Da quanto ho detto risulta che l’operazione preliminare di ogni lavoro filologico deve essere l’accertamento della storia della tradizione del testo che studiamo, vale a dire la storia di ciò che è accaduto al testo dal momento che l’autore ha iniziato a concepirlo fino a quello in cui è pervenuto fino a noi.
Si noterà che questa definizione è più ampia di quella comune, soprattutto in filologia classica, che può formularsi così: «la storia della tradizione di un testo è l’esame di tutti i testimoni a partire dall’originale perduto fino ai più recenti». La ragione è che in filologia moderna molte volte il problema filologico non sta nei testimoni derivati dall’originale dell’autore, che può essersi conservato o nella forma di un testo definitivo, magari autografo, o di una stampa sorvegliata dallo stesso autore, ma nel travaglio documentato che ha portato dalla prima idea del testo alla sua redazione: è quello che si chiama critica genetica. Lo stesso accade con la più parte dei testi musicali, per i quali abbiamo spartiti autografi, magari plurimi e coperti di modifiche. In questo caso non si tratta di ricostruire in base alle copie, lavorando à rebours, la forma del testo quale è uscita dalla penna dell’autore, depurandolo dalle corruttele della tradizione, ma di accertare la successione delle sue scelte in direzione del testo finale. La definizione che preferisco evita inoltre il termine «originale», perché non sempre un originale è esistito ed a volte ne è esistito più di uno.
Solo l’accertamento, nei limiti del possibile, della storia della tradizione ci fornisce le informazioni indispensabili per la ricostruzione e la valutazione del testo che stiamo studiando. Essa permette anche di affrontare e di risolvere questioni relative alla genesi dei testi, per le quali non abbiamo informazioni dirette.
Faccio un esempio da una mia recente esperienza di lavoro, la preparazione dell’edizione del IV libro delle Chroniques di Jean Froissart, un’opera storiografica francese scritta attorno al 1400. Si tratta del racconto di quanto accaduto tra il 1389 ed il 1400, ad opera di uno scrittore nato nello Hainaut, contea oggi divisa tra Francia e Belgio, che allora era terra del Sacro Romano Impero. Negli anni precedenti Froissart aveva composto, oltre a numerose opere in versi, tre ampi libri delle Chroniques, che narravano tutta la prima parte di quella che noi chiamiamo guerra dei Cento Anni, iniziata nel 1337. Allora si trattava di avvenimenti alquanto anteriori al momento della stesura del racconto. Non sappiamo però quando Froissart sia morto e se il IV libro sia stato da lui completato. Un ragionamento indiretto, su cui tornerò, induce a pensare che il decesso del cronista sia avvenuto nei primi mesi del 1404.
I libri precedenti delle Chroniques avevano avuto una buona diffusione, almeno dal 1381, e le loro copie erano presenti nelle principali biblioteche del tempo fin dai primi anni del secolo XV. Non così per il IV libro, di cui il più colto dei signori dei Paesi Bassi, Filippo II il Buono, duca di Borgogna, proprietario di quella che era allora la più ricca biblioteca d’Europa, la famosa biblioteca di Borgogna, era riuscito a procurarsi una copia soltanto nel 1452. A dire il vero, solo alcuni anni prima la disponibilità del IV libro risulta assicurata dal fatto che il cronista Enguerrand de Monstrelet ne redige una continuazione fino al 1444. Non sappiamo però quando Monstrelet abbia scritto questo suo libro, che probabilmente risale a poco prima della sua morte, avvenuta proprio nel 1453; né sappiamo chi lo abbia incaricato di tale lavoro. Si presume che si trattasse di un membro della potente famiglia di Croÿ, che tra l’altro possedeva la cittadina di Chimay, dove probabilmente Froissart aveva passato i suoi ultimi anni e dove la tradizione vuole che sia stato sepolto.
Questa pur labile catena di indizi ci porta a formulare l’ipotesi che il manoscritto del IV libro sia rimasto a Chimay tra i beni di Froissart al momento della sua morte, diciamo sul suo tavolo di lavoro; che solo qualche decennio dopo uno dei signori del luogo se ne sia preso cura e ne abbia commissionato un seguito; che a questo punto se ne siano tratte copie e sia cominciata la diffusione del testo.
Si dirà che le ipotesi sono troppe, ma rimane il fatto che della ventina di codici che del libro IV ci rimangono (nel 1499 ca. l’editore parigino Anthoine Vérard ne trasse un incunabolo e da qui comincia una lunga serie di stampe) nessuno risulta chiaramente anteriore al 1470. La tradizione manoscritta a noi nota si restringe dunque all’interno di un trentennio circa. Fino ad allora, e almeno dall’inizio del secolo, abbiamo degli insiemi di codici che danno i libri I, II e III, ma mancano del IV. Solo a questo punto appaiono insiemi che comprendono i libri I-IV.
Questa situazione spiega perché, a differenza di quanto accade con i libri precedenti, la tradizione manoscritta del libro IV sia abbastanza compatta, per quanto ciò si possa dire per un lungo testo in prosa, trascrivendo il quale i copisti dell’epoca non si negavano la possibilità di modificare l’ordine delle parole o di sostituire un termine con un sinonimo, e così via. Ma essa ci dice di più. Il sospetto che l’opera non sia stata completata dall’autore nasce da vari indizi. Alla fine del libro si narrano brevemente avvenimenti cronologicamente sconnessi e che sono o senza conseguenze o addirittura erronei: sembrano schede preparate dall’autore ma non integrate da lui nel testo. Una parte dei manoscritti allega in fine una relazione sui recenti fatti d’Inghilterra (vale a dire la crisi che portò alla deposizione e alla morte del re Riccardo II e all’usurpazione del trono da parte di Enrico IV), relazione indirizzata a Froissart attorno alla fine del 1403 e da lui non utilizzata. Infatti il suo racconto degli stessi fatti è spesso assai diverso da quello della relazione. Alcuni manoscritti inseriscono assai prima una integrazione che in altri manca, sicché si ha l’impressione che essa fosse vergata su un foglio volante, che alcuni copisti considerarono da inserire nel testo ed altri no. La divisione e la titolatura dei capitoli, costante nei diversi manoscritti, è però incoerente e non pare possibile che risalga allo scrittore. A ciò si aggiunge ora che il IV libro fu messo in circolazione alcuni decenni dopo la scomparsa dell’autore. Mi pare che a questo punto la conclusione che l’opera non fosse compiuta, sistemata e rivista dall’autore si imponga.
Questa conclusione non è rilevante solo per se stessa. In realtà essa deve essere tenuta presente nella nostra valutazione storico-letteraria del testo. Faccio un esempio: in tutta la prima parte del libro IV Froissart ricorre regolarmente a quel procedimento narrativo che siamo soliti chiamare con una metafora tessile, introdotta da Ferdinand Lot e poi da Eugène Vinaver, l’entrelacement, la tecnica narrativa di cui poi fu maestro Ludovico Ariosto, cioè l’interruzione del racconto di una vicenda per passare ad un’altra, contemporanea ma diversa, e poi tornare alla precedente, e così via. Nella seconda parte questo uso diventa più raro e poi scompare del tutto. Non sarà questa una conseguenza del fatto che il cronista stendeva prima racconti lineari e poi li intesseva insieme? Ma questa volta Froissart non poté farlo perché impedito dalla morte. In ogni caso noi possiamo considerare il testo come rielaborato e ben definito solo nella prima parte del libro, dove ci sono indizi di una scrittura o revisione alcuni anni dopo i fatti, mentre dobbiamo essere più cauti nella seconda parte. Non meno interessante è la notazione che, se diventa più debole la strutturazione del racconto, rimane accurata ed efficace la stesura del testo, il che equivale a dire che il cronista si preoccupava di comporre i singoli episodi con il massimo grado di finitezza formale e riservava invece per un secondo momento la messa in opera dei brani così preparati nel tessuto complessivo del racconto, nonché l’organizzazione e la suddivisione dei capitoli e la loro titolatura.
Tratterò molto brevemente un altro aspetto importante della storia della tradizione: le informazioni che essa ci dà sulla diffusione e la fortuna dell’opera e quindi sulla cultura dell’area di diffusione. Un esempio chiarissimo è quello riassunto in queste parole dello storico del libro David Pearson:
Registrando la proprietà, le annotazioni e altri dati fisici di più di 600 copie [del De revolutionibus di Copernico], sparse per il mondo, Gingerich ha potuto mostrare con quale rapidità il libro è stato comprato dagli astronomi del secolo XVI in tutta Europa, come questa rete di esperti abbia condiviso e comunicato idee, e quanto ricettive (o no) fossero queste prime generazioni di lettori alle idee eliocentriche di Copernico.
Questo è un contributo notevolissimo ad una storia dell’astronomia che non sia soltanto il racconto dello sviluppo astratto delle teorie e delle conoscenze, ma giunga ad individuare presso chi, quando e come le idee di Copernico trovarono ascolto, fossero esse accettate o respinte.
Constatazioni analoghe si possono fare con i manoscritti. In primo luogo è evidente come sia significativo se di un’opera c’è un solo codice o più o molti. Noi non possiamo calcolare il tasso di perdita dei codici, che del resto può variare molto con il variare dei luoghi, dei tempi e delle circostanze. Ma in ogni caso, quale che possa essere la proporzione tra le copie a suo tempo realizzate e quelle giunte fino a noi, il numero di queste ultime è un dato significativo. Né è meno importante sapere in quali aree esse furono realizzate ed in quali sembrano assenti, in quali località e a quali persone furono vendute, e così via. I manoscritti medievali che recano miniature spesso esibiscono il blasone del loro primo possessore; a volte esso è stato sostituito da quello di un successivo acquirente; molto spesso ci sono gli ex libris o le firme dei proprietari. Diventa così possibile ricostruire la storia del singolo libro, a volte senza lacune, da quando fu prodotto a oggi. Ciò è importante dal punto di vista del codice, ma la somma di queste informazioni disegna anche un capitolo della storia culturale del tempo e del paese.