Gari lasciò il Castello dell’Acqua Perduta e si diresse verso nord. La sua mente era vuota. Aveva già pianto tutte le sue lacrime. Giurò che sarebbero state le ultime.
Un soldato non piangeva mai.
Lui era un soldato.
Uno degli ultimi difensori del Regno delle Sette Cime, che l’Oscuro aveva attaccato da dentro.
Non sarebbe crollato.
L’aurora illuminò il mondo e dopo di lei l’alba, così che le ombre si formarono. Sull’acciottolato teneramente sbilenco e perfettamente spazzato del cortile del Castello dell’Acqua Perduta, in quel momento si stava formando l’ombra del corpo di suo padre, ultimo comandante della Brigata del Sud a penzolare attaccato a una corda.
Un soldato non piangeva. Mai. Doveva continuare a ripeterselo. Non aveva bisaccia, non aveva borraccia, ma aveva il suo arco. Acchiappò un paio di scriccioli e un corvo e le loro carni striminzite lo sostennero insieme alla rugiada e a qualche manciata di piccole bacche amare di cui non conosceva il nome.
Un passo dopo l’altro, stando alla larga dalle strade più battute, Gari tornò a casa.
Da qualche parte doveva ben andare.
Il suo villaggio natale, una serie di casette bianche a forma di cono che si alternavano con gli ovili, si ergeva sulla cima di una collina sassosa che era gialla per l’erba seccata. Il belato delle pecore si mischiava con il tubare delle tortore. In basso, ben distante dalle case il piccolissimo cimitero. Gari entrò e cercò la tomba della madre. Vagò a lungo. Le piccole lapidi di legno erano consumate dal tempo, coperte di rampicanti: decifrare il nome malamente scolpito era difficile. Mentre peregrinava da una tomba all’altra, Gari fu interrotto da una voce.
«Tua madre è in fondo, sotto il roseto».
Gari si girò e vide la sensale nana. Anche se erano passati anni la ricordò. Era la vecchina che assisteva ai pochi parti, preparava gli ancora più rari matrimoni, curava qualsiasi tipo di creatura, che fosse un uomo, una donna, una pecora, un agnellino o uno dei grossi cani da pastore che tenevano distanti i lupi, curava l’erisipela, il carbonchio, i calli e i sogni cattivi con i suoi intrugli di erbe amare. Aveva curato sua madre, che era malata spesso, l’aveva guarita mille volte, ma l’ultima non ce l’aveva fatta. Il respiro di sua madre si era fermato. Gli occhi di sua madre erano diventati vitrei e la vecchia nana li aveva chiusi. Lui, Gari, era scoppiato in un lunghissimo pianto disperato, che era durato fino a quando le stelle avevano riempito il cielo e lui era crollato addormentato.
Gari non aveva mai saputo il nome della piccola signora grigia. Tutti la chiamavano la sensale, un nome gentile, con le esse e la elle che si rincorrevano, che ricordava il belato degli agnellini. Come allora era sempre vestita di veli grigi con i campanellini che oscillavano a ogni movimento riempiendo l’aria con un tintinnio argenteo.
Gari corse alla piccola lapide di legno, le sue dita seguirono l’intaglio che formava le lettere:
Altea, sposa di Ardo, madre di Gari,
che è vissuta nella tenerezza.
Fissò la lapide e ricacciò le lacrime. Un soldato non piangeva, non piangeva mai. La piccola signora grigia gli posò una mano sulla spalla. I campanellini tacquero.
«Dov’è tuo padre?» domandò.
Gari restò in silenzio. Se avesse aperto la bocca non sarebbe riuscito a trattenere il pianto.
«Com’è successo?» chiese ancora lei.
Gari dette fondo a tutto il suo coraggio.
«Impiccato» riuscì a bofonchiare. «Tradito» disse ancora.
«Il fratello tradisce il fratello. Lo sguardo obliquo negli occhi dell’amico. L’Oscuro ha attaccato» concluse la vecchia signora. «Vieni, adesso ti faccio un bagno e ti preparo la zuppa di fave. Puzzi tanto che mi spaventi le pecore, e sei così secco che ti sputerebbero persino i lupi».
Dopo quattro anni di eroica vita militare, Gari si ritrovò immerso nell’acqua tiepida, con in mano un piccolo preziosissimo pezzo di sapone. La piccola signora grigia aveva buttato nell’acqua rosmarino, luppolo e fiordaliso, e i suoi muscoli dolenti per i lunghissimi giorni di marcia si quietarono. Persino la sua anima, che era piena di orrore e livore per qualche istante sembrò trovare sollievo. Con molte raccomandazioni, la piccola signora grigia gli infilò vesti pulite, che avevano un’aria antica ma non sdrucita, come se fossero passate nuove di generazione in generazione, oppure come se fossero state fatte di un qualche materiale che aveva vinto l’ancestrale guerra con il tempo, che tutto e tutti perdono.
«Questa è seta delle terre meridionali, dall’altra parte del mare, dove le terre sono piene di gelsi e i bachi vivono incontrastati. La casacca è pesante perché è fatta con seta tessuta talmente fitta che può fermare una freccia. Per la spada e l’ascia non c’è niente da fare, quelle cerca di scansarle che è meglio, ma per il resto la casacca ti può aiutare».
Lavato e rivestito, Gari si trovò di fronte a una monumentale zuppa di fave con lardo, e il pane. Con le mani che tremavano, riuscendo a malapena a sostenere il cucchiaio, Gari si precipitò a mangiare: che tutto quello splendore tiepido e buono andasse dentro di lui, a riempire il vuoto e la fame che ormai da giorni lo attanagliavano. Quando la zuppa finì, la vecchia signora gliene versò dell’altra e poi ancora.
Quando finalmente fu sazio, pieno, certo di essere al sicuro, tutto l’orrore di quello che era successo gli esplose nella mente, ma di nuovo riuscì a trattenersi. Un soldato non piangeva mai. Improvvisamente, come il cielo pieno di nuvole dopo un temporale, la sua anima si aprì. Sua madre era morta e suo padre era stato ucciso come un traditore, ma la guerra non era ancora persa, e c’era un esercito che si batteva, un esercito di cui lui faceva parte, come Haxen che era la figlia di re Ari, come Dartred che aveva salvato il nord, come suo padre.
Era una soldato. Doveva combattere.
Avrebbero vinto, alla fine.