La responsabilità del filologo

Ho scritto all’inizio di questo libretto che spesso, soprattutto fuori d’Italia, la filologia e i filologi non godono di molta considerazione. Siamo accusati di occuparci di argomenti ammuffiti e di problemi che non interessano a nessuno, perché hanno scarsa o nessuna rilevanza per la cultura di oggi e nessun peso nella vita moderna. In effetti non sarebbe facile sostenere che sia proficuo dedicare anni di lavoro a stabilire il testo di una cronaca francese di sette secoli fa o spremersi le meningi per intendere correttamente il Detto del gatto lupesco.

In questi termini, però, il problema è posto male. Ciò che è in gioco nel nostro caso non sono le singole nozioni. Anche i filologi, come tutti, hanno delle responsabilità verso la società in cui vivono e sono all’altezza di queste responsabilità se assolvono a due compiti che vanno molto al di là di quanto abbiamo ironicamente esemplificato un momento fa. In primo luogo il filologo insegna (dovrebbe insegnare) ad avere la massima cura per la trasmissione dei testi, orali o scritti che siano; in secondo luogo insegna (dovrebbe insegnare) quanto sia delicato e complesso interpretarli correttamente. Questo vale per Omero e Virgilio come per Arbasino ed Eco, ma anche per le dichiarazioni di un ministro o per le memorie di una stella del cinema.

La vita quotidiana ci fornisce innumerevoli esempi di testi, soprattutto orali (ma a volte anche scritti), che sono trasmessi in modo incredibilmente approssimativo. La frequenza delle rettifiche, soprattutto a proposito di dichiarazioni politiche, non è soltanto prova di volute ambiguità o di incoscienti approssimazioni o di frettolose correzioni di rotta: spesso si tratta proprio di ristabilire più o meno integralmente un testo che è stato sensibilmente e pericolosamente storpiato. Il rispetto del testo quale esso è stato emesso implica rispetto per la verità e per colui che ne è l’autore, ed anche rispetto per noi ascoltatori o lettori, insomma pubblico, che dovremmo avere cara l’integrità di ciò che ascoltiamo o leggiamo. Che il testo ci piaccia o meno, che lo si condivida o meno, è moralmente e praticamente importante che sia trasmesso a noi e ad altri nella sua forma più esatta.

Ancora più gravida di conseguenze è la superficialità e trascuratezza con cui spesso si affronta l’interpretazione di un testo (non parlo della distorsione voluta, che almeno ha un fine). Basta confrontare, per esempio, la trascrizione più o meno integrale o il riassunto di una argomentazione e i titoli con cui essa è annunciata su un giornale o le risposte che le vengono opposte dagli avversari: vedrete con quanta frequenza il titolo stravolge ciò che è stato detto o almeno lo formula in modo discutibile; chi interviene nelle discussioni a volte dà l’impressione di non aver capito (o di non voler capire) i suoi interlocutori, a volte sembra perfino che discuta di tutt’altro...

Negli anni del mio insegnamento, io non ho mai considerato importante che gli studenti apprendessero chi era e cosa aveva scritto Juan Ruiz, arciprete di Hita, o qualsiasi altro scrittore del medioevo romanzo. Né mi è parso essenziale che essi ricordassero in futuro cosa fosse la lenizione delle consonanti intervocaliche in alcune lingue romanze. Sapere queste cose può essere opportuno e apprezzabile, ma molto più importante è che ci si renda conto che un testo, qualsiasi testo, chiude in sé un problema interpretativo e che, prima ancora, esso va stabilito nella sua forma corretta. La coscienza di questi due problemi è essenziale per un buon funzionamento della società umana, che è fondata appunto sulla trasmissione di testi, ed è questo, a mio parere, che giustifica l’esistenza stessa della filologia e la sua rilevanza culturale e sociale.