La piccola vecchia signora tenne presso di sé Gari per tutto l’inverno. Non fu tempo sprecato. Gli insegnò l’uso delle erbe, come si sutura una ferita, come si assiste il parto di una pecora, che tanto era uguale anche per le vacche, le capre e le persone. Gli insegnò anche a fabbricare la birra, con il luppolo di un piccolo campo dietro al cimitero, impresa difficile perché uno degli elementi era l’acqua e loro ne avevano poca. Occorreva aggiungere qualche petalo di un piccolo fiorellino giallo che cresceva su quelle colline ossute e brulle, l’artemisia gialla.

«Insieme al luppolo e con qualsiasi acqua, anche quella di una pozzanghera, farai una birra magnifica» spiegò la piccola signora grigia.

Il risultato era un liquido dorato, con un profumo travolgente.

«Attento, è roba per i nani. Un uomo con questo si prende una sbronza totale, di cui non avrà memoria, e durante la quale racconterà tutti i segreti più riposti della sua anima» aggiunse la vecchia dama in uno scampanellio.

Gari apprese anche le antiche cronache della storia del regno, riassunte in un immenso rotolo di pergamena, scritto piccolissimo, che la piccola signora grigia teneva nascosto sotto il suo giaciglio. Le piante e i disegni gli permisero di sapere tutto sul Regno delle Sette Cime e sui suoi confini, sulle strade delle città e addirittura sulla struttura della reggia e dei castelli maggiori. Gari migliorò infinitamente la sua conoscenza della scrittura e dell’astronomia. Ambedue le scienze facevano parte del bagaglio di un soldato, ma in maniera ossuta ed essenziale. Quando qualche striminzita pioggia venne a rinverdire i pascoli delle pecore, le ginestre fiorirono di giallo e i capperi di rosa, Gari si congedò. Era più alto, più colto, meglio nutrito, altrettanto triste ma meno disperato di quando era arrivato sulla collina.

«Vado al nord» disse. «Devo cercare di capire cosa succede, vedere di organizzare qualcosa» spiegò. La vecchia dama non lo fermò. Uno scampanellio argentato e un agitarsi di veli grigi accolse anzi la sua decisione. Finalmente, da una qualche tasca nascosta nel fondo delle sue vesti, la sensale tirò fuori la pergamena più grande, quella con la mappa del regno, e un astuccio di velluto azzurro chiaro, come il colore del cielo prima dell’alba. Lo aprì e mostrò il contenuto a Gari: una pietra verde, piccola e tonda, che sembrava racchiudere l’anima stessa della primavera, del vento sulle colline, degli agnellini che giocavano nell’erba. Dell’erba medica, il trifoglio e il rosmarino, e della menta.

«Questo è il cuore del mondo, la pietra sacra del popolo dei nani. Messa nel fuoco fonde e si mischia con l’acciaio. Quando ti farai un’arma, che abbia questa nella fusione. Sarà forte nelle tue mani, darà precisione e potenza a ogni tuo colpo, con un filo sempre assoluto, e al contrario sarà un’arma pesante e difficile nelle mani dei tuoi avversari. Mentre vai a nord, cerca di passare dalla Valle degli Zampilli. Una fiasca di Acqua Sacra è sempre una scorta utile. Versata nelle ferite le fa guarire. Versata nella zuppa diminuisce la disperazione» disse aggiungendo ai doni una boccetta di vetro smerigliato, con un ghirigoro di bronzo sul tappo, che formava il disegno di una chiocciola.

Gari annuì, finalmente capì perché la sua disperazione non lo aveva annientato, perché la zuppa della vecchia signora avesse così tanto risollevato il suo spirito.

«Lo farò, signora, e farò un’infinita attenzione a questa pietra. Vorrei poter fare qualcosa per mostrarvi la mia gratitudine».

«Resta vivo e annienta quel maledetto» rispose lei.

«Signora?» chiese Gari perplesso.

«L’Oscuro è un demone, una creatura malefica che gode del male. È qualcosa che esiste, non è un’idea. E può essere battuto. Qui ci sono tre soldi, non è molto, ma non ho altro. Sulla strada di Kaam passano le carovane, non ti sarà difficile trovare qualcuno che venda del pane».

«Non so il vostro nome, signora» riuscì a dire Gari.

«Infatti, non lo sai. Meno cose si sanno, meno cose si possono raccontare. La conoscenza del nome è indispensabile per le maledizioni e per gli incantesimi. Meglio per me non spanderla troppo in giro» spiegò la vecchissima nana tirando fuori da una delle innumerevoli tasche nella sua veste un sacchetto di tela, che profumava come il vento sulle colline.

«Un ultimo dono: artemisia gialla. Un mondo che ancora produce la birra non può essere del tutto perso e vale la pena di battersi per lui».

Le mani della vecchia piccola dama si chiusero su quelle di Gari mentre gli consegnava l’ultimo dono, poi il ragazzino si avviò.

Ai piedi della collina raccolse fiori di cappero e ginestra per metterli sulla piccola lapide della madre, sperando con tutto il cuore che qualcuno avrebbe fatto lo stesso con quella del padre, qualcuno di quegli uomini che non avevano mai smesso di volergli bene, di sapere che lui e solo lui era stato il loro comandante.

Simbolo di separazione paragrafi

La marcia verso nord di Gari continuò. Nel suo primo viaggio, dal Castello delle Acque Perdute fino alla tomba di sua madre, Gari non aveva pensato a nulla se non all’orrore della sua vita annientata, alla voce di suo padre che non avrebbe sentito mai più, all’odore di sua madre che aveva sentito per pochi anni, ai passi che metteva sulla polvere di un mondo che lo aveva calpestato fino all’ultima briciola della sua anima. Ora, invece, a ogni passo la sua mano scivolava sull’astuccio di velluto. La pietra riempiva la sua sterminata solitudine. C’era la piccola dama grigia, c’erano la principessa Haxen, il guerriero, la bambina che avrebbe potuto ucciderlo e non lo aveva fatto.

Gari cominciò a pensare a lei. Si erano guardati per qualche istante alla Valle degli Zampilli. Lei era più piccola, certo, era una strega, ma sembrava più grande e di testa era ancora più grande, quindi era una bambina che forse era più piccola, ma forse era più grande. Avrebbe potuto scatenargli addosso tutte le formiche del mondo, farlo inghiottire un pezzetto alla volta dagli scorpioni, eppure non lo aveva fatto. E aveva i capelli colore del miele di tiglio, e per un attimo i suoi occhi azzurri come il cielo all’aurora avevano incontrato i suoi.

Di notte il cielo si riempiva di stelle, di cui conosceva il nome e i movimenti, e che gli indicavano la direzione, con la precisione del tratto d’inchiostro che disegnava la strada sulla mappa che aveva con sé. Giunse alla Valle degli Zampilli dalla strada più breve.

Erano passate poche lune dall’ultima volta in cui l’aveva vista. Se non avesse avuto la certezza assoluta che le stelle e la mappa lo avevano guidato nel luogo esatto, avrebbe pensato di essere altrove. L’abominio della desolazione aveva inghiottito le palme e gli alberelli, i ruscelli e gli zampilli in un unico maleodorante acquitrino, una palude putrida. Nuvole di zanzare ronzavano talmente fitte da oscurare l’aria.

Armigeri erano ovunque, e impedivano a chiunque di avvicinarsi: erano quelli della guarnigione del Castello delle Acque Perdute. Lui era cambiato, cresciuto, e tenne sempre la faccia in basso, che non fosse in vista. Nessuno lo riconobbe.

Gari aspettò la notte, che la guarnigione scivolasse in un sonno distratto, poi sgattaiolò piano fino alle sorgenti centrali, sperando che lì l’acqua fosse pulita. La luce della luna comparve gelida e lo aiutò.

Finalmente arrivò dove l’acqua cominciava: il movimento lento e calmo iniziava da una grossa roccia centrale. Quando non ebbe nessun dubbio, mise le mani a coppa, le riempì di acqua e le portò alla bocca.

Una lunga sorsata amara gli scese nella gola e la bruciò. L’orrore per la morte di suo padre impiccato come traditore tornò, insieme a una infinita disperazione per la propria assoluta solitudine.

L’Acqua Sacra era stata infettata. Aveva perso ogni potere e, anzi, ne aveva acquistato uno malefico. La mano di Gari corse alla pietra, che lo consolò, e gli dette la forza di uscire di lì, di trascinarsi via.

E, mentre si trascinava, fuori le nubi inghiottirono la luna e lui finì in mezzo a uno strano ammasso di putridume. Gli armigeri avevano costruito nuove caserme, edifici particolarmente brutti e tozzi, e per costruirli avevano abbattuto palme e alberi, che ora erano buttati a marcire tutti insieme, costruendo un intrico con i loro rami e i loro tronchi ormai orizzontali, dove Gari sgusciò a fatica nella luce sempre più incerta.

Poi, finalmente, le nuvole si scostarono e la luna riemerse, pura e bellissima. L’erba era ancora verde e pulita, tra i giunchi l’acqua scintillava più bella della luna. E finalmente Gari si rese conto che lì tutto era vivo: l’erba, i giunchi, gli alberi che avevano abbattuto.

Nascosta tra i sassi c’era l’ultima polla di acqua pulita. Brillava come se la luna fosse scesa fino all’acqua, come se tutta la felicità del mondo si fosse data appuntamento lì. Gari si chinò, ne bevve a volontà, se ne impregnò le vesti, poi riempì la piccola fiasca e, lieve come un fantasma e felice come una tortora a primavera scivolò via.

Quando l’alba arrivò, era al sicuro sull’altura che dominava la valle. Dall’alto si accorse che c’era un disegno a chiocciola, simile quindi al ghirigoro sul tappo smerigliato, il cui centro era la piccola polla che gettava acqua pulita, che si infangava poi, trafficata e venduta, di putridume e ignominia. Guardò gli alabardieri e sentì per loro una vaga repulsione, in particolare il capo, un tizio piccolo con i capelli bianchi che già conosceva, che gli ispirò una repulsione profonda, una specie di nausea che arrivava fino al cuore e lo avvolgeva in una nuvola di gelo. Mentre lo guardava scorse nella sua mente il corpo di suo padre impiccato, immagine che non aveva mai visto in realtà, e fu sicuro che quell’uomo non solo era stato presente, come ovvio, ma era stato un elemento fondamentale di quel giorno maledetto.

Il giorno dopo partì per Kaam.

La stessa pace che aveva nel cuore quando aveva lasciato la piccola signora grigia lo accompagnava di nuovo. Era quasi arrivato in vista delle mura di mattoni rossi della città, quando una cicogna solcò il cielo diretta a sud. Volava bassa, aveva una specie di astuccio di velluto legato alla schiena e al collo: stava portando qualcosa. Evento insolito. Di solito si ricorreva ai piccioni. Certo che per un carico così pesante un piccione era una bestiola piccola, ma restava il problema di sapere come era stato possibile addestrare una cicogna.

Mentre guardava il volo lento e maestoso una strana euforia lo prese, e ne comprese il significato. La cicogna con il suo astuccio in qualche maniera faceva parte della sua stessa armata. C’era una guerra e lui aveva acquisito la capacità di riconoscere all’istante gli amici e i nemici.