antichi che sono stati digitati da amatori e possono essere inquinati da ogni sorta di errori (e di tali testi di solito non è neppure indicata quale sia la provenienza), bisogna diffidare anche delle opere che fanno parte di banche dati ricchissime e peraltro benemerite, come Google Books o Gallica, in quanto spesso si tratta di riproduzioni di edizioni antiquate, il cui valore è discutibile. Anche in questi casi sarebbe necessario che il lettore si ponesse la domanda su cosa precisamente sia il testo che legge e quale sia il livello di affidabilità di tale testo.
Rinvio a più tardi una breve discussione della metodologia ecdotica, ma fin da ora occorre spiegare perché sia indispensabile per la valutazione di qualsiasi testo conoscere come esso sia stato costituito. Facciamo esempi estremi. Se io leggo Il nome della rosa di Umberto Eco, a meno che non si tratti di una edizione pirata, posso, anzi debbo presumere che il testo sia conforme alla volontà dell’autore che ha curato personalmente l’edizione, ne ha corrette le bozze, ha dato il ‘si stampi’ finale. Sarà dunque lecito che io faccia su un testo del genere l’analisi, per esempio, della punteggiatura, perché non c’è dubbio che essa sia quella voluta da Eco. Se invece sto leggendo il Canzoniere di Francesco Petrarca, di cui pure ci è pervenuto un manoscritto parzialmente autografo e comunque attentamente rivisto dal poeta, non sarebbe prudente che ne analizzassi allo stesso modo la punteggiatura, perché nel medioevo l’uso di essa era estremamente sommario e comunque non uguale a quello attuale. La punteggiatura delle edizioni moderne di Petrarca, come degli altri testi del tempo, è dunque quella che gli editori hanno imposto al testo secondo criteri propri. Se poi il testo che mi interessa è la Divina Commedia, la situazione è ancora diversa, perché non abbiamo alcun autografo o alcun manoscritto sorvegliato e rivisto da Dante e quindi l’incidenza degli interventi dei copisti e dell’editore è ancora maggiore. Se nel caso di Petrarca la grafia, la sintassi e il lessico sono garantiti, in quello di Dante almeno sulla prima non possiamo avere alcuna sicurezza; per lo studio della lingua di Dante, come di altri poeti del passato, dobbiamo fidarci solo di quello che ci dicono le rime, che sono il luogo meno vulnerabile di un testo in versi (a meno che non si tratti di versi sciolti).
Ma la problematicità del testo non finisce qui. Se al caso del Nome della rosa contrapponiamo quello dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, la cui edizione del 1840 fu seguita con la massima attenzione dall’autore, già il problema dell’affidabilità si pone in modo diverso (lo vedremo più avanti). Se rimontiamo ancora alla Divina Commedia, non abbiamo, lo ripeto, nessun manoscritto che non dico sia stato rivisto, ma neppure risalga direttamente a Dante: i codici più antichi sono di circa un decennio posteriori alla sua morte e quindi ancor di più dal completamento del Purgatorio e tanto di più da quello dell’Inferno. Ma questa distanza di alcuni anni tra momento della stesura dell’opera da parte di Dante e la data dei testimoni più antichi è poca cosa rispetto all’enorme iato cronologico tra la data di composizione delle opere latine e greche e quella dei loro testimoni più antichi: in questo caso si tratta di secoli e perfino di millenni. Il caso più favorevole è quello di Virgilio, i cui codici più antichi risalgono al V secolo d.C. (che è come se i codici più antichi della Commedia di Dante fossero copie del XVIII-XIX secolo). Ma nel caso di Orazio il divario è molto maggiore ed in quello di Sofocle per i più antichi manoscritti bisogna scendere fino al secolo X, parecchio più di un millennio dopo la morte del poeta.
La distanza cronologica tra originale e testimoni a noi disponibili non è di per sé un dato assoluto. Essa costituisce problema in quanto un postulato generalmente valido è che ogni copia comporta errori, intendendo con questo nome sia gli errori veri e propri, in genere involontari, sia le innovazioni volute, per esempio la modifica delle forme linguistiche allo scopo di attualizzarle, operazione che è stata a lungo tacitamente ammessa. Una maggiore distanza tra originale e testimoni sopravvissuti implica la probabilità che tra di essi intercorra un numero di copie proporzionalmente maggiore e dunque un grado maggiore di corruttela. In astratto è ben possibile che un’opera sia rimasta per molto tempo sconosciuta e non copiata, senza essere sottoposta al logorio delle copie. Ma è assai difficile esserne certi.
Aggiungo un caso ancora diverso, che esemplifico nei poemi omerici. Qui non si tratta solo del tempo che separa l’originale e i testimoni che ne derivano. Questa volta il problema è in primo luogo quello di sapere se ci fosse e cosa fosse l’originale di un poema epico nella Grecia arcaica. Senza entrare qui nello spinoso problema della eventuale oralità dei poemi omerici, dobbiamo ricordare che il testo che noi leggiamo risale comunque alla sistemazione che ne dettero in epoca ellenistica, quindi comunque parecchi secoli dopo la loro apparizione, i filologi di Alessandria. Non solo è ovvio che questo testo alessandrino abbia poi subito le traversie comuni alla tradizione dei testi greci classici, ma a monte di esso c’è una tradizione scritta e/o orale che ci rimane quasi del tutto oscura.
Non si creda che io voglia dire che in tali casi non sia possibile l’interpretazione. Quello che è scorretto è che si lavori sull’Iliade come se avessimo davanti un’edizione garantita dal controllo dell’autore. Esaminarne la struttura applicando, ad esempio, criteri numerologici, come è stato fatto se non per Omero certamente per i testi teatrali ateniesi del V secolo a.C. (rilevando l’identica lunghezza degli episodi e altre simili corrispondenze), è quanto mai azzardato, perché i criteri numerologici postulano che il testo ci sia pervenuto tal quale lo aveva composto l’autore.
Faccio ancora un esempio del tutto diverso della necessità, per il lettore ed ancor più per l’interprete, di essere informato sulla natura del testo che legge o studia. Questa volta non citerò un’opera antica, bensì il poema Le Grazie di Ugo Foscolo. In questo caso ci basiamo su autografi, ma il poeta non pubblicò se non alcuni episodi ed in redazioni che non considerava definitive, anzi non completò mai l’opera. Quello che abbiamo è dunque il frutto frammentario del lavoro di alcuni decenni ed insieme un certo numero di progetti d’autore sulla struttura complessiva dell’opera, progetti che cambiarono nei lunghi anni trascorsi tra la prima idea che Foscolo ne aveva avuto e la sua morte. Si può paragonare quel che ci rimane ai frammenti di diverse e successive versioni di un mosaico, che risalgano ad epoche diverse ed a programmi figurativi diversi. È impossibile o – se consentite – illecito leggerli ricomponendo un insieme che non è mai esistito. Il senso di un testo non è solo la somma dei sensi delle sue parti, è qualcosa di più. Questo di più, nel caso delle Grazie, è purtroppo irrecuperabile. Chi legge alcuni di questi frammenti, che considero tra le cose più belle della tradizione poetica italiana, deve accettare di considerarli per quello che sono, appunto frammenti o abbozzi di ordinamenti e ricomposizioni poi abbandonati.
Dopo aver fatto questi esempi specifici, vorrei giungere a delle conclusioni più generali. Il testo, nella sua costituzione, è sempre problematico, ma in gradi ed in modi ogni volta diversi. Questo è vero del testo letterario, ma anche di qualsiasi testo. Se consideriamo testo anche una frase orale come «Bella figura!», essa ha un senso diverso a seconda di come sia stata pronunciata e delle circostanze contestuali che l’accompagnavano. Se non conosciamo quale ne sia stata l’intonazione, non ci è possibile disambiguarla con sicurezza: potrebbe essere sarcastica o ammirativa, riferirsi ad una figura fisica o ad un comportamento. Se tale frase ci è stata riferita, l’intonazione originale potrebbe essere stata modificata da chi l’ha trasmessa, che così ne ha suggerito o permesso una interpretazione scorretta. Per una interpretazione che voglia essere quanto più adeguata possibile è dunque indispensabile sapere quali siano le modalità attraverso cui un testo, qualsiasi testo, ci è stato trasmesso.