Mi Manchi
È
che erano passate solo poche ore e tu mi eri già mancato da andarci fuori di testa, Igor.
Per questo non ho saputo dirti di no, per questo non sono riuscita a dirti di lasciar perdere, per questo non mi sono imposta urlandoti “smettila di cercarmi”
.
Tu mi hai scritto quei messaggi pericolosi e senza senso e io, stupida come sono sempre stata, non ho saputo dirti di no. Li ho letti, ci ho creduto e ci ho sperato, l’idea di rivederti dopo solo mezza giornata mi aveva già pervaso il corpo di brividi di euforia. Tremavo, ti desideravo. E rileggendo sospiravo, sapevo di aver bisogno di te
Che cazzo avrei dovuto fare? Che cazzo avrei dovuto pensare? Lo sapevo bene non era niente fra di noi, non lo sarebbe stato mai. Era una situazione così impossibile, così paradossale. Così dolorosa. Però io continuavo a crederci, mi perdevo nel sogno di averti accanto giorno per giorno, mi ritrovavo a pezzi quando mi risvegliavo e tu non c’eri, mi trascinavo nelle mie giornate vuota e sola in attesa di una tua risposta. E se era quello il mio destino, volerti e non
poterti avere, non ero disposta a buttare nel fuoco delle colpe la possibilità di viverti di nuovo, anche che fosse stato solo per poche ore. Anche che fosse stato solo per pochi minuti. Mi sarei accontentata anche di così poco.
Conoscerti era stato strano.
Io in quel gruppo ci stavo per cazzeggiare, per evadere dai dolori che la vita aveva deciso di mettermi di fronte. Mi collegavo e dicevo qualche cazzata delle mie, ridevo di gusto per quei meme stupidi che giornalmente condividevano, facevo due chiacchiere sul niente con sconosciuti che alla fine proprio sconosciuti non erano più. Era la mia valvola di sfogo, chiusa nel cesso quei venti minuti al giorno senza pensare a niente, senza pensare a Lui, senza pensare all’assurda situazione in cui mi ero ritrovata e dalla quale non sarebbe mai stato facile uscire. Quella era la mia distrazione, quello era il mio luogo felice. Quello era il posto dove potevo anche non essere io.
Mi ero fatta un account extra pur di non dover giustificare a nessuno le cazzate che scrivevo, avevo messo una foto a metà di un corpo che era stato mio anni ed anni ed anni prima, un corpo che in effetti neppure mi apparteneva più. In quella foto i capelli neri mi arrivavano fin quasi al sedere, ancora sodo e
provocante, e proprio per quello in molti cercavano di attaccare bottone. Non sono mai stata certa che fosse quello che volevo, mettermi in mostra e farmi notare, ma ero certa di esserci riuscita. E comunque, non avevo mai dato retta a nessuno di loro, uomini che facevano i coglioni in mezzo a un mondo social zeppo di altri coglioni. Mi divertivo a provare e a leggere le loro richieste sconce in privato, facevo screen e li prendevo in giro con le amiche. Poi un giorno era cambiato tutto. Un giorno mi avevi scritto tu che sì certo, eri uguale a tanti altri ma, a modo tuo, eri del tutto diverso. E non era solo il tuo modo di approcciarti a renderti tale, era anche e soprattutto il mio modo di vederti. Eri stato speciale sin dal primo momento, sin dal primo ciao come va
.
Ho fatto molta fatica a prendere sonno quella notte, come d’altronde succedeva la maggior parte delle notti della mia vita. Mi continuavo a rigirare in quel letto non mio, enorme e fin troppo comodo, in quella stanza d’albergo lussuosa e pretenziosa ma anche asettica e moderna, così diversa dalla stanza in cui avevamo scopato io e te. Lo avevamo fatto solo poche ore prima, sembravano già passati giorni. Mesi. Anni. Sembrava quasi non fosse mai successo, tipo uno dei tanti sogni che facevo quasi ogni notte, quelli dai quali mi risvegliavo accaldata e vogliosa,
quelli che volente o nolente riguardavano sempre e comunque te.
Mi sono alzata e sono andata al bagno, sono tornata a letto e ho acceso la gigantesca televisione davanti a me. La luce prepotente dello schermo mi ha bruciato gli occhi, mentre cercavo di abituarmici ho fatto un po' zapping. Come al solito non c’era un cazzo che io non avessi già visto prima.
Ho sospirato e ho preso il cellulare fra le mani, sono andata lì dove andavo sempre ogni volta che sentivo un qualche genere di mancanza. La nostra chat, quella che avrei dovuto cancellare mesi e mesi fa per non farmi mai scoprire, quella che invece era ancora tutta lì alla mercé di chiunque avesse voluto sputtanarmi o farmi del male.
Ho scrollato i messaggi fino ad arrivare a quelli che mi interessavano, quelli dove parlavamo di scopare. Sexting, che brutta parola, io la riassumevo sempre con qualche serie di piccole lune nere. Fra di noi non erano solo frasi scritte, c’erano anche video, foto, messaggi vocali lunghissimi. Un tipo di poche parole tu, certo, ma anche uno di minuziose descrizioni e sordidi dettagli hot. Ho cominciato a rileggerli come avevo già fatto tante volte. Il sangue era già diventato fuoco liquido dentro di me. Sono scesa con la mano fra le cosce a toccarmi, scostando di poco gli slip per sentirmi meglio. Ho fatto play alla serie di audio che
con voce roca mi avevi mandato una sera come tante altre, ho buttato il cellulare sul cuscino vuoto accanto al mio e ho chiuso gli occhi usando le mie mani come fossero le tue. Parlavi di lingua che si muove dentro, di dita che mi sfiorano, di scoparmi addosso a un davanzale. Inutile dirlo, com’era già capitato anche quella notte sono venuta.
Il giorno dopo mi sono alzata dal letto barcollando, avevo dormito sì e no due ore, sono andata sotto la doccia e ci sono rimasta a lungo. L’acqua che mi scorreva addosso mi faceva sentire un po' meno sporca di quanto mi sentivo davvero. Di quanto in realtà mi sarei sentita sempre. Ho infilato jeans e maglietta, stretto i capelli in una coda alta e con le mie Vans ai piedi sono scesa nella hall per la colazione a buffet. Solo davanti alla macchinetta automatica, in attesa di un cappuccino di dubbia qualità, mi sono vista riflessa nel vetro che stava lì a far da paratia alle cucine. Le occhiaie erano solchi profondi sul mio viso stanco e ingiallito, le rughe facevano da contorno ai miei occhi dal taglio felino che un tempo avevano fatto andare fuori di testa tante persone, c’erano sempre troppi piercing che mi bucavano il viso senza nessun senso logico. Non a 35 anni almeno. Ho mangiato seduta da sola in un
tavolo all’angolo, il cellulare spento poggiato a testa in giù davanti a me.
Avrei voluto scriverti ma ho resistito.
Sono tornata in camera e mi sono buttata di nuovo sul letto a guardare il soffitto pensando sempre e comunque a te. Quella mattinata libera me l’ero immaginata diversa, a fare un giro per Milano centro, a scattarmi qualche selfie col Duomo di sfondo, a fare un po' di shopping compulsivo in qualche negozio random di Montenapoleone per poter tornare a casa dicendo “questo l’ho comprato in Italia”
. Ma non l’ho fatto.
Non riuscivo a pensare ad altro, fantasticare sulla serata che di lì a poco avrei passato con te era diventato il mio pensiero fisso. Non ho neanche pranzato, non che ne avessi bisogno per davvero con tutto quello che avevo mangiato poche ore prima al buffet insieme a quello scarso cappuccino annacquato, però per una come me che non rinunciava mai al buon cibo questa scelta rimaneva strana.
Mi sono fatta un’altra doccia, pensavo l’acqua calda mi avrebbe aiutato a sentirmi un po' meno sporca dentro, non è stato così. Mi sono seduta davanti allo specchio con solo l’asciugamano addosso e ho tirato fuori le mie armi migliori. Mascara, fondotinta, eyeliner, rossetto. Tutto d’un tratto ero di nuovo la
maschera che indossavo con più disinvoltura, la me stessa professionale e seria, talmente opposta alla me reale che io stessa, guardandomi per strada, non mi sarei riconosciuta. Ho tirato fuori dalla valigia il vestito nero, quello dallo scollo profondo in pizzo, quello che mi fasciava e stringeva i fianchi, quello che mi lasciava la schiena parzialmente nuda, quello che arrivava giusto giusto a coprire le autoreggenti che, già lo sapevo, ti avrebbero fatto andare fuori di testa. Ho sciolto i capelli e ci ho passato le dita in mezzo per ravvivarli poi ho infilato le décolleté nere, quindici centimetri di tacco a spillo che mi avrebbero allungato verso il cielo. Verso di te anche, vista la nostra notevole differenza d’altezza. Ho stipato dentro alla borsa tutti i documenti per l’appuntamento di lavoro e tutto il nécessaire per la serata, mi sono infilata la giacca di pelle nera contemplando allo specchio posto davanti al letto quella mia trasformazione. Da trentenne trasgressiva e alternativa a quarantenne sexy e in carriera in meno di dieci minuti.
Les jeux sont faits, rien ne va plus
.
Sono scesa nella hall, ho sentito gli occhi della receptionist addosso. Mi aveva fatto il check-in la mattina precedente, metallara e borchiata, e mi stava rivedendo in quel momento stretta in abiti provocanti e alla moda. Che strana faccia ha fatto. Mi
ha accennato un mezzo sorriso mentre le chiedevo se, cortesemente, poteva chiamarmi un auto con conducente che di lì a poco è arrivata. Alla guida un bel giovanotto reso ancora più appetibile dall’abbigliamento di classe, dagli occhiali scuri e dal sorriso malizioso con cui mi squadrava da testa a piedi.
Nella mezz’ora scarsa di tragitto lui ha intrattenuto una conversazione a tratti grottesca fatta di domandine ambigue a doppio senso sul mio essere lì a Milano, così sola e così pazzesca. Una decina di minuti di quel viaggio io li ho passati a immaginarmi lì, nei sedili posteriori di quell’auto di lusso, mentre proprio lui, giovanissimo e arrapato, mi scopava da dietro forte, fortissimo, e io godevo fino a girarmi per chiedergli di fermarsi. A quel punto la sua faccia si trasformava, diventava la tua e io non ci capivo più niente. Non sapevo più se era proprio te che volevo o se sarebbe andato bene chiunque in quel momento del cazzo a cui era arrivata la mia vita. Ero arrivata al punto di avere dubbi su qualsiasi cosa, non solo su di te, anche e soprattutto su di me.
Sono arrivata al palazzo dell’etichetta discografica, un concierge di mezza età vestito di blu mi ha indicato il piano dove si sarebbe svolto il mio appuntamento. Le solite cose da agente musicale. Un
uomo sulla cinquantina tirato a lustro che pareva un ventenne mi ha accolto fra baci e abbracci per niente graditi, mi ha indicato la poltrona di pelle bianca e mi ha sussurrato di mettermi a mio agio. Dovrei essere abituata, dopo più di dieci anni di queste manfrine inutili e sordide, ma io a queste cazzate penso non mi abituerò mai. Due ore di colloquio a parlare di influenze rock, strumenti datati, autotune e mercato discografico. Il solito ti farò sapere
, la solita confidenza nel parlarmi, i soliti sguardi continui alla scollatura, il solito uomo del cazzo che pensava che una donna non ci avrebbe mai capito abbastanza di musica. Forse aveva ragione.
La grossa opportunità che mi stava potenzialmente offrendo quel maschilista come tanti altri io la desideravo da tantissimo tempo, non volevo perderla, non volevo farmela scappare. Ne andava del mio futuro che, lo sapevo bene, era sempre più in bilico. Ma io in quel momento non riuscivo a pensare a niente se non al nostro imminente incontro, era come se non me ne fregasse più un cazzo di qualsiasi cosa. Della musica, del lavoro, di quel Steven Tyler dei poveri, di Lui, di Lei. In quel momento nella mia testa c’eravamo solo noi. Io e te.
Igor e Maya.
Sono uscita da quella stanza dopo una stretta di mano accompagnata da uno sguardo lascivo che
lasciava intendere altri desideri. Ho sorriso fredda e distaccata, ho sfilato via la mia mano dalla sua e l’ho salutato. Vaffanculo. Mi avrebbero comunque presa in considerazione, lo sapevo, quel posto di lavoro era fatto per me, non serviva scoparmi il capo per farmi assumere. E in quello che facevo non era importante essere bella, simpatica, intelligente, arrapante, stronza, un po' puttana. Per fare il mio lavoro bisognava essere bravi e io cazzo sì, lo ero. Merito solo del mio talento. E merito anche di Lui che, nonostante tutto, aveva sempre saputo darmi i consigli giusti.
A quel punto sarei dovuta tornare all’albergo, non erano neanche le sei del pomeriggio e avrei avuto tutto il tempo di darmi una rinfrescata, prepararmi alla serata. Invece affidandomi al maps a passo spedito mi sono avviata alla chiesa più vicina, San Cristoforo sul Naviglio. Niente di speciale, soprattutto per una come me che non aveva mai creduto in niente. Dopo tutto quello che era successo poi che motivo avrei avuto per credere? E allora che senso aveva andare proprio lì? Perché mi era venuta quella folle idea?
Eppure sono entrata, ho chiuso la zip della giacca e tirato giù il più possibile la gonna in segno di rispetto, l’odore acre di incenso mi è subito entrato
in gola. Mi sono seduta s’una panca in fondo in fondo e mi sono guardata intorno. C’era una vecchina a qualche passo di distanza da me, in ginocchio e a mani giunte, pregava un Dio lontano in cui lei credeva. Se per me quella era sempre stata una cosa senza senso per lei, invece, il senso lo aveva, eccome se lo aveva, forse per lei quello era tutto.
Per me invece che cosa aveva senso davvero?
Mi sono messa a guardare in alto, del soffitto che un tempo doveva essere stato ben affrescato era rimasta solo un’impronta rovinata dal tempo. In quel momento mi sono illuminata.
Questa nostra storia era un po' come Dio. Raccontandola e raccontandoci a molti, ai più, sarebbe sembrata solo un’inesistente assurdità. Non può esistere un sentimento che non si è mai provato e toccato nella realtà.
Ci sta. Se è solo nella tua testa non è niente.
Forse avevano ragione. Se non tocchi non sai, se non vedi non credi. Ma poi c’erano tutti quelli come noi, di certo tantissimi, quelli per cui tutto questo aveva senso per davvero. Perché io e te, proprio come tutti loro, lo avevamo provato sulla nostra pelle, lo avevamo vissuto nella nostra mente, lo avevamo tatuato nei nostri cuori. Ci credevamo perché sapevamo quant’era potente il desiderio, quant’erano intensi i nostri sentimenti, quant’era grande la necessità di viverci. Eravamo i fedeli che si
basavano sull’infedeltà, quelli con la fede al dito ma non nell’anima. Eravamo una schiera di amanti e traditori che non sapevano più scindere fra sesso e amore, fra errori e pulsioni. Eravamo quelli che avevano già tutto ma erano comunque anime vuote e perse che sapevano dove andare solamente ritrovandosi.
Per chissà quanto tempo sono stata dentro a quel luogo che non mi sarebbe appartenuto mai, col muso all’aria a pensare a questo genere di cose al limite della blasfemia. Poi, finalmente, il cellulare poggiato sulla mia coscia seminuda ha vibrato. Già lo sapevo che eri tu.
Igor
– Mandami la posizione, passo a prenderti
E te l’ho mandata senza nessuna aggiunta di parole. Magari sarebbero anche state gradite, a quel punto però che importava?
Sono uscita nel piazzale di quel posto assurdo in cui ci saremmo incontrati per la seconda volta. Ho pensato a quante volte ci eravamo detti in precedenza “non ci lasciamo trasportare, una volta mai più”
e mi sono sentita stupida, sbagliata, distrutta. Come avevo potuto anche solo pensare che, una volta arrivati a questo punto, sarebbe stata davvero solo una scopata e mai più? E tu Igor come avevi potuto pensare che fosse una buona idea rivedersi dopo così poco tempo? E come avevamo
potuto entrambi lasciarci trascinare da questa follia fin troppo emotiva che era diventata il nostro tanto decantato solo sesso senza sentimenti
?
Ti ho visto arrivare da lontano, un suv aggressivo dal muso allungato. Hai accostato mettendo le quattro frecce, hai aperto il finestrino del passeggero e hai sporto un po' la testa verso di me. Mi hai fatto un cenno, ho preso fiato mentre mi maledicevo per questa ennesima cazzata. Sono salita sulla tua macchina, la vostra macchina, e non ho potuto fare a meno di lanciare uno sguardo ai sedili posteriori, il seggiolino Cam in bella vista. Una stretta al cuore, la consapevolezza di essere sul serio una persona di merda. Per te, per Lei, per loro. Tu con una mano mi hai stretto il mento, mi hai girato il viso obbligandomi a guardarti, i miei occhi neri dentro ai tuoi occhi verdi. Hai sorriso e mi si è sciolto il cuore.
«Sei bellissima.»
«Vaffanculo.»
«Mi eri mancata,
Maya.»