Finalmente arrivarono alla settima torre perduta. Era infinitamente più in alto di tutte le altre, su un picco che si ergeva splendido e altissimo, dominando il mondo, e sul quale si arrampicarono impiegando sette giorni per la salita. Ferono sette giorni durissimi, perché il sentiero era particolarmente stretto e particolarmente pieno di sassi. Anche dormire fu particolarmente scomodo, persino per loro che ormai, con l’addestramento che avevano al duro e all’appuntito, avrebbero trovato la vita di un carrettiere una sequenza eccessiva di agi e mollezza.
Eppure, in quella micidiale salita, ci fu un’insolita leggerezza, la brezza che si alzava la sera a consolare il loro sudore sembrava quasi serbasse dentro di sé profumi che non potevano esserci, quello dell’erba, quello dell’acqua. Le stelle brillavano enormi.
Al di sopra dell’impervio e aspro sentiero, la torre era altissima, ben più alta di tutte le altre. Dalla sua cima, nei giorni in cui il cielo non era appannato dalla foschia data dal calore, né impolverato dalle tempeste di sabbia, si poteva vedere il mare. Hania restò interdetta a fissare quella lontana, sottile striscia di azzurro che brillava sotto il sole. Percepì quasi la potenza delle onde, l’odore che dovevano avere. C’era una sensazione di forza insieme inquietante e benigna e, dato che dalla torre si vedevano sia la costa che il Regno delle Sette Cime, non era un caso che sulla sua sommità ci fossero i resti di un braciere abbandonato, diventato il nido di una famiglia di cicogne.
Fino a pochissimo tempo prima, accendendo un fuoco si sarebbero fatte segnalazioni che potevano essere avvistate dall’estremità meridionale del regno, perché da lì ne partissero altre che arrivassero fino al suo cuore. In passato doveva essere stato fatto e ne era testimonianza il parapetto annerito.
Che quell’elementare presidio fosse ora in disuso e abbandonato, era un segno grave. Nessuno aveva verificato se gli eremiti fossero morti o vivi, nessuno si era ricordato di quel loro ruolo di vedette. Era una follia, una prova di grave sciatteria, di un eccesso pericoloso di fiducia nella benevolenza del fato.
Una volta che furono arrivati, un frullare di ali attirò il loro sguardo verso l’alto e videro i grandi uccelli quietamente al sole.
Haxen spiegò che lì aveva vissuto l’eremita da tutti considerato il più santo. Hania pensò che doveva essere vero. Nelle sue conoscenze quella torre era particolarmente assente, un buco nero fatto di nulla.
Quello era l’uomo che suo padre doveva avere maggiormente odiato, o forse maggiormente temuto. Quello, quindi, che doveva aver avuto più forza. Hania ebbe anche un barlume di speranza che fosse ancora vivo, barlume che svanì subito, ma che non era insensato. Il sant’uomo era morto.
Come gli altri, il suo orto era stato giudiziosamente devastato, il pozzo riempito di sassi, come negli altri casi, da gente accurata che prendeva sul serio il proprio lavoro. Ma poi cominciavano le differenze.
Il sant’uomo non era un uomo, ma un nano. Forse era questo che lo aveva reso più forte, che gli aveva dato una potenza e una resistenza che gli altri non avevano. Lui alla notte maledetta era sopravvissuto. Era stato ammazzato da pochissimo, un pugno di giorni: il suo cranio fracassato non lasciava adito a dubbi sulla causa della morte. Della faccia restava una poltiglia macilenta su cui le mosche ronzavano con una tale ostinata convinzione, un tale frenetico entusiasmo, che la mente di Hania fece fatica ad allontanarle.
Haxen si lasciò crollare vicino al cadavere in decomposizione e si prese il viso tra le mani.
«Signora, scostatevi di lì, o le mosche e i vermi arriveranno anche a voi» disse acido Dartred. Forse era dovuto alla stanchezza o più facilmente al veleno del tafano, ma era sempre più impaziente e sarcastico.
«Certo» rispose Haxen alzandosi. «Lui era il più grande, era addirittura riuscito a resistere alla notte delle meteore. È stato ucciso, qualche giorno fa. Quindi qualcuno ci ha preceduto, ha devastato le torri degli eremiti, nostri potenziali alleati, ed ha assassinato l’ultimo. Qualcuno ci sta precedendo, forse altri ci stanno seguendo, di certo l’Oscuro ha innumerevoli pedine su questa maledetta scacchiera che è diventata la terra. Solo qualche giorno fa mi credevo invincibile. Ora so che siamo nella catastrofe, quindi armatevi di pazienza se ogni tanto il pianto mi assale».
Lei la puntura del tafano non se l’era presa e stava diventando sarcastica: quindi era la stanchezza.
Con la stanchezza diventavano sarcastici.
O forse non era stanchezza, ma disperazione.
Hania doveva pensare.
Lì l’essere pensante era lei: gli altri due erano cari e simpatici, se non crepavano lì cadendo dalla maledetta torre, ammazzati dal caldo o mangiati vivi dagli scorpioni, si sarebbero sposati e avrebbero avuto tanti bei bambini e quella sarebbe stata un’attività che sarebbe loro venuta meglio del pensare; non si poteva affermare che il pensiero fosse qualcosa per cui avessero predisposizione. Lo facevano, certo, come un gatto nuota, di necessità, di malavoglia e comunque sempre con risultati scadenti.
Hania guardò il cadavere del nano. Le dispiacque: un sentimento sordo e freddo, come una campana vuota, messo tra il torace e la pancia. Si chiese perché accidenti le dispiacesse tanto. Non era il primo morto che vedeva e non è che gli altri l’avessero rattristata: semplicemente la loro morte l’aveva irritata in quanto le complicava l’esistenza.
I nani erano pochi. Uno di meno, era comunque una perdita.
Forse era per quello che le dispiaceva. Ma c’era qualcosa di più. Aveva guardato sei cadaveri di santi uomini defunti con un unico pensiero che trotterellava tra il male ai piedi e la voglia di una veste che non puzzasse troppo di sudore e la delusione di un’altra maledetta arrampicata inutile. Lei era comunque lei: la figlia dell’Oscuro. Poteva anche aver deciso di battersi per la giustizia, ma la compassione per i defunti e la tenerezza per i sofferenti restavano al minimo. Aveva dato per scontato che lei alle cose ci arrivava più per ragionamento che per sentimento vero.
Di quello lì gliene importava.
Doveva pensare. Gliene importava perché c’era qualcosa che doveva capire. Da quando aveva sconfitto suo padre, da quando aveva salvato Haxen, non solo tutto aveva acquistato colore, il mondo aveva smesso di essere uno sfondo e si era animato, ma era anche comparsa una specie di mappa nella sua mente non più fatta di punti cardinali, ma di sentire e capire.
Da quando aveva cominciato a sentire, prima sentiva e poi capiva: era un sistema per lei nuovo, di cui però doveva cominciare a fidarsi, e comunque funzionava così e diventava sempre più forte. Le dispiaceva per la morte di quel nano come fosse stato qualcuno che conosceva, qualcuno che già aveva incontrato.
C’era una magia verde nella spada di Haxen. Hania aveva battuto suo padre con quella spada perché dentro c’era qualcosa di benefico e potente, una magia verde, qualcosa che aveva a che fare con i nani. Con quel nano. Ecco perché aveva quella sensazione.
Hania si avvicinò ad Haxen, sfilò gentilmente la sua spada dalla guaina, poi tenendola in pugno si avvicinò al nano e indicò più volte lui e l’arma.
Dartred la guardò interrogativo, poi annuì.
«Sì» confermò. «Quella spada è stata fatta da un nano. Lavorava nella bottega di mio padre. In quella spada come nella mia ascia c’è la sua perizia, c’è l’arte dei nani».
Non c’era solo quello, c’era anche la loro magia, c’era anche qualche altra cosa. Con quell’arma aveva fermato suo padre, Dartred con la sua aveva abbattuto la tigre che ne era un’emanazione.
Dartred si interruppe. Si avvicinò al morto, il viso era sfigurato, e restò a lungo a fissarlo, mentre le mosche ronzavano inquiete e allibite di restarsene in aria dove nulla c’era che le interessava, mentre il cadavere del nano e il sudore e il sangue rappreso, il meglio del meglio, restavano due spanne più in basso inutili e sprecati. Dartred alla fine guardò le mani del morto, le prese tra le sue, passò con le dita sul paesaggio fatto di cicatrici e callosità: doveva esserci qualcosa per cui lo riconobbe.
«È quel nano?» domandò Haxen.
Dartred annuì, poi si alzò e indietreggiò, forse per il fetore, forse per l’orrore.
«Rastrid! Si chiamava Rastrid. È lui. Era lui. Era un personaggio strano, mai avrei pensato di trovarlo qui. Non aveva niente di mistico, la persona meno ieratica che avessi mai incontrato in vita mia. E con il vino ci dava dentro. Anche con la birra. Però era il fabbro migliore mai esistito. Lui ha messo nella nostre armi, la vostra, le mie, quelle di vostro padre, una minuscola porzione di un metallo verde, un’antica conoscenza dei nani, questo le ha rese invincibili».
Qualcosa di verde, Hania lo aveva sentito, qualcosa di verde, di potente, fresco come il vento sulle colline, tiepido come il sole del pomeriggio. Non era solo un metallo. Non era solo metallurgia, sia pure altissima, quella che c’era nelle spade. Era la magia dei nani, una magia fatta dal loro amore per la terra, l’erba, l’acqua e il cielo.
Il nano era stato ucciso, massacrato. Qualcuno stava distruggendo tutto quello che era dalla loro parte. Hania doveva pensare: quella frase continuava a girarle nella mente.
«Lui era con me, quando abbiamo combattuto sulle montagne. È stato fondamentale per me, per tutti noi. Ha riparato le nostre corazze, ridato il filo alle spade, ci ha portato conforto quando eravamo scoraggiati».
Un personaggio fondamentale, quindi. La mente di Hania correva. Tutto aveva un senso. Il nano, il fabbro, era il settimo eremita: la sua arma aveva sostenuto Dartred, lui era quello che aveva messo nelle lame che aveva fabbricato qualcosa che teneva testa all’Oscuro. Lui era stato uno di coloro che sapevano che c’era una guerra mentre tutti gli altri lo ignoravano e credevano in una lunga serie di sfortune, in un casuale concatenarsi di disastri.
E ora era morto: si era fatto ammazzare come un pollo, come un implume anatroccolo attaccato da una faina, come una qualsiasi mosca finita nella tela del ragno. Eppure era stato quel nano, a pensarci bene, la seconda pietra di inciampo su cui l’oscurità si era incastrata, essendo la prima il coraggio della casata delle Sette Cime. In un certo senso era stato il nano a trasformare il figlio del fabbro nel cavaliere protettore del regno.
Il potere che lo aveva ucciso doveva essere stato molto potente o in forza bruta o in capacità di menzogna, ma l’eremita nano era stato troppo intelligente per non prevederlo. Lui sapeva che c’era una guerra contro l’Oscuro e che lui ne era una delle pedine. O forse uno dei comandanti. Doveva aver lasciato qualcosa, doveva aver organizzato un messaggio prima di farsi ammazzare, evenienza, era il caso di ricordarsene, che poteva capitare anche ai migliori.
Hania indicò il nano e poi Dartred. Ogni istante che passava odiava di più l’essere muta. I due non capirono. Lei era muta e loro erano scemi. Le due cose si sommavano e il risultato era un’esasperazione sorda che si aggiungeva al caldo, al male ai piedi, alla puzza del morto e allo struggente rimpianto che non fosse in vita.
Finalmente Haxen ci arrivò.
«Vuole che raccontiate di lui».
«Ho già raccontato» rispose Dartred con la voce stanca e quell’esasperazione e disprezzo che ormai erano quasi sempre nella sua voce.
«Tutto quello che vi viene in mente» insisté Haxen.
Dartred sospirò, alzò le spalle e ricominciò. Raccontò di sbronze, di litigi alla bottega tra suo padre e il nano, della tecnica per fabbricare lame che descrisse minuziosamente, poi finalmente ricordò quello che serviva, che tra l’altro era la cosa più importante di tutte, ma lui la ricordò per ultima perché gli uomini erano fondamentalmente stupidi, e anche se aveva deciso di combattere per loro Hania doveva prenderne atto. Ed era un punto a favore di suo padre.
«E quando ho incontrato la tigre, quella che ha ucciso vostro padre, ecco… mi è arrivata la sua voce, e quella degli altri» ricordò Dartred. La sua voce era lenta, incerta. «Ecco, è buffo a dirsi, ma quel canto mi ha aiutato».
Buffo a dirsi un accidente.
“Buffo a dirsi” era la frase che ricorreva quando venivano pronunciate parole imbarazzanti per la loro ingenuità.
Buffo a dirsi che mentre eri nel pericolo un canto ti abbia aiutato?
Già, “buffo a dirsi”, ma si aveva quasi l’impressione che un Oscuro Signore esistesse e che il suono di antiche parole lo combattesse: certo, erano superstizioni da vecchie beghine e anziane zie nubili, mentre loro erano tutti dei geni… E a furia di colpi di genio stavano consegnando il mondo all’oscurità. L’Oscuro Signore temeva gli antichi canti e temeva il nano, che li conosceva.
Hania alzò le mani.
«Questo è importante» tradusse Haxen.
«Cosa? Come è morta la tigre? L’ho già raccontato. Perché devo ripetere…»
«Il canto!» intuì Haxen.
«Il canto? Perché?»
Perché avrebbe dovuto essere evidente che era stato quel canto ad aiutare Dartred, quindi nel canto c’era qualcosa che bloccava il potere dell’Oscuro. Se quel canto infastidiva l’Oscuro e le sue creature, non era meno importante della pietra verde nelle loro lame. Inoltre, se il nano aveva nascosto qualcosa, era verosimile che le indicazioni fossero in qualcosa che l’Oscuro odiava e che né lui né i suoi adepti avrebbero ripetuto.
«Certo! Perché è importante che anche noi la conosciamo. Forse è una cosa utile. Se è un’arma contro l’Oscuro, meglio impararla a memoria. E forse contiene qualche indicazione» disse Haxen.
Finalmente. Haxen era diventata la più intelligente. O, meglio, Dartred stava diventando sempre più scemo oltre che sempre più ansioso, astioso e insopportabile. Bisognava levargli quel veleno al più presto.
Dartred cercò di ricordare.
La forza della terra, dell’acqua la misericordia,
col nostro il cuore del mondo batte in concordia.
Il nero della notte che i nostri sogni custodisca,
il rosso del coraggio, che la giustizia non perisca
il bianco della purezza, come neve distesa
perché alle tenebre mai daremo la resa.
Nel cielo e nelle acque forte risuona il canto,
e terre emerse e quelle infere della nostra fierezza il vanto
saranno riunite nella luce: noi vinceremo il mostro.
Il cuore del mondo batte con il nostro.
«Non so cosa voglia dire».
Terra, acqua, nero, rosso, bianco, cielo, acqua, terra, luce. Doveva metterli insieme.
La terra c’era due volte.
La cime della torre. Da lì si vedevano sia mare che terra, era annerita dal fuoco rosso che vi aveva brillato in passato, per ospitare ora il bianco delle ali delle cicogne. Si vedeva sia la terra del nord che quella del sud ed era il punto più alto di tutta la regione, quella che per prima vedeva l’alba, e per ultima salutava il sole del tramonto, e lì, ora che guardava con attenzione se ne accorgeva, c’era un incavo per raccogliere le acque, che dopo le rare piogge, quindi, si trasformava in una specie di minuscolo stagno aereo, che rifletteva il cielo.
Hania indicò la cima della torre. Se il nano aveva lasciato qualcosa per loro era lì.
«Dobbiamo salire fino a lì? E che diavolo c’entra la cima della torre con le parole della canzone?» domandò Dartred con una grande perplessità nella voce, un’infinita stanchezza, il solito disprezzo. Hania annuì e lui si avviò. Lei era muta e loro erano scemi, un punto per suo padre, ma almeno erano pieni di buona volontà, ed era un punto per lei.
Si arrampicarono su una scaletta ripidissima. La mente di Hania chiese gentilmente alle cicogne di alzarsi in volo, lasciando libero il braciere: sotto uno spesso strato di cenere ed escrementi di uccello, c’era una cassetta di rame battuto, bella come uno scrigno, ovviamente chiusa da una robusta serratura.
La mano di Hania vi si posò sopra e un limpido clank risuonò nel silenzio.
Ridiscesero per aprire il minuscolo forziere. La notte stava calando. Le mosche si acquietarono, e il freddo cominciò. Accesero un fuoco così da avere calore e luce, poi con calma, con movimenti lenti, esplorarono l’insolito contenitore. Dentro c’erano una fiasca e una pergamena, che Haxen cominciò a leggere con la sua voce chiara.
Se state leggendo questo, chiunque voi siate, vuol dire che sono già crepato e probabilmente non di morte naturale, devo essermi fatto ammazzare come un idiota. Da un lato mi secca, dall’altro me ne vado da mio figlio, tutto sommato ne ho abbastanza di essere vivo in questo mondo accuratamente diviso tra malvagi e idioti. Spero che chi sta leggendo questa lettera non faccia parte del primo gruppo, sennò sono cavoli.
«Lo stile è rimasto invariato» osservò Dartred.
Hania capì perché le dispiaceva essersi persa il nano da vivo. Sembrava il più sano di mente di tutti quelli che aveva incontrato.
Sono nato sul mare, nei regni meridionali, e sono morto qui, su questa maledetta torre, in cima a un regno a forma di scodella, che è tutto quello che è rimasto della decenza del mondo. Sono venuto qui per controllare la Porta del Cielo, il passo che accede alla valle. Chiunque vi si fosse avvicinato, lo avrei visto per primo. Le cicogne si cacciano con una pedata e la legna per accendere il braciere è secca e ordinata nascosta sotto la cenere, pronta a bruciare. Sono rimasto qui a scrutare l’orizzonte e le stelle. Ma non è da sud che è venuto l’attacco, bensì dal cuore del regno e le stelle lo hanno segnalato. Come ormai tutti sanno, anche le rocce, durante la notte delle meteore una donna del Regno delle Sette Cime è stata violata dall’Oscuro, e quelli che hanno guardato il cielo ci sono anche rimasti ammazzati: un veleno è scivolato dentro di loro attraverso gli occhi, un oscuro incantesimo di morte. Gli uomini non sono capaci: la divinazione non è il mestiere loro. Neanche la metallurgia, se è per questo, eppure si ostinano con le loro fusioni impure e le loro viti storte, come si ostinano con le loro divinazioni azzoppate.
«È proprio lui» sottolineò di nuovo Dartred.
Io che sono un nano, signore dei metalli e delle stelle, ho osservato il cielo senza morirne e, dato che sono rimasto vivo, forte e in buona salute ho potuto osservarlo fino alle ultime meteore. C’era un secondo messaggio nascosto nelle code. La luminescenza creava pieni e vuoti, come nelle antiche rune, e alla fine, era quasi l’alba, sono comparse improvvisamente, ben dopo le altre, le ultime meteore che portavano le parole: SARANNO DUE. Tutti gli altri eremiti e veggenti stavano già rantolando o crepando, a quel punto, quindi le ultime meteore le ho viste solo io. È stata un’idea improvvisata, il secondo infernale marmocchio, una di quelle che si hanno sul momento, come quando sei uscito per comprare le cipolle e al mercato decidi di prendere anche le acciughe. Sarà un marmocchio fatto al risparmio, avrà un corpo normale, conoscenze qualsiasi, nessun potere. Unico elemento straordinario sarà la malvagità. I bambini saranno quindi due, entrambi con la meteora sul polso, una bambina e un bambino. Se una muore resta l’altro, e poi, questo è il piano segreto dell’Oscuro, se nessuno dei due tira le cuoia e arrivano all’età della ragione, si può fare un bel matrimonio, un bell’incesto che quello ancora ci mancava, e così l’Oscuro mette su famiglia. Se questo succederà, sarà la fine. Tutto quello che abbiamo visto sino a ora, al confronto sarà un giardino fiorito.
Nella fiasca c’è ovviamente Acqua Sacra. Se chi ha trovato questa scatola non appartiene alle forze oscure, una fiasca di Acqua Sacra con i tempi che corrono e quelli che correranno, può far comodo. Se appartiene alle forze oscure, per aver sfiorato la fiasca magari crepa, che così ce n’è uno di meno a romperci i cosiddetti, se non crepa almeno una colica o i brufoli glieli dovrebbe far venire, per lo meno i calli, dovrebbe aumentargli i pidocchi. Chissà, magari gli cade la mano. Per lo meno le piattole e i vermi. Questa Acqua Sacra è un po’ speciale, un’altra di quelle robe che può avere solo un nano.
Haxen smise di leggere. Lei e gli altri si guardarono in faccia, attoniti, in silenzio.
«Due? Due donne ingravidate e due bambini? La contadina, con il suo bambino?» mormorò Haxen.
Il silenzio continuò interrotto dalle cicale.
«Un bambino apparentemente normale, normalmente piccolo, normalmente bruttino, non come Hania!»
Altro silenzio. Questo più lungo. Cicale e anche un picchio in lontananza.
«Certo, le cose identiche si riconoscono come tali. I due bambini sono diversi. Ma noi come abbiamo fatto a essere così idioti? Non c’è nemmeno venuto un dubbio» chiese Dartred.
Cicale, un picchio e un gufo. Poi di nuovo cicale e alla fine una civetta.
Come avevano fatto a essere così idioti? Anche Hania se lo stava chiedendo. Tutti, inclusa lei, avevano pensato al caso, che fosse credibile che per puro caso un bimbo dell’età giusta si fosse fatto sul polso un’ustione a forma di meteora.
I due ci erano caduti perché erano buoni. Essere sempre buoni era perdente come essere sempre cattivi. E altrettanto stupido. Peraltro, aver salvato la contadina e il suo marmocchio faceva parte della stessa logica che aveva spinto Haxen a salvare lei, quindi non poteva nemmeno sputarci troppo sopra. Ma lei?
Il punto era tutto lì. Lei come aveva potuto? Il bambino era bruttino? Doveva esserlo parecchio se Haxen che ingentiliva tutto lo aveva notato e detto. Perché lei non lo sapeva? Ricercò nella sua memoria il viso del bambino. Non c’era. Certo era sempre stato avvolto in fasce, ma lo aveva visto bene. Eppure non lo ricordava. In realtà non lo aveva mai veramente visto. Era stato come schermato, quasi come… il tafano… o il sorcio. E finalmente la domanda che si stava facendo ogni istante, come aveva potuto l’Oscuro sopravvivere, trovava risposta: un pezzo della sua anima era dentro all’altro figlio e da lì si era ricreata.
«Sarebbe bastato che ci facessimo gli affari nostri. Ci avrebbe pensato qualcun altro. Ora era tutto risolto» disse Dartred finalmente rompendo il silenzio.
«Quella ferita che vi sfigura sulla fronte vi fa parlare così. So che non è da voi» disse ferma Haxen. «Abbiamo fatto la cosa giusta, l’unica cosa da fare. L’errore non è stato impedire l’uccisione, ma non essere stati più accorti. Avremmo dovuto ostacolare la donna, non permetterle di rubarmi il cavallo e la spada. Il nostro compito era non solo salvarli, ma tenerli poi sotto la nostra protezione e soprattutto sotto il nostro controllo. Mi chiedo se la mente di quella donna fosse piena di malizia già in origine o se invece stia subendo l’influsso del bambino. Forse entrambe le cose. È una donna povera, non bella: la vita non l’ha benedetta. È possibile che già ci fossero risentimento, astio e invidia dentro di lei e che su questo sia poi arrivata la nefasta influenza del figlio. Ora è possibile che il bimbo controlli tutto il suo pensiero».
Ci fu un lungo silenzio.
«Ha scritto altro?» chiese infine Dartred indicando con il mento il foglio.
Vi avrei lasciato anche la birra, con i tempi che corrono anche quella fa comodo, ma me la sono scolata. Se state leggendo questo vuol dire che sono morto e quindi è stata un’idea decorosa rallegrare quelli che a quanto pare sono stati i miei ultimi giorni con un po’ di birra. La birra è buona, la birra è bella, un gran bel dono per questa terra.
«Era un grande nano» commentò Dartred.
«Potremmo fermarci qui, in questa torre» disse Haxen. «Se ripristiniamo i canali di irrigazione, saremo in grado di coltivare l’orto. Con il tempo ci procureremo qualche gallina. Da qui abbiamo il controllo del passo e possiamo proteggere il regno».
«C’è scritto qualcosa anche sul retro del foglio» notò Dartred.
Haxen lo girò e lesse:
Se state pensando di fermarvi qui, in questa torre, lasciate perdere. La torre difende tutti ma è indifendibile. Una volta tagliata l’acqua bloccando le piccola sorgente in alto, è solo questione di tempo. Se state leggendo questo non ce l’ho fatta io a salvarmi in questo posto. Chiunque voi siate, non ci riuscirete neanche voi.
Hania prese la fiasca e si avvicinò a Dartred. L’altro capì, e si distese al suolo. Hania sentì il liquido custodito nel buio calmo dentro il vetro, ne avvertì la presenza, come una sottilissima vibrazione, qualcosa che cambiò la luminosità dell’aria, che si espanse fino le cicogne, che si alzarono con il rumore dolce e sereno del loro volo lento.
Non era la prima volta che Hania toccava l’Acqua Sacra, ma non aveva mai avuto tutta quella potenza. Sollevò il recipiente e lo inclinò, per avvicinarlo al viso di Dartred. Nel compiere il gesto si accorse che conteneva anche qualcosa di solido.
Cominciò a versare, lentamente, fino alla fine: il liquido inzuppò il viso e i capelli del guerriero e la terra intorno, e alla fine qualcosa di solido si incastrò nel collo della fiasca per uscire poi con l’ultimo fiotto. Hania riuscì ad acchiapparlo prima che cadesse.
Era un sassolino verde. Hania non ebbe bisogno di spiegazioni per sapere di cosa si trattava. Tenne la piccola pietra tra le mani e sentì la gioia riempirla. Poteva sentire le foglie, gli steli d’erba, era come se avessero avuto un cuore che batteva all’unisono con il suo, era come se l’aria e le stelle che ora cominciavano a brillare fossero intrise di oro. Lo stesso potere che era nelle spade Hania lo sentì dentro di sé. Era stranamente leggera, come sospesa.
«La mia forza è tornata» mormorò Dartred. «La mia forza è tornata più potente che mai. È come se il velo nero che mi avvolgeva se ne fosse andato. Era una rete che mi imbrigliava, qualcosa di nauseante e di amaro» aggiunse.
Hania sussultò. Per un istante si era dimenticata di lui, si era dimenticata di tutto, persa in un mondo pieno di verde. “Qualcosa di nauseante e amaro”. Come una rete. Come un velo nero. Era così che lei era sempre, prima di quello scontro che lei nella sua ingenuità di bimba piccola aveva scambiato per lo scontro definitivo e invece era stata una scaramuccia. Lei però aveva comunque vinto l’Oscuro, sia pure in un unico scontro, aveva salvato Haxen e aveva liberato se stessa dalla rete di nauseante amarezza che da prima della nascita aveva oscurato la sua mente.
Hania guardò Dartred. Anche lui come lei conosceva quella sensazione. In un certo senso questo creava un legame tra loro, erano stati entrambi ostaggio dell’oscurità. Hania continuava a tenere il suo sguardo su Dartred, come se lo vedesse per la prima volta. Il suo viso conservava i segni delle segrete: il naso spaccato, i denti spaccati, ma persino così aveva un sua aspra bellezza.
Sotto le parole scanzonate, nascosta nell’ironia, aveva appena incontrato la grandezza di uno dei più grandi antagonisti dell’oscurità di suo padre.
Il nano fabbro, che portava nelle sue mani e nella sua anima la potenza del cuore arcaico del mondo, aveva scelto Dartred e Haxen, in un certo senso li aveva già uniti lui, mettendo nelle loro mani quelle armi dal cuore identico. Haxen era stata una scelta ovvia. Ma come era riuscito il nano a identificare Dartred? Era evidente che non poteva essere stata una scelta casuale. Il nano non poteva che passare dalla bottega del fabbro, se voleva mettere nelle mani dell’ultimo re del mondo degli uomini degno di questo nome una spada che gli permettesse di vincere, e lì aveva identificato nel figlio del fabbro come l’altro degno della stessa arma.
Il viso di Dartred aveva finalmente ritrovato la sua dignità e la sua simmetria. Tutto il suo essere irradiava una forza infinita.
L’astio che lo aveva afflitto si era dissolto.
«Quella pietra ha dato potenza all’Acqua Sacra esattamente come all’acciaio delle nostre spade» disse Haxen chinandosi a guardare la pietra verde sul palmo di Hania. «Io e voi l’abbiamo nelle nostre armi. Di questa faremo un ciondolo che la piccola porterà al collo. Quando sarà più grande e non appena riusciremo a trovare un’incudine, la useremmo per dare anche a lei un’arma degna. Dobbiamo avvertire mia madre, la regina. Ora, immediatamente. Deve sapere che c’è un secondo bambino. Deve sapere che sono viva, che vi devo la vita e che Hania è diventata uno dei nostri difensori. Deve essere informata subito».
Certo. La cosa da fare immediatamente.
Hania indicò il nido. Le cicogne erano tornate e ora dormivano serene. Il loro piumaggio candido si intravedeva nel buio, al chiarore lieve della notte.
«Possono portare un messaggio?» chiese Haxen.
Hania annuì. Certo. Potevano portare un messaggio come i piccioni, ed erano anche più veloci dei piccioni. Più belle. Purtroppo anche più buone. C’era sempre il rischio che qualcuno le tirasse giù per trasformarle in spezzatino con chiodi di garofano, anice stellato, rosmarino, salvia e patate novelle se ce n’erano. Tra le sue smisurate conoscenze c’erano anche libri e libri di ricette di cucina, distrattamente lasciate a sua disposizione, una sciatteria nella malvagità dell’Oscuro che si era dimenticato di privarla della conoscenza della cucina, come si era dimenticato di privarla della gioia della musica.
Scelse un maschio giovane. Gli avrebbe dato l’ordine di volare altissimo, ben al di sopra della gittata delle frecce, di riposare nascosto nelle selve, non esporsi sui camini, tornare forte e vivo.
Creò nella mente dell’uccello la letizia di eseguire l’ordine, e lui partì, lento e sereno, con la mente riempita di determinazione e di una strana gioia che non aveva mai conosciuto prima, un’allegria che aveva il profumo dell’erba, il luccichio dorato della rugiada nel mattino. Impiegò tempo ad arrivare e poi tempo a ritornare, e tutto insieme fu il tempo di un quieto inverno di cieli limpidi e freschi, di mattinate passate a zappettare l’orto e pomeriggi che scivolavano via lenti mentre facevano piani su piani.
Fu il loro ultimo e unico periodo di pace, quell’inverno luminoso e secco trascorso in quell’alta torre sospesa tra terra e cielo, che da un lato guardava il mare, dall’altro le alte cime del piccolo regno a forma di scodella.
Avevano seppellito il nano con una cerimonia in cui avevano messo tutta la tenerezza e tutta la nostalgia che portavano nel cuore. Dartred aveva preparato una pietra che gli facesse da lapide e aveva inciso il suo nome, Rastrid. Hania aveva aiutato con un po’ di magia: un tralcio di edera era comparso a intrecciarsi con la R. Era stato bello. Il ciondolo verde si posava tutto il giorno sul punto in cui il torace continua con il collo e si forma un fossetta. Spesso Hania lo cercava con la mano. La sua continua sensazione di assoluta solitudine sembrava attenuarsi quando lo sfiorava. C’era una guerra, e non erano soli. C’erano anche i nani. Nessuno se ne ricordava mai, nessuno li calcolava, ma dispersi in mezzo al mondo degli uomini, ormai senza più una terra che li riconoscesse, delle frontiere che potessero proteggerli, c’erano anche loro, con la loro arcaica conoscenza dei misteri della terra e di quelli delle stelle.