Tutto come Prima
E poi è tornato tutto come prima.
Ti sei vestito, hai indossato gli slip e poi i jeans. Hai raccolto la camicia da terra, mentre la infilavi e abbottonavi lentamente un bottone per volta mi sono chiesta cosa avrebbe pensato Lei di quell’indumento così stropicciato. Ti sei infilato le calze e poi le scarpe, hai raccolto la giacca da terra e sei rimasto qualche secondo fermo a guardare fuori dalla finestra. Sparsi a terra i resti della nostra cena, sparsi nel cuore i resti delle nostre vite. Non mi sono mossa dal letto, ancora nuda e frastornata da quell’ultimo orgasmo che mi avevi fatto vivere, sono rimasta così, imbambolata e disidratata. Ti sei voltato di colpo e mi hai sorriso poi, finalmente, ti sei  infilato la giacca. Hai sospirato, hai fatto qualche passo verso di me, ti sei bloccato. Mi sono seduta e mi sono tirata le lenzuola addosso, ti ho fatto l’occhiolino e poi ho alzato la mano muovendola in un meccanico e freddo ciao. Tu hai annuito, hai sospirato di nuovo, ti sei girato e sei andato verso la porta. L’hai aperta, ti sei fermato qualche secondo sulla soglia, ho sperato ti voltassi e tornassi da me invece sei uscito richiudendotela dietro.
Te ne sei andato. Così. Per sempre.
All’improvviso mi si è spezzato il cuore, l’ho sentito frantumarsi e dilaniarsi, mi sono sentita come trascinata in un baratro incolore e inodore, un buco nero senza fine. Col respiro trattenuto a stento ho agguantato il telecomando, ho alzato il volume della tv al massimo fregandomene dell’orario, fregandomene dell’altra gente, fregandomene di tutto tranne che di te. E sono scoppiata a piangere. Io che non piango praticamente mai, io che ho la forza dentro di mille persone, io che sono un’odiosa stronza anaffettiva. Le lacrime erano salate e roventi, mi inondavano la faccia e mi bruciavano la pelle, cadevano sul letto e lo marchiavano per sempre col mio dolore. Ho affondato la faccia nel cuscino e ho urlato a più non posso mentre quella radio del cazzo passava musica italiana di dubbia qualità. Ho preso a pugni il materasso, mi sono odiata, ho aperto il frigobar e ho bevuto tutto d’un sorso quelle piccole mini size. Una fila indiana di alcoolici che pensavo avrebbero sopito il male che mi ammazzava dentro, prima la vodka poi il gin poi il rum, e che invece a conti fatti lo stavano solo amplificando. Perché niente sarebbe riuscito ad anestetizzare quel mio cuore squarciato. Mi sono buttata sotto la doccia calda, le mie lacrime incessanti si sono mischiate con l’acqua, coi pugni stretti addosso a quella parete liscia a pensare a tutti i miei errori, a tutti i miei fallimenti, a tutte le mie scelte sbagliate, a tutte quelle impossibili. A pensare alla vita che mi ero scelta e che avevo tanto amato. Non più.
E poi ho pensato a te, di nuovo a te, ancora a te. Sapevo che ti avrei pensato per sempre. Perché mi eri rimasto dentro, non sarei mai riuscita a levarmi davvero di dosso il tuo odore o il tuo sapore o il tuo umore o il tuo amore. Già. Lo sapevo. Non ce l’avrei fatta, mai più sarei stata la me ch’ero prima di te.
Mi sono avvolta nell’accappatoio, mi sono asciugata i capelli e poi sono corsa a letto. Mi sono sdraiata lì, nel punto dove il ricordo di te era più presente. Solo in quel momento me ne sono accorta, il pacchetto delle tue Marlboro e lo Zippo nero giacevano lì, abbandonati sul comodino accanto all’abat-jour. Li ho presi, me li sono stretti addosso, non significavano niente eppure per me in quel momento erano tutto.
La mattina seguente mi sono svegliata presto, dopo aver infilato jeans e maglietta ho sistemato le mie cose nella valigia. Non ho controllato il cellulare, non avrei voluto farlo mai più. Pregavo non ci fosse nessun tuo messaggio, pregavo fosse stato tutto un sogno quello fra me e te. Somigliava di più a un maledetto incubo. Con tutte le mie cose dietro sono scesa nella hall, ho chiesto di chiamarmi un taxi per Malpensa e sono andata a fare colazione con lo stomaco completamente chiuso. Ho ordinato un caffè, l’ultimo caffè italiano decente che avrei potuto bere per chissà quanto, ma non l’ho consumato. Per come stavo lo avrei di certo vomitato. Sono rimasta a fissare la tazzina girandoci dentro il cucchiaino, persa in quei pensieri che mi facevano solo stare male.
Il tassista era simpatico, alla mano e di molte parole, aveva un accento milanese marcato, parlava e non la smetteva, a me distruggeva il cuore. Tutto mi ricordava te. Gli ho detto di aver mal di testa, scortese e sgarbata come in realtà non sono, e lui di colpo si è zittito. Mi sono sentita una stronza, gli ho lasciato una bella mancia. Sono andata a fare il check in con gli occhiali scuri calati sugli occhi gonfi e ancora pieni di lacrime, davanti alla signorina vestita di giallo e nero sono stata costretta a tirare fuori il cellulare. In quel momento l’ho vista, quella notifica bianca che voleva dire solo una cosa, quella che voleva dire solo te, ma l’ho ignorata. Mi sono diretta al gate col cuore pesante, la mente stanca, il corpo pieno di te ma comunque, disperatamente, vuoto. Me lo sono ricordato in quel momento che appena atterrata avrei dovuto cercare la pillola del giorno dopo. Ed è a quel punto che mi sono seduta, mi sono presa la testa fra le mani e sono scoppiata a piangere, di nuovo.
Il viaggio neanche me lo ricordo, l’aeroporto di Düsseldorf strapieno di gente a me sembrava vuoto, sul flying shuttle qualcuno mi ha salutato, forse lo conoscevo ma non me ne fregava niente. Ho cercato la apotheke più vicina con la app, ci sono andata a piedi. La valigia non era poi così pesante ed io avevo bisogno di respirare l’aria della Germania, quella a cui dopo anni e anni alla fine mi ero anche abituata. Arrivata lì il cellulare l’ho spento, quella lucina bianca fastidiosa mi bruciava dentro più di quanto avrebbe dovuto. Il farmacista era attempato e dal piglio scorbutico, quando ho chiesto la pille danach ha alzato gli occhi al cielo, mentre lento andava allo scaffale per prenderla ho sussurrato un “vaffanculo crucco di merda” . Ho infilato quel pacchettino nella borsa, avrei dovuto prenderla subito ma non l’ho fatto.
Sono salita sul primo taxi che ho trovato e mi sono fatta portare a casa. Mancavo da tre giorni, era come se mancassi da sempre, come se lì dentro non ci fossi stata mai. La villetta a schiera bella come tante altre, il prato sempre ben curato, la mia macchina gialla parcheggiata accanto alla sua. Ho respirato a fondo prima di entrare, mi sono specchiata sul vetro, ho cercato qualche scusa credibile a quel mio aspetto disperato e l’ho provata fra me e me. Poteva andare? Non mi importava.
«Maya bist du? »
«Ich bin es. »
Lui mi è corso incontro, il sorriso da parte a parte, e mi ha abbracciata forte a sé, pallido ed emaciato più di quanto lo era quando l’avevo lasciato.
«Mi sei mancata, schatzi. »
Io non ho risposto, non ho detto niente, mi sentivo la stronza che alla fine per davvero sono, l’ho solo stretto a me e ho finto andasse tutto bene. Si è andato a sedere sulla sua poltrona, aveva già il fiatone, sorridendomi ha acceso la tv. Ho salito le scale, sono entrata in camera, ho lasciato cadere a terra tutto quello che avevo fra le mani insieme. La valigia, la borsa, la giacca, il mio umore. Mi sono buttata sul letto e guardando il soffitto verde mela mi sono lasciata di nuovo andare. Ho pianto ancora, questa volta in silenzio, le lacrime mi rigavano storte il viso e mi finivano nelle orecchie. Poi mi sono alzata, mi sono detta che dovevo proprio smetterla, che dovevo darmi un contegno, che dovevo farcela .
Sono andata a cercare Nikolas, il giovane infermiere che ormai da mesi conviveva con noi. Era nella camera di Lui a suddividere le medicine per la giornata, quando mi ha visto ha sorriso e mi è venuto incontro tendendomi la mano.
«Bentornata signora!»
«Ciao Nikolas, com’è andata in questi giorni?»
Lui ha scosso la testa e ha abbassato lo sguardo, non ho avuto bisogno dicesse niente.
«Qualcuno dagli Studios si è fatto vedere o sentire?»
«Mi dispiace, non è venuto nessuno e neanche nessuno ha chiamato, signora.»
Pezzi di merda ho pensato, ma non ho detto niente. Non era il caso. Ho stretto la mano di quell’uomo, uno dei pochi che ancora ci teneva per davvero a Lui, e poi scendendo le scale lenta sono tornata al piano inferiore.
Lui si era addormentato sulla sua poltrona, la tv italiana accesa s’un programma dedicato ai predatori marini, la bocca semiaperta. Gli ho sistemato un cuscino sotto la testa, mi sono seduta sul divano davanti a lui e l’ho guardato. Stava morendo. Quella era la mia vita. L’uomo che avevo amato così tanto era  consumato dall’interno da un cancro maledetto che non gli avrebbe lasciato scampo. Nessuno scampo .
Lui, la sua bellissima voce, la sua creatività, il suo sguardo luminoso. I fan preoccupati che lo riempivano di mail mentre tutti gli stronzi dello Studios erano praticamente scomparsi. Stronzi. Dopo quasi vent’anni a lavorare per loro, dopo quattro album in studio, due live e pure un greatest hits. Dopo il successo e i soldi che Lui aveva portato loro. Dopo tutti gli incassi. Nel momento del bisogno vero, quello dettato da una malattia bastarda che non gli avrebbe dato scampo, gli ero rimasta solo io. E quindi non solo sua moglie, io ero anche la sua migliore amica, la sua agente, il suo braccio destro, la sua amante, la sua famiglia. Io ero tutto per lui così come lui era stato tutto per me. È sempre stato questo a rendere incerta ogni decisione felice di quel periodo. Volevo lasciarmi andare ma sentivo che non era giusto farlo, non in quel momento. E non si trattava di te, non si trattava di me. Si trattava di tutto il resto. Non eravamo noi due, Igor, era la situazione ad essere più grande di me. Lo era sempre stata.
Ha aperto gli occhi, mi ha guardato sorridendo.
«A cosa pensi schatzi
«A quanto vorrei tornare indietro.»
«Quando ci siamo conosciuti? »
«Andrebbe bene anche l’anno scorso.»
«Questa malattia di merda non ci voleva, eh?»
«Proprio no.»
«Finirà, schatzi , e ne uscirai.»
«Senza di te.»
«Con qualcun altro.»
Mi ha teso la mano, io gliel’ho stretta. I suoi occhi sorridevano malinconici ma felici. Ci siamo guardati per qualche istante, lui sapeva già tutto. Io l’ho capito solo in quel momento. C’era dolore, c’era dispiacere, c’era disperazione ma c’era anche altro. Lui, l’uomo della mia vita, era distrutto ma anche contento. Per me. Era la persona migliore della terra, lo era sempre stato, ed io ero la peggiore, lo ero sempre stata.
Io avrei voluto stare zitta, non dire niente, ma non ce l’ho fatta.
«Avrei voluto ci fossi tu.»
«E ci sono stato, l’importante è questo!»
Ho abbassato la testa e mi sono messa a piangere, singhiozzi forti e prolungati, le lacrime che cadevano a terra, il petto che sembrava implodermi addosso, l’animo definitivamente rotto.
E perché in quel momento così devastante io pensavo proprio a te, Igor, invece che a Lui ?
Lui che in pochi mesi aveva perso tutti i suoi lunghi capelli, lui che mi aveva scopata in Ospedale dopo quel maledetto referto medico, lui che un tempo sembrava un vichingo e ora era solo l’ombra di se stesso, lui che mi aveva trascinata in quella nazione sconosciuta quando eravamo solo due ragazzini innamorati, lui che mi aveva sposata sotto a un salice un giorno di primavera di dieci anni prima, lui che mi aveva scritto e dedicato una dopo l’altra centinaia di canzoni, lui che mi aveva detto così tante volte per sempre che alla fine per sempre per noi non significava più niente. Lui che però stava morendo, cazzo se ne stava andando. Per sempre. Eccolo lì il nuovo significato di quella angusta parola.
«Lui com’è?»
Me l’ha chiesto a bruciapelo, col sorriso accennato, io ho annaspato.
«Lui chi?»
«Quello con cui ti senti, quello che quando leggi cosa ti scrive ti fa sorridere, quello a cui pensi sempre… lui, Maya.»
«Ma che stai dicendo?»
«Non c’è bisogno che menti schatzi , io sono felice per te. Lo sono per davvero. È giusto così, per te.»
Mi sono portata le mani sulle tempie, avrei voluto smettere di piangere ma non ci riuscivo proprio. E quanto avevo sbagliato? Quanto avrei sbagliato ancora? Quanto avrei sofferto, quanto avrei pianto, quanto avrei sentito il cuore esplodermi nel petto. Quanto sarebbe stato difficile lasciarlo andare per sempre, quanto sarebbe stato difficile non poterti avere mai.
Quanto mi sono sentita stupida ad amare contemporaneamente un uomo che se ne sarebbe andato per sempre e uno che invece non sarebbe mai stato mio? Eppure stava succedendo. Non lo avevo scelto, era capitato. Doveva andare così? Forse.
«Lo sai, succede tutto per un motivo, schatzi. »
«Sì, lo so, ma io vorrei solo che tornasse tutto come prima.»