Passo dopo passo, Hania si trascinava nel Deserto delle Torri Perdute, che doveva il suo nome, appunto, alle torri perdute, costruzioni che il tempo aveva fabbricato, facendo giocare insieme la pietra e il vento.

La pietra era morbida, si lasciava scavare, il vento era duro, carico di sabbia e terra. Erano colonne di tufo rosso, cave, e la loro originaria cavità era stata ulteriormente aumentata dalla forza degli uomini così da formare porte, finestre, scale. Gli eremiti che le abitavano dovevano essere tutti dei tizi che amavano poco la compagnia, visto che le torri erano tutte distanziate l’una dall’altra da giorni e giorni di marcia nella polvere, sospese tra dune e cielo. Ognuna era accompagnata da un complicato scavo che permetteva di raccogliere e convogliare, in una piccola cavità sotterranea sormontata da un pozzo, tutta la pochissima acqua che cadeva nel circondario, così da sostenere un minuscolo ed essenziale orto, fatto di qualche cipolla, un po’ di aglio e l’onnipresente peperoncino: verdure tutte robuste, di minime pretese, al punto che riuscivano a sopravvivere persino lì.

Nel silenzio, sotto le stelle infinite, l’anima di quegli eremiti forse a volte si era librata al di sopra del firmamento, perché questa era l’unica possibilità che aveva potuto dare senso a quella loro solitudine vissuta raschiando dalla terra qualche stilla di acqua e mezza cipolla, solo per restare in vita. E forse qualche volta ci dovevano essere riusciti, forse veramente la loro anima si era alzata a vette straordinarie, perché di loro Hania non sapeva nulla, come nulla aveva saputo dell’Acqua Sacra. Tutto quello che era fuori dalla sua conoscenza, era un pericolo per l’Oscuro, qualcosa quindi che aveva un senso, per salvarsi da lui.

Le torri posavano su sette picchi, sempre più alti a mano a mano che ci si addentrava verso il cuore del deserto. Erano tutte graziosamente posate in cima a sentieri impervi, lastricati di sassi appuntiti, da un lato invasi dalla roccia, dall’altro a strapiombo sul nulla, abbacinati da una luce implacabile cui solo fitti nugoli di mosche davano ombra. Era evidente che chi era andato a cacciarsi lì sopra non solo non amava la compagnia, ma doveva aver messo della buona volontà a scoraggiarla. In tutti i sentieri a un certo punto le sporgenze si smussano e una mano cortese leva le pietre più scomode, ma non in quelli: nulla era stato fatto per dare loro una qualche facilità.

L’acqua finì. Come Hania scoprì poi, nella sua complicata carriera di aspirante Cavaliere di Luce e riluttante capo militare, l’acqua era sempre quella che finiva per prima, lasciando tutti in balia di una facile e dolorosa dipartita. L’acqua era il punto debole, la pietra di inciampo: troppo pesante per essere trasportata in misura sicuramente sufficiente, aveva l’ulteriore svantaggio di trovarsi quasi ovunque. Tutti davano per scontato che un po’ ne avrebbero incontrata, dimenticando la trappola maledetta che era quel quasi. Maledetta e mortale. Senza acqua non si campava e basta.

Loro sopravvissero perché c’era lei, Hania, altrimenti le loro ossa sarebbero finite prima o poi a calcinare sotto il sole implacabile, unica forma arrotondata in mezzo a un mondo fatto di spigoli. I suoi poteri però stavano orrendamente diminuendo, ogni giorno di più. Lei sapeva che erano collegati a quelli dell’Oscuro come la polvere nelle due parti di una clessidra: i poteri dell’ombra, quindi, stavano aumentando. Restava la capacità di far volare mosche e tafani in compatti plotoni che facevano ombra restando sempre a decorosa e aggraziata distanza dalla loro pelle e dal loro sudore: o quella di attirare minuscoli topolini delle sabbie, che erano più pelo e ossicini che roba da mangiare, ma che li salvarono dall’inedia; quella di creare qualche stilla di acqua; ma soprattutto quella di far nascere dal nulla piccoli alberi di melograno giudiziosamente completi di un unico grosso frutto maturo. Non più di un albero. Non più di un frutto. La fatica poi la stroncava e non riuscì mai a ripetere l’impresa per più di una volta al giorno. Nessun altro frutto, nemmeno un rapanello, solo un unico spettacolare melograno.

All’ombra delle mosche, nutriti di minuscoli arrosti di piccoli topi, chicchi di melograno, gocce di acqua e luce implacabile, si arrampicarono su tutte le torri, e ovunque la scena era la stessa.

Da qualche parte c’era il cadavere dell’eremita, uno scheletro rinsecchito ricoperto da quello che restava dei suoi stracci, sempre all’aperto e sempre mentre guardava il cielo, come se volesse chiarire che era morto la notte maledetta del sortilegio, avvelenato dalla vista delle meteore.

«Ma sono tutti morti nella stessa posizione?» domandò Dartred al terzo defunto. «Nessuno che si sia rannicchiato prima di morire o che abbia cercato di raggiungere il pozzo?»

Tutto il resto era in rovina. Gli orti erano in malora, non c’era nessuna traccia di Acqua Sacra, i pozzi erano pieni di sassi. Da qualche parte, sempre in bella vista, inchiodata a uno dei muri interni perché il vento non la perdesse e la pioggia non la scolorisse, c’era una pergamena con tutta la storia che il sant’uomo di turno era riuscito a scrivere prima di tirare le cuoia: un maleficio inaudito, l’Oscuro che aveva concepito, nel ventre di una donna innocente, una creatura di indicibile malignità, contrassegnata dalla presenza sul polso di un marchio a forma di meteora.

«Devono essere morti come mio nonno, dopo aver sacrificato la propria vita per carpire al cielo carico di meteore il suo oscuro segreto: l’esistenza di Hania» spiegò Haxen.

«Potevano prendersi una sbronza e passare la notte a dormire e staremmo tutti infinitamente meglio» bofonchiò Dartred. «Non c’è nessuno in questo maledetto regno che non sappia di Hania. Comunque è bizzarro. Prima hanno scritto, quindi si sono trascinati fino alla torre, e poi sono tornati a morire all’aria aperta, come se volessero che fosse chiaro che sono schiattati guardando quelle maledette stelle cadenti. Che tutti abbiano chiaro che la creatura nata è proprio una belva. Dopo la loro morte però qualcuno ha devastato tutto. Qualcuno che doveva essere certo che queste torri non sarebbero più state usate. C’è qualcuno di molto potente in questo regno maledetto che sta sferrando un attacco micidiale perché voi e Hania siate maledette e perché tutti i possibili difensori, questi eremiti, siano annientati. Sono tutti stati ammazzati. Che diamine sta facendo vostra madre? La regina è lei, no?»

Dartred era sempre più aspro, inutilmente sgradevole, sempre avviluppato in una polemica sterile il cui solo risultato era rattristare Haxen. Il ponfo che aveva sulla fronte continuava ad avvelenarlo. Dovevano trovare l’Acqua Sacra.

A ogni torre che raggiunsero inerpicandosi su quei sassi aspri, inospitali e arcigni, trovarono la stessa desolazione. Eppure il senso di bellezza aumentava. Le parole che Hania conosceva da sempre acquistavano colore. I colori acquistavano colore. Ogni giorno che passava i suoi sensi erano più capaci di cogliere la bellezza, una dote che prima non aveva, di cui suo padre non sapeva nulla. Aveva cominciato a scorgerla nelle stelle, nel vento, nei chicchi di melograno. La vedeva anche dove lo sguardo di Haxen scivolava via per il disgusto, come nel movimento dei vermi, nelle iridescenze degli scarafaggi. Era come se avesse sempre visto attraverso un velo. La sua vista, i suoi sensi erano sempre stati micidiali nella loro perfezione, ma tutto era indifferente. Ora ogni cosa era un’avventura, il profumo delle erbe del deserto come l’odore di un topo in putrefazione, che aveva una sua aspra e acuta identità. La vita si completava nella morte, dalla morte nasceva altra vita, ogni cosa si muoveva nel tempo, il tempo si muoveva nell’eternità. Lei era Hania, figlia dell’Oscuro Signore e della principessa Haxen delle Sette Cime, di un angelo caduto e di qualcuno non caduto mai, e la bellezza del mondo cominciava a entrare in lei ogni istante con maggiore potenza.

Già alla seconda torre comparvero gli inseguitori. Dovevano aver perso tempo a cercare di rimettere in sesto il ragazzino massacrato dalle formiche rosse, ma alla fine arrivarono. Hania smosse qualche sasso, mobilitò i soliti sciami e loro rimasero molto distanti. Tortore e falchi rilevarono i sentieri nascosti, di cui tutte le torri erano abbondantemente fornite per andarsene senza incontrare quelli che venivano.

«Per nostra fortuna i soldati delle Sette Cime sono diventati cretini e vili. L’ordine di prenderci lo stanno eseguendo un passino alla volta e senza farsi male» commentò Dartred.

Haxen dovette assentire: quello era il suo esercito, l’esercito del suo regno, ed era sempre più evidente che sia l’esercito che il regno fossero in malora. La quinta torre fu l’ultima dove videro i soldati che li inseguivano. Resi piccoli dalla distanza, gli armati che li seguivano sembravano formiche confuse. Si fermavano, tornavano indietro, poi andavano un po’ avanti. Al minimo sasso, al più piccolo sciame schizzavano via lievi e veloci come gazzelle. Improvvisamente aumentarono di numero: un drappello di cavalieri li aveva raggiunti. Hania alla vista dei cavalli si irritò. Scatenò tutte le bestiole fornite di un qualche pungiglione di tutta la regione, arricchì la strada di uno stillicidio di piccole frane. I soldati scomparvero.

Evidentemente ne avevano avuto abbastanza.

«Speriamo che il mondo resti in pace, o con questi eroi non fermiamo nemmeno un esercito di coccinelle» bofonchiò Dartred.

«Erano calabroni, non coccinelle. I soldati del mio esercito non sono dei vili» rispose Haxen seccata.

Nessuno ringraziò Hania di aver messo in fuga da sola gli inseguitori.