La prima fase del lavoro ecdotico è il reperimento dei testimoni, che non è affatto una operazione priva di problemi. Vero è che sono sempre più disponibili, anche in rete, repertori dei manoscritti e delle stampe, oltre ai cataloghi di molte biblioteche. Un settore esemplare è la lirica occitana medievale, quella dei trovatori. Tutti i manoscritti e tutte le composizioni sono stati repertoriati accuratamente (lavoro coronato nel Pillet-Carstens e oggi anche in rete), tutti gli schemi metrici sono stati classificati da István Frank. Eppure ogni tanto salta fuori un frammento di codice, se non un codice intero, e non sempre è chiaro chi lo possieda e dove (un testo del genere mi fu sottoposto per la pubblicazione non molti anni fa, ma non l’accettai perché non si poteva né sapere chi avesse il lacerto né disporre almeno di una riproduzione fotografica, che permettesse il controllo dell’edizione).
Un censimento di dimensioni monumentali è quello dei manoscritti che contengono commenti danteschi fino al 1480 realizzato da Enrico Malato e Andrea Mazzucchi. Indagini parziali esistevano già, ma oggi il censimento dà compiuta informazione su ben 702 manoscritti, una buona porzione dei quali, circa 200, sono venuti a galla solo durante questa ricerca. L’esperienza mostra dunque che le sorprese non possono essere escluse. Neppure le più sorprendenti. Nel dicembre 2010 il filologo classico inglese Michael Reeve, come egli stesso mi ha raccontato, avendo da perdere tempo alla British Library di Londra, una delle biblioteche meglio conosciute al mondo, pensò di guardare qualche codice del De monarchia di Dante Alighieri. Consultò il catalogo e ne trovò, e vide, due. Quale non fu più tardi la sua sorpresa nell’accorgersi che dei codici del De monarchia solo uno era noto. Il recente e peraltro accuratissimo editore, per ironia della sorte anch’egli anglosassone, continuava ad ignorare l’altro, che non è affatto di una copia tarda e presumibilmente inutile, ma un testimone trecentesco da esaminare con la massima cura.
Questa volta non era stata adeguata la recensio nelle biblioteche pubbliche, per quanto per Dante esistano ricerche approfondite. Spesso però trascuriamo che non tutti i codici medievali sono finiti in biblioteche pubbliche, come sarebbe auspicabile. Esiste ancora un mercato di manoscritti in mani private, al quale attingono le biblioteche pubbliche che dispongono dei fondi necessari. Tale mercato ha del resto permesso ancora nel secolo scorso, tra l’altro, la formazione di biblioteche di grande ricchezza e importanza, private ma aperte al pubblico, quali la Pierpont Morgan Library di New York, prima, e poi quella del Getty Center a Los Angeles o quella della Fondazione Martin Bodmer a Cologny, presso Ginevra. I codici che circolano in questo mercato, gestito dalle case d’aste come Sotheby’s e Christie’s, ma anche da case minori, non appartengono a filologi e non passano da uno studioso all’altro: sono solidissimi investimenti di ricchi signori che in genere li tengono nelle cassette di sicurezza delle banche e non hanno nessun desiderio di far sapere in giro che li possiedono. Qualche volta la storia di manoscritti come questi è particolarmente avventurosa, come posso raccontare.
Come ho più volte detto, mi sono occupato a lungo delle cronache di Jean Froissart, la cui tradizione è costituita da un buon numero di codici spesso di alta qualità artistica, con numerose miniature ad opera dei migliori artisti del Quattrocento fiammingo o parigino. Erano fin d’allora libri molto costosi, commissionati da sovrani o da membri dell’alta aristocrazia; sono a volte testimoni di una tradizione testuale ma anche opere d’arte uniche. Nell’Ottocento aveva avuto gran fama un codice posseduto dal principe tedesco Pückler-Muskau, che lo conservava nella sua splendida biblioteca settecentesca in un castello della Slesia, a Branitz. Alla fine della seconda guerra mondiale Branitz era rimasta appena ad ovest della nuova frontiera, che allora divideva dalla Polonia la Repubblica Democratica Tedesca.
Di questo codice non si era saputo più nulla in Occidente, anzi si erano perse le tracce non solo del codice ma anche della famiglia principesca: era però facile ipotizzare che essa non si fosse trovata a suo agio sotto il governo militare sovietico e poi sotto quello civile comunista. Nel corso della mia recensio dei codici di Froissart, a Parigi mi fu detto che erano state fatte senza successo varie ricerche nei paesi occidentali ma non si era trovato né il principe né il codice. Poco dopo la riunificazione tedesca del 1990 mi capitò di leggere sul «Corriere della Sera» un servizio del corrispondente da Bonn, allora capitale della Bundesrepublik, che citava alcune dichiarazioni del principe Pückler; saltai dalla poltrona e scrissi subito al direttore del «Corriere» chiedendo la cortesia di essere messo in contatto con il corrispondente. Costui non mancò poco dopo di farmi avere gentilmente l’indirizzo del principe, che in realtà abitava a Monaco di Baviera e che rispose subito alla mia successiva lettera.
Il principe mi raccontò che nel 1945 egli era ancora un bambino e non aveva quindi ricordo personale del codice di Froissart, ma sapeva bene che era la perla della collezione di famiglia; i suoi genitori, ormai scomparsi, gli avevano sempre detto che il codice, assieme al resto dei libri, era rimasto a Branitz quando la famiglia era fuggita dinanzi all’avanzata dei Russi. A riunificazione tedesca avvenuta, il principe diceva di essersi subito recato in Slesia e di avere trovato l’edificio della biblioteca in buone condizioni, ma privo del materiale librario; con tenacia lo aveva ricercato in tutta l’ex Repubblica Democratica Tedesca e finalmente l’aveva ritrovato in una biblioteca pubblica di Potsdam, vicino a Berlino. Il trattato tra Repubblica Federale e Urss, che aveva sancito la riunificazione della Germania, escludeva esplicitamente che i proprietari di beni confiscati dallo Stato dopo il 1945 potessero rivendicarli; ma il principe era riuscito a recuperare i suoi libri e a riportarli a Branitz a titolo di prestito permanente da parte di Potsdam. Del Froissart però non c’era traccia, assieme a qualche altro pezzo di particolare valore, e il principe si dichiarava convinto che questi volumi fossero finiti a Mosca o a Leningrado (oggi Pietroburgo) e che prima o poi li avrebbe recuperati.
Io pubblicai quanto ho riassunto sopra e considerai disperso il codice di Branitz; nessuno ci fece caso. Alcuni anni dopo, ad un congresso a Liverpool, conobbi Eberhard Koenig, della Freie Universität di Berlino, che si occupava di codici della stessa epoca del mio. Costui non aveva letto il mio articolo, che gli riassunsi. Il suo stupore fu grande, perché mi disse di avere avuto in mano il codice in questione, e non in una biblioteca sovietica, ma in Occidente. Egli ne aveva addirittura fatto uno studio minuzioso e arricchito di splendide riproduzioni, che mi era sfuggito, e diceva che il codice era passato attraverso più di una vendita all’asta a partire dalla dissoluzione, dopo il 1945, della ricca collezione messa insieme a fine Ottocento dal banchiere ebreo tedesco Horace de Landau, collezione conservata a Firenze fin dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il codice ora si trovava nelle casseforti di una banca svizzera. Del principe, Koenig non sapeva nulla. Non vi dico il mio stupore, peraltro speculare al suo. Approfondii la cosa e conclusi che doveva trattarsi di due codici simili ma diversi, uno dei quali nel 1945 era a Firenze, l’altro nel castello di Branitz.
Il professor Koenig non si dette pace e riuscì infine a trovare a Parigi la soluzione dello strano caso, scoprendo che nella capitale francese a fine Ottocento erano stati tratti appunti e copie delle miniature del codice del principe Pückler, in preparazione di una vendita che era poi avvenuta, e proprio al barone Landau. Il codice era dunque uno solo ed era stato venduto ben prima del 1945 e dell’avanzata dell’Armata Rossa, in ragione delle pressanti necessità di denaro del principe di allora per la vita dispendiosa che conduceva a Parigi e presumibilmente anche altrove. Può darsi che il principe avesse nascosto alla famiglia la sua alienazione, ma non possiamo escludere che i familiari sapessero benissimo di non avere alcun diritto sul prezioso codice, ma non avessero perso la speranza di farlo passare come una perdita dovuta alla guerra e da compensare adeguatamente da parte dello Stato tedesco. Le riproduzioni fornite dal libro di Koenig mi hanno permesso di stabilire che il testo che esso contiene non è quello originale di Froissart ma una sua abbreviazione, e che quindi il codice rimane prezioso dal punto di vista artistico ma privo di valore dal punto di vista filologico per la costituzione del testo del cronista. Ho potuto così evitare una visita alla banca svizzera che credo lo custodisca ancora.
Forse non è inutile dare un altro esempio concreto a favore della tesi che non sono ancora disponibili informazioni davvero complete sui testimoni di opere medievali pervenuti fino ai nostri giorni. La tradizione del trecentesco Libro de buen amor di Juan Ruiz consiste di tre soli manoscritti tre-quattrocenteschi (rispettivamente siglati S [Salamanca, Biblioteca Universitaria, ms. 2663], G [nella biblioteca della Real Academia Española a Madrid, ms. 19] e T [nella Biblioteca Nacional de España, sempre a Madrid, ms. Vitrina 6-1]) e di qualche frammento; l’editio princeps di questa importante (e divertente) opera risale al 1779-1790 ed è opera di Tomás Sánchez. Costui dice nella sua introduzione che Gabriel de Sancha aveva visto nel 1786 presso il libraio Huith di Londra un incunabolo del Libro in 8° e in caratteri gotici, incunabolo di cui non si è avuta poi nessuna notizia. Sembra però molto improbabile che Sánchez si sia inventato tutto, con tanti particolari, ed è altrettanto inverosimile che un incunabolo che esisteva a Londra ancora nella seconda metà del Settecento sia sparito nel nulla. A me sembra possibile che esso sia stato acquistato da uno dei molti nobili che in quello stesso periodo andavano formando in Inghilterra spettacolari raccolte librarie, quali si vedono visitando i palazzi oggi gestiti dal National Trust o da organizzazioni simili. Non so quale sia lo stato della catalogazione di questi fondi, ma non mi farebbe gran meraviglia che un giorno ne saltasse fuori il prezioso incunabolo del Libro de buen amor, che potrebbe gettare molta nuova luce sui complessi problemi editoriali di quest’opera affascinante ma difficile.
In ultimo direi qualche parola su un problema che si suole formulare nei termini usati nel Novecento da Giorgio Pasquali, grande filologo classico: «recentiores, non deteriores». Si è a lungo pensato che il testimone migliore, in una tradizione consistente, fosse quello più antico, in base al principio indiscutibile che ogni copia aggiunge errori al testo, sicché più il tempo passa ed aumenta il numero delle copie, più queste sono scorrette. Pasquali osservò giustamente che ciò è logico, ma non tiene conto della possibilità che un ottimo testimone antico, poi scomparso, sia stato copiato accuratamente, quindi con un numero minimo di nuove corruttele, molto tempo dopo, sicché risulti più recente di tutta o quasi la restante tradizione, ma non per questo di essa peggiore.
Questa osservazione è giustissima, e Pasquali ne adduceva prove convincenti, ma vale più per le tradizioni di testi greci e latini che per quelle di testi romanzi, nelle quali spesso i testimoni sono più o meno contemporanei tra di loro e vicini all’epoca di composizione del testo. Un caso che si presta alla discussione è quello della tradizione delle opere di Gonzalo de Berceo, poeta spagnolo vissuto in Rioja nella prima metà del secolo XIII. Gran parte di esse fu raccolta in collezioni, messe insieme ancor prima della fine del secolo XIII e conservate nel convento benedettino di San Millán de la Cogolla, dove aveva vissuto, o in quello vicino di Santo Domingo de Silos. Noi possiamo individuare due collezioni medievali, che fino al Settecento erano ambedue a San Millán, una siglata O e l’altra F. Ambedue sono scomparse a seguito della desamortización (vendita dei beni ecclesiastici) del 1836 e di O non si hanno più notizie; gran parte di F è invece tornata a galla nel mercato dei libri vecchi ed oggi è stata riunita nella biblioteca della Real Academia Española, a Madrid (ms. 4). Si tratta di 194 ff. di formato in folio, del secolo XIV. Tra 1775 e 1779 i monaci di San Millán realizzarono due collezioni analoghe: la prima (I) oggi è nell’archivio del monastero di Santo Domingo de Silos, ms. 110, mentre la seconda in parte costituisce il ms. 13.149 della Nacional di Madrid, in parte il tomo 36 dell’archivio di Silos. Orbene, I, indubbiamente recentior, risulta copia basata su O, ricorrendo a F solo quando O era lacunoso o non leggibile. Lo studio dei codici rimasti ha permesso di stabilire che I copia molto accuratamente e conserva la lingua duecentesca meglio di F, pur di molto più antico. Il testimone recentior non è dunque deterior, al contrario: esso dà un apporto fondamentale alla ricostruzione del testo in quanto rappresenta, e bene, il testimone più antico, purtroppo perduto.
La procedura adottata da Giorgio Petrocchi per darci nel 1966-1967 il testo critico della Commedia di Dante che ancora oggi è accettato come standard sembra contraddire il principio di Pasquali. Il filologo romano decise infatti di fissare il testo sulla base dei soli testimoni sicuramente anteriori al 1355, escludendo dal suo esame i numerosissimi codici posteriori. Petrocchi adduceva però solide argomentazioni a favore della sua scelta. Da un lato, il numero altissimo dei testimoni del poema dantesco (del quale va considerata anche la dimensione notevole) rende molto oneroso, e forse non realizzabile, uno scrutinio integrale della tradizione. E infatti dagli ultimi decenni dell’Ottocento si era preferito il criterio dei loci critici, che consiste nella selezione di un certo numero di passi che si ritengono significativi, i quali vengono controllati su tutti i testimoni. Petrocchi sottolineava il pericolo di questa procedura, che può ignorare passi estremamente significativi, e preferiva esaminare ogni testimone nella sua interezza; ciò però lo costringeva a limitarne il numero. A questo argomento di carattere pratico egli aggiungeva un motivo interno alla tradizione del poema: ad una certa data del Trecento, in particolare per l’infaticabile attività di copia di Giovanni Boccaccio, la tradizione della Commedia si contamina in modo indistricabile; sembra peraltro sicuro che nei testimoni posteriori non ci siano lezioni ignote a quelli più antichi, ma solo nuove combinazioni di lezioni note. Si può dunque ritenere abbastanza sicuro che l’eliminazione di tutti i testimoni posteriori non comporti danni irreparabili. Confesso però che il dubbio rimane.