Uno degli aspetti più interessanti della filologia moderna è la cosiddetta critica genetica, cioè la possibilità di studiare quella fase della storia della tradizione che sta a monte del testo definitivo, mentre tradizionalmente l’oggetto del nostro studio riguarda soltanto quello che è accaduto dopo la definizione del testo. Ma in alcuni casi è invece possibile studiare anche il processo di formazione del testo. Ciò accade di frequente con i testi degli autori moderni e contemporanei, dei quali possediamo non solo gli autografi del testo definitivo ma anche tutto o parte del materiale preparatorio: gli appunti, le bozze, gli stadi progressivi di elaborazione. Una situazione analoga si trova anche per qualche testo di epoca ben più antica, fin dal medioevo.
Il caso più celebre è quello dei Rerum vulgarium fragmenta, il canzoniere di Francesco Petrarca, del quale ci è pervenuto il testo definitivo, il codice Vaticano Latino 3195, messo a punto dal copista Giovanni Malpaghini sotto la sorveglianza, ed in parte di mano, dello stesso Petrarca. Abbiamo anche il cosiddetto codice degli abbozzi, il ms. Vaticano Latino 3196, che conserva di mano del poeta una fase di poco anteriore a quella finale, almeno per una parte delle sue liriche. Sugli abbozzi Petrarca ha lavorato per un certo tempo e possiamo dunque entrare per questa via nella sua officina poetica. Lo studio di questa tarda fase del suo poetare lo ha fatto molti anni fa, magistralmente, Gianfranco Contini, dando una fondamentale lezione di filologia genetica.
Ma in realtà è possibile risalire ancora più indietro, perché man mano che Petrarca arricchiva e sistemava la sua collezione, egli permetteva che se ne traessero copie. Se dunque di queste fasi non ci rimane traccia autografa, abbiamo però la possibilità di individuare nella ricchissima tradizione manoscritta del Canzoniere alcuni gruppi di codici che non discendono dallo stadio finale, quello rappresentato dal Vaticano Latino 3195 (del quale sarebbero dunque descripti, derivati privi di valore per la ricostruzione del testo), ma da stadi intermedi, da archetipi perduti che ci conservano fasi del lavoro poetico petrarchesco. Questi stati testuali intermedi sono stati individuati parecchio tempo fa dal filologo americano Ernest H. Wilkins. Per quanto finora non sia stato fatto, sarebbe dunque possibile produrre edizioni separate per ciascuna fase individuabile e offrire così la base per uno studio approfondito del processo di formazione dei Rerum vulgarium fragmenta.
C’è qualche caso simile anche per testi più antichi. Ricordo qui gli Otia imperialia, una ampia raccolta enciclopedica di informazioni, aneddoti e leggende messa insieme da Gervasio di Tilbury, maresciallo del regno di Arles, tra gli ultimi decenni del secolo XII e i primi del XIII, e dedicata all’imperatore Ottone IV di Brunswick. Degli Otia possediamo un codice parzialmente autografo, siglato N (Vaticano Latino 933), che in parte rappresenta la sistemazione del lavoro redazionale ad una certa altezza cronologica, ma che è farcito di modifiche e integrazioni che si ha ragione di pensare che si dispongano lungo l’arco di qualche decennio. Come accade in questi casi, N è stato impostato all’inizio come una bella copia di una redazione precedente, ma poco a poco l’accuratezza della copia si deteriora, la mano diventa più trascurata, vengono aggiunti fogli qua e là, le glosse si addensano nei margini: quella che era una copia in pulito diventa alla fine un brogliaccio pasticciato, da cui probabilmente fu tratta qualche altra copia in pulito.
Gli Otia hanno inoltre una tradizione manoscritta abbastanza ricca, poco meno di una trentina di codici. Secondo il filologo americano James R. Caldwell, questo insieme, cospicuo per l’epoca, sembra fare capo a vari stadi della composizione del codice N. Alcuni manoscritti rifletterebbero il testo di Gervasio quale doveva essere in uno stato più antico di N, altri paiono derivare da fasi intermedie, altri da uno stadio molto avanzato della redazione di N, altri ancora, invece, sembrano discendere da un affine di N, che presentava rispetto a N qualcosa in meno e qualcosa in più. Se così è, entriamo nell’officina di uno scrittore mediolatino a cavallo del 1200 e potremmo ricavarne osservazioni molto interessanti. La mia impressione è però che i problemi della storia redazionale degli Otia imperialia non siano stati ancora dipanati del tutto. Le informazioni che dà Caldwell, e che sono state riprese di peso dai recenti editori inglesi, sono approssimative e prive di argomenti solidi. Inoltre finora non si è preso in considerazione lo stato materiale di N, il cui studio dovrebbe permettere osservazioni preziose, perché il codice ha subito aggiunte e forse sottrazioni di fogli e altri interventi che dovrebbero essere messi in relazione con i testimoni, se è vero che essi corrispondono a stati diversi della redazione. Andrebbe pure acclarato se, come pare, non ci siano testimoni che derivino dallo stato finale della redazione.
Le cose sono molto più chiare, anche se estremamente complesse, nel caso delle liriche di Charles, duca d’Orléans, composte a cavallo dei decenni centrali del Quattrocento. Il principe, il cui primogenito salirà poi al trono di Francia come Luigi XII, subì una lunghissima (dal 1415 al 1440!) prigionia in Inghilterra a seguito della sconfitta francese ad Azincourt. Durante questi anni egli compose numerose poesie liriche tanto in inglese che in francese. Al momento del suo ritorno in Francia egli mise ordine nella sua produzione francese disponendo la compilazione, con l’aiuto di copisti di professione, del codice che oggi è alla Bibliothèque Nationale de France, con la segnatura fr. 25.458 (O). Si tratta di una copia in pulito, ma il duca prevedeva di continuare a scrivere e dunque fece lasciare nel codice fascicoli e fogli bianchi per i successivi accrescimenti. Nei successivi venticinque anni (morì nel 1465) egli scrisse molto e il codice iniziato nel 1440 lo accompagnò per tutta la vita, che condusse lontano dal frastuono della politica e della corte reale, per lo più nei suoi amatissimi castelli di Blois e Orléans, sulla Loira. Le nuove poesie furono inserite man mano nel codice, ma sempre meno ordinatamente, poiché lo spazio cominciò presto a mancare. Oltre alle proprie, il duca vi fece trascrivere, probabilmente di loro mano, anche le poesie che componevano i suoi ospiti, tra i quali ci fu anche François Villon.
Orbene, il codice del duca è stato studiato in tutti i suoi particolari materiali e le sue complesse stratificazioni prima da Pierre Champion e ora, ancora più approfonditamente, da Mary-Jo Arn. Ciò rende possibile ricostruire con buona approssimazione anche la cronologia delle singole sezioni. Anche in questo caso il duca fece trarre nel tempo dal suo manoscritto alcune copie, che naturalmente riflettono la situazione di O quale era al momento della copia in questione. I dati materiali di O e i dati delle copie che man mano ne discendono permettono un esame molto preciso della storia poetica di Charles. Nel suo caso non sembra che si tratti tanto di una sottile stratificazione di varianti: il duca non indulgeva troppo al lavoro di lima. Ma oltre alle varianti, nel suo caso importa la successione dei tipi (canzoni, ballate, rondeaux), la selezione delle liriche, la continua ripresa dello stesso motivo con infinite variazioni, l’abitudine di dedicare ogni anno, per un lungo periodo, una composizione alla festa di san Valentino, e così via.