Per arrivare a Geno, la città più grande del Regno dei Mercanti, camminarono verso sud per quasi una luna. La primavera fiorì e germogliò persino lì, in quei luoghi polverosi che sembravano dimenticati da tutto e tutti, inclusa la vita.

Il deserto divenne sempre più vivo, si ingentilì di cespugli di ginestre e di capperi in fiore, con il verde, il giallo e il rosa che splendevano sotto il cielo infuocato.

Era una terra piena di abbandono, fatta di argille aride calcinate dal sole. Nelle gole più strette si creava il miracolo dell’ombra, e riusciva a vivere qualche piccolo bosco dove pochi alberi si mischiavano agli arbusti spinosi. Tra i tronchi scivolavano l’ombra cupa del lupo e quella nera e arcaica del cinghiale. Il frinìo delle cicale, stridente e monotono, assordava ovunque e sempre quell’aspra desolata bellezza.

Lontana ed alta, la cicogna non smetteva di seguirli. La montagna dell’Aria Grigia si alzava davanti a loro. Il suo versante meridionale accoglieva la città di Geno.

Sulla parte settentrionale della cima della montagna vivevano i miserabili. Stavano nelle argille ripide e aride, terre di ginestre e capre inselvatichite, che si aprivano in innumerevoli caverne, così da formare due villaggi verticali, uno posto sul lato orientale della lunga valle, più polveroso, dove videro sagome di donne e bambini e l’altro, più lontano, sul lato opposto. Era quello dei lebbrosi, spesso avvolti in inquietanti e sudici panni bianchi, posto di fianco a uno dei rari torrenti e ingentilito dalla presenza di rampicanti e piccoli frutteti.

Haxen spiegò che il lebbrosario, anche se era molto a sud rispetto al confine, ospitava i desolati infermi di ambedue le terre. Hania si rese conto che lo ignorava. Il lebbrosario mancava, nelle meticolose mappe di suo padre, che erano un gioiello di pignoleria e di precisione, come mancavano le torri, inclusa la settima, che se non altro per la vertiginosa altezza del pinnacolo su cui sorgeva avrebbe dovuto essere segnalata come entità geo­grafica. Che un posto di macilenti morenti e orripilanti malati potesse essere un luogo di resistenza alle forze oscure le sembrò inverosimile, ma prese atto di quella constatazione.

Le capre si stagliavano ovunque. Hania pensò che dovevano essere l’unica ricchezza di quei luoghi bruciati e anche la causa perenne della loro miseria, perché, strappando l’erba, causavano la morte di qualsiasi verde, inaridivano sempre più la terra, rendendo il mondo un luogo inadatto a qualsiasi vita, con l’unica eccezione della loro. L’unica strada che si arrampicava su quelle alture era percorsa da carri pieni di merci di ogni tipo e presidiata da armigeri, per allontanare malintenzionati e mendicanti.

Erano armigeri con le insegne del Regno dei Mercanti, uno stemma con un aratro e un grappolo d’uva.

Da tre lune erano fuori dal regno. Nessuno li cercava. Nessuno li conosceva, né poteva riconoscerli. Sarebbe stato un lungo esilio.

La strada si arrampicava sul versante arido fino alla cima della montagna dell’Aria Grigia, per discendere poi ripidissima verso la città, sul versante meridionale che era verdissimo, ricoperto di noccioli e castagni.

Di Geno, Hania sapeva tutto. Era la prima città del regno, ben maggiore per grandezza e importanza della piccola capitale, Vara.

Vara se ne stava rincantucciata a ovest, interamente dipinta di giallo, palazzo reale incluso, graziosamente poggiata in una lunga valle verde che scivolava dolcemente in mare su una corta porzione di costa, l’unica abbordabile tra scogliere vertiginose, che era stata usata per creare una piccola darsena che ospitasse i natanti da diporto, i caicchi, le imbarcazioni minori per le fughe romantiche, la nave reale usata il primo giorno dell’anno per la cerimonia delle acque: libbre e libbre di petali di rosa buttati nelle onde del mare per ingraziarselo. A est c’era la Terra Aspra, un luogo fatto di scogliere inviolabili, selve impenetrabili, qualche sparuto villaggio di pescatori con la lodevole attività di pescare il pesce e seccarlo su lunghi tralci fatti di legno di betulla, in un tanfo infernale e sotto nugoli di mosche.

Geno invece era capitale dei traffici, degli scambi, del pesce pescato e smistato, delle bancarelle sui moli, dei grandi magazzini fatti di solide assi di quercia nera.

La citta era lunga e stretta, incastrata tra il mare e una parete verticale e altissima, e per metà era costruita sulla terra, per metà sul mare. Per metà quindi era fatta di case di pietra alte e cupe, addossate alla parete verticale della montagna, con strette e piccole finestre chiuse da inferriate, per l’altra metà da palafitte edificate direttamente sull’acqua, dove la penuria di spazio le aveva costrette.

La montagna dell’Aria Grigia si ergeva altissima dietro la città, a separarla dalle terre aride che si estendevano a nord. La brezza che veniva dal mare le urtava contro, riempiendo il ripido crinale meridionale e la città di pioggerelle continue, ma non riusciva a superarlo: a settentrione la montagna si abbassava lentamene nell’altopiano infecondo e continuava poi con il Deserto delle Torri Perdute. Una nebbia permanente stava sul punto più alto del monte dandogli il nome.

In basso l’acqua brillava in un’infinità di minuscoli canali sotto un sole feroce e allegro; un vento continuo teneva l’aria tersa e pulita e riempiva le onde di spuma. Grosse cime piene di piccoli topi legavano innumerevoli pescherecci a sontuosi moli di pietra scolpita di fitti bassorilievi, pieni di gatti litigiosi e scarni. Ovunque bambini giocavano gridando in mezzo a miriadi di spruzzi, ma su tutto quell’azzurro e quell’oro sventolavano lugubri miriadi di stendardi neri.

«È l’usanza del luogo» spiegò Haxen, forte dei suoi studi di scienze diplomatiche e conoscenza del mondo. «È abitudine appendere al punto più alto della casa un drappo quando qualcuno è mancato, se c’è stato un lutto nella casa, e lasciarlo lì negli anni necessari perché il sole lo scolorisca e il vento lo riduca a un brandello. Un gesto gentile per ricordare i propri morti».

Hania si rese conto di sapere anche quello. Della città sapeva veramente tutto.

Se faceva parte delle sue conoscenze in maniera così minuziosa, era perché lì la presenza di suo padre era potente.

«Sarà un gesto pieno di gentilezza, ma ha qualcosa di triste e cupo» osservò Dartred.

Era qualcosa di molto peggio.

La città sarebbe stata splendida, posata sul mare con il sole che le scintillava sopra e la montagna verde alle spalle, se in ogni punto non fosse stata imbrattata dal nero dei drappi. Non era solo inquietante. C’era qualcosa di mostruoso in quella città listata a lutto che alternava l’azzurro e il nero, come se avesse avuto due anime, una fatta di luce, l’altra di buio. Era una città piena di vivi che portava lo stendardo della morte, palpitante di segni di perdita. Era come se la scomparsa fosse ovunque, a ricordare come la vita fosse un evento temporaneo e inaffidabile.

Erano nei domini di suo padre. Il piccolo Regno delle Sette Cime, con la sua onesta corruzione, i suoi sporadici e rari sussulti di crudeltà non li aveva preparati a che cosa era la reale essenza del mondo, dove nessuno lo aveva difeso. Quei drappi neri erano il simbolo di altro, Hania non riusciva a metterlo a fuoco. Quando si concentrava su di loro, lontanissimo le arrivava un suono che si mischiava con quello delle onde e ne era coperto, si perdeva in quello del vento. Era difficile da udire e persino lei ce la faceva appena e a tratti, solo quando i suoi occhi si riempivano del nero di uno degli stendardi; ma c’era, e riempiva il cuore di una pena opaca, che aveva lo stesso sapore della sabbia e della polvere.

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Hania conosceva la mappa della città fino ai più piccoli moli, l’ubicazione delle taverne più sguaiate e quella di un più sobrio ostello che accettava forestieri, gestito da un’arcigna vedova che avrebbe potuto ospitarli.

Sapeva anche dove era la casa degli armigeri, da cui sarebbe stato meglio stare alla larga. Haxen era la principessa di un regno contro cui, di tanto in tanto, quelli di Geno qualche disastrosa guerra l’avevano scatenata: potevano considerarla un gran bell’ostaggio, in previsione di quella successiva. Meglio restare sobriamente celati a fare i tizi qualsiasi, che campavano in qualche maniera.

La vedova che teneva l’ostello si chiamava Madama Tara, e sottolineò con sussiego la parola “Madama”. Era lunga e secca, ricca di un’antipatia respingente che si annodava nelle volute di un eloquio fastidiosamente ridondante. Vestita di veli neri, aveva un raro sorriso amaro e un profondo solco verticale tra le sopracciglia a chiarire la sua opinione sul mondo.

Madama Tara aveva una delle migliori palafitte, piena di piccoli mobili, piccoli ninnoli e piccole tende.

Si dichiarò vedova del capitano di una piccola nave mercantile, che faceva piccoli traffici guadagnando piccole somme, scomparso in mare in una delle terribili tempeste che flagellavano il mondo, e le ondate che lo avevano travolto furono l’unica entità di una qualche dimensione che comparve in tutta la narrazione: Madama Tara adorava la parola “piccolo”, che rotolava e rimbalzava ovunque come un micio che giocasse con un gomitolo.

La città viveva di pesca e di mercati.

In basso, tra la montagna e la spiaggia c’era una striscia coltivata, dove qualche striminzito albicocco si sforzava di trasformare in frutti intristiti dalla salsedine i pochi fiori che scampavano al vento. C’erano poi alcuni filari di carote, fagioli e ceci, e qualche campo di grano tentava di produrre un po’ di carissima farina.

Invece, regnava incontrastato il cavolo, in filari ordinati e sontuosi: era presente in ogni scodella, con i gamberi, le sardine, il pane, a Geno poco e caro, ceci e fagioli, o niente del tutto a seconda del livello di agio o di capacità di furto. Nella città, per indicare qualcuno di balzano, schizzinoso e con la puzza sotto il naso, quelli delle Sette Cime per esempio, si diceva che fosse uno “che non gli piace il cavolo”.

La città avrebbe potuto essere ricchissima. Il mare era pescoso, anche se spesso travolto da bufere che abbattevano i navigli e si alzavano in mareggiate capaci di spazzare via le palafitte, che poi rinascevano, esattamente negli stessi luoghi, con gli stessi colori, con qualche drappo nero in più a sventolare nel vento per ricordare tutti i troppo lenti, coloro che non avevano corso abbastanza da salvarsi. I commerci avrebbero potuto essere prosperi, ma erano flagellati dalle navi pirata, che colpivano, con regolare spietata frequenza, con crudeltà assoluta, lasciando sia l’acqua che la terra rosso di sangue perché poi altre bandiere nere si alzassero a sventolare al vento.

Il Governatore di Geno, tale Tirpro della Colonna, era un uomo vecchio e stanco, con la pelle gialla e il ventre dilatato, che voleva solamente vivere in pace, incurante di ogni cosa che non fosse una poltrona comoda, uno sgabello su cui posare i piedi gonfi, con eternamente in mano un boccale di birra chiara che peggiorava la sua cattiva salute in cambio dell’illusione di poterla dimenticare per qualche istante.

Gli uomini partivano sulle navi e non sempre tornavano. A volte perivano tra i flutti, a volte si perdevano in porti lontani, dove altre donne e altri figli li distraevano. Allora su quella che era stata la loro casa si alzava il pennone nero e una donna cominciava a considerarsi vedova.

Le donne sole erano un esercito. Tiravano su i loro bambini, che non era facile, e a volte chiedevano aiuto ad altri uomini e i bambini aumentavano. Anche se il marito era perso, continuavano a nascere bambini.

Geno era la città dei padri perduti e dei bambini che ne nascevano privi, figli di madri miserabili e della vita, di mercanti di passaggio e dell’incuria. Un gran numero ne moriva e altri stendardi neri si aggiungevano a quelli che sventolavano per i naufragi, le epidemie, le mareggiate.

«Qui muoiono molti bambini» concluse Madama Tara, alla sera, dopo aver messo i suoi esausti ospiti davanti a una ciotola di rada zuppa, e averli informati delle usanze della città. «O forse muoiono dappertutto; anzi, sarà sicuramente così, ma qui le piccole donne del popolo sono convinte che ne muoiano di più. Per questo ci sono tanti piccoli drappi neri. C’è anche una stupida superstizione di piccole beghine che dice che la città è infestata dai loro piccoli fantasmi. Diventano folletti, i folletti dell’acqua li chiamano, e fanno piccoli dispetti. Tutte le volte che scompare una chiave, che pure ci si ricordava di aver posato sul tavolo, tutte le volte che inacidisce il latte, quando i bambini di notte piangono senza motivo, si dice che siano loro che fanno i dispetti. È una piccola superstizione senza senso. Fortunatamente ci stiamo liberando da queste piccole sciocchezze. Da un momento all’altro sarà varato un decreto e la piccola superstizione sarà vietata».

Hania alzò gli occhi, come se qualcosa avesse richiamato il suo sguardo verso l’alto, con un comando insieme cortese e fermo, come quando la falce della luna appariva in cielo, e non c’era costrizione nel cercarla con gli occhi, semplicemente sarebbe stato necessario uno sforzo per non farlo.

In alto, sopra le travi del tetto, c’erano appollaiate tre minute figure, diafane, all’inizio indistinguibili, guizzavano e scomparivano nella luce traballante delle due grasse candele di sego che illuminavano la stanza e l’appestavano con un fumo sottile e acre che saliva lento.

Guardando con attenzione riuscì a mettere a fuoco, per qualche istante, che a fissarla erano due maschietti seminudi con una fascia che cingeva loro i lombi e una bambina, che invece indossava una tunica e aveva i capelli lunghi sciolti sulle spalle. I tre erano tristi e seri.

Le loro voci risuonarono dentro la sua testa.

“Piccola signora, creatura di vita e di ombra, tu che puoi sentirci, diventa la nostra voce, chiedi i nostri nomi, che non ne abbiamo uno, tu che puoi vederci, dille che ci siamo”.

“Non ho voce. Nessuna parola mi appartiene, nessun suono che giunga da me potrà essere udito” rispose Hania. Era la seconda volta della sua vita in cui poteva rivolgersi a qualcuno.

“Allora guardaci, piccola signora, che dal tuo sguardo noi possiamo essere guardati. Se non da lei, nostra madre, che almeno da te noi possiamo essere guardati”.

Hania capì perché la parola “piccolo” risuonava in continuazione come una campana a morte nelle parole della vedova, era come se lei avesse la necessità di nominare i tre piccoli che ora allignavano sotto il soffitto come la muffa, e restò immobile con lo sguardo verso l’alto fino a quando la vedova le chiese se per caso non fosse una piccola idiota. Fece poi qualche commento sul suo mutismo, chiese se era il gatto o la scortesia che le avevano mangiato la sua piccola lingua.

Haxen spiegò che il mutismo era rimasto da una terribile febbre infantile, spiegazione che ben si accompagnava a un comportamento bizzarro e pose fine alla discussione.

Hania abbassò gli occhi nella scodella e contò le tre foglie di cavolo, i due fagioli di cui uno marcio, e i tre ceci, tutti bacati. Sulla parete di legno azzurro, tra due finestrelle che si aprivano sulla notte buia, una lunga fila di cimici si avviava composta verso l’alto, dove erano gli spiritelli dei tre bimbi senza nome.

Decisamente era nei domini di suo padre.

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La palafitta della vedova era indaco, aveva anche un porticato, segno di un passato e dimenticato splendore, e attaccata al porticato c’era una piccola barchetta dipinta di verde che la vedova non utilizzava e che Dartred comprò dopo una breve contrattazione per una moneta d’argento e due di rame.

I primi giorni la vedova fornì anche qualche striminzito pasto, venduto a prezzo folle e servito con una monocorde e continua lamentazione, che veniva espressa con il ritmo costante di una a ogni espirazione.

Come se non fossero bastati gli arbitrii del mare, raccontava, con straziante regolarità le vele nere dei pirati comparivano e cominciava il disastro. Gli armigeri erano pochi, la città era stretta tra il mare e la verdissima parete verticale, solcata da un’unica strada che si arrampicava lenta. Ogni tre o quattro anni, se andava bene cinque, comparivano le vele. Loro tre erano fortunati: i pirati erano appena passati e quindi era un momento di tranquillità, di pace si sarebbe potuto dire, la piccola pace tra un’incursione e l’altra. Quando le vele comparivano tutti si rifugiavano in alto, cercando di portar via qualcosa, ma non tutto, perché se i pirati non si fossero attardati a svuotare le case, a cercare i gioielli nascosti, un monile alla volta, li avrebbero inseguiti, e allora i morti non si sarebbero contati. Chi non era abbastanza veloce subiva la tortura che i pirati usavano per farsi rivelare i nascondigli dei tesori, o per sfogare la delusione che non ce ne fossero.

Quello che subivano le donne era immaginabile e ovvio. Nove mesi dopo nascevano i figli dell’incursione, che venivano buttati in mare dalle madri perché annegassero insieme al ricordo di come erano stati generati. I figli dei pirati non erano accettati.

Le donne che decidevano di non farlo, uscivano dalla città e vivevano dall’altra parte dell’alto versante della montagna dell’Aria Grigia, insieme alle capre e ai lebbrosi. Quello era il luogo dei reietti.

Hania aveva lo sguardo fisso sulla vedova, talmente immobile che questa ne fu infastidita.

Era la sua storia, la sua e di Haxen. Era il suo stesso destino, quello che era stato descritto. Madri che si dannavano la vita per non sopprimere figli la cui nascita non aveva decenza, come non ne aveva avuta la sua.

Ora si spiegava il perché delle bandiere a lutto, ora sapeva chi erano i folletti. Ora capiva cosa era il gemito lieve che in continuazione percepiva. E soprattutto intendeva ogni istante di più come quello fosse uno dei domini di suo padre.

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Haxen e Dartred trovarono una piccola palafitta in vendita. Era la più lontana, la più appartata e isolata, e aveva un porticato sul mare cui legarono la barchetta verde. L’azzurro delle sue pareti era talmente scolorito da scomparire nel riflesso del mare. Non c’erano folletti.

Haxen camuffò Hania da maschio, per ulteriore precauzione, visto che nel Regno delle Sette Cime tutti sapevano che lei aveva avuto una bambina figlia dell’oscuro e prima o poi la disastrosa novella sarebbe arrivata anche lì, portata da qualche ciarliero mercante, da un carrettiere in cerca di qualcuno cui offrire le dicerie più fresche contro il pagamento di una bevuta. Sapevano di una bambina, non di un bambino. A qualsiasi assoluto deficiente sarebbe venuto in mente che una bambina poteva essere travestita da maschio, un insospettabile bambino sordo, ma Haxen era talmente euforica per un’idea così geniale, insospettabile e risolutiva, che non ci fu niente da fare per dissuaderla. Sua madre le tagliò i bellissimi capelli biondi, le strinse le maniche perché non potessero mai sollevarsi accidentalmente e trasformò la sua sottana in brache. Erano un indumento assurdo e scomodo che lei detestò. Fingersi sorda era difficile, occorreva un’attenzione continua. Finalmente risolse di sembrare idiota. Era molto più facile, bastava avere lo sguardo perso, la bocca un po’ aperta e nessuno si aspettava più che lei dicesse qualcosa. Inoltre l’allontanava ancora di più dalla creatura genialmente demoniaca che tutti stavano cercando. Perdeva però tutta la forza e l’agilità, perdeva la danza. Doveva nasconderle. Doveva trascinarsi. Le ritrovava quando era lontana dagli sguardi. Le restava il flauto. Correva voce che a volte persone molto impedite in qualsiasi altra capacità, nella musica eccellessero.

Spesso stava seduta sul tetto della palafitta, un bambino non troppo intelligente che guardava il mare suonando il flauto. La cicogna, la sua cicogna, andava a mettersi vicina a lei a farsi carezzare sul dorso e sul collo. La cicogna era il suo sguardo sul mondo. Grazie a lei sapeva quando una nave stava per attraccare, quando stava salpando. La cicogna spesso si spingeva sulle montagne e anche oltre e quindi Hania conosceva l’ubicazione di tutte le capanne dei pescatori, di quelle dei cacciatori, sapeva dove erano i torrenti e in quali tane si nascondevano i cinghiali.

Conobbe i villaggi dei reietti, quello dei lebbrosi e quello delle madri con i figli salvati, scavati nel tufo uno di fronte all’altro, separati da una striscia di polvere asciugata da un sole implacabile, che vivevano di miseria e di grazia. Con solo qualche cespuglio e le capre a separarli dalla morte per inedia, le due comunità trionfavano di una certa gentilezza. Era come se, preso dall’intento di dannare comunità più floride e apparentemente di maggior valore, lì suo padre si fosse distratto.

«Ce ne staremo qui lontani da tutti, vivremo di pesca» spiegò Dartred tutto giulivo davanti a quella prospettiva di quieta quotidianità. Haxen annuì, Hania anche.

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Tutte le mattine di sole lei e Dartred partivano insieme. Il primo scopo, ovviamente, era catturare qualche pesce da vendere al mercato. Hania ordinava alle loro piccole menti di farsi catturare e loro obbedivano. Ne prendevano il numero giusto, non troppo pochi da crepare di fame e non troppi da destare il sospetto che i pesci non fossero stati catturati per banale fortuna, ma avessero ricevuto l’ordine di restare impigliati nelle reti o appesi agli ami. Il secondo scopo era tenere Hania fuori dagli sguardi, fuori dall’attenzione, che il minor numero di persone la notasse chiedendosi perché non dicesse mai nulla e fosse sempre così educatamente silenziosa: una qualità in comune con la bambina muta che tutti cercavano nelle Sette Cime.

Quelle giornate con Dartred furono come sospese nell’azzurro e nella quiete. Hania non detestava più l’acqua, ma certo non l’amava, esattamente come era per gli abbracci.

L’uomo pretese che imparasse a nuotare, e che si esercitasse nell’arte della scherma e anche dell’arco, in quanto era insicuro vivere sulle barche per chi ignorasse la teoria del nuoto, come era disagevole stare nel mondo per chi ignorasse la competenza di usare un’arma, o meglio, due. Era ragionevole.

Hania accettò di farsi fare un’imbracatura con una corda e per calarsi in acqua. Fu per lei un atto eroico: era già stata immersa nell’acqua salata, i lunghi mesi in attesa di nascere, ne aveva un ricordo pieno di nausea. Anche quello doveva essere stato un dono di suo padre, perché inaspettatamente l’acqua fredda del mare l’accolse come un abbraccio. La riempì di una sensazione a lei quasi ignota, che provava solo quando aveva il flauto in mano, di sentirsi a suo agio. Si rese conto di saper nuotare. Si liberò dell’imbracatura e piroettò felice guizzando nei riflessi del sole. Nelle sue conoscenze infinite doveva essere rimasto intrappolato il movimento simmetrico ed ovvio che fa la rana per avanzare.

La barca era dotata di un paio di lenze, ma era con l’arco che Hania catturava le prede. Per meglio addestrarsi, smise di controllarne la mente, e questo le sembrò un gesto da cavaliere. Uccidere era sempre un piacere: quando la freccia penetrava nella carne morbida dell’animale, Hania sentiva tutto il suo potere nell’avere la morte del pesce nelle sue mani, ma un po’ alla volta imparò a colpire sempre con un unico colpo nella branchia, così che la bestiola morisse in fretta. Anche quello un po’ alla volta divenne una specie di forma di lealtà. Il Cavaliere di Luce uccideva, ma non ci si divertiva, per lo meno non troppo. La sua mira divenne infallibile, e anche la forza. Catturava pesci sempre più lontani.

Dartred era più di quello che sembrava, era un pezzo di oro grezzo nascosto nella roccia.

Suo padre l’Oscuro, infatti, non lo aveva visto all’inizio. Fino a quando lui non aveva ucciso la tigre che dell’oscurità era l’emissario, all’oscurità era rimasto ignoto. Il nano invece lo aveva scelto come lo scudiero cui insegnare la sua arte, come il guerriero da armare con due armi, ascia e spada, perché fosse certo che potesse battersi unendo alla sua forza il potere verde del cuore del mondo.

Da cosa si riconosceva un guerriero, uno vero? Come aveva fatto il nano a capire che, tra tutti, era il figlio del fabbro la pietra di inciampo su cui l’Oscurità avrebbe messo il piede in fallo per rotolare poi nel fango? A lei gli uomini sembravano tutti ottusamente uguali, qualcuno più alto, certo, qualcuno meno, qualcuno più tondo e qualcuno con la barba, ma nelle sue sterminate conoscenze, in mezzo ai nomi delle stelle e a quello più immediatamente utile dei pesci, come diavolo si distinguesse un uomo d’onore da un cialtrone era una cognizione che mancava.

Poi la giornata finiva, e dopo averla lasciata a casa Dartred andava al mercato, sempre solo, un pescatore qualsiasi, probabilmente geloso come un cinghiale, che teneva sua moglie sempre relegata in casa, a badare a un marmocchio un po’ scemo che preferivano non mostrare a nessuno. Geno aveva affari ben più importanti che occuparsi della loro insignificanza, qualità questa, l’insignificanza, che Dartred coltivò sempre con la stessa infinita attenzione di un contadino che cura un frutteto, facendo cadere ogni domanda indiscreta, ogni curiosità, in un granitico, uniforme, grigiastro muro di noia.

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Venne l’estate e il cielo si riempì di tempeste. Poi arrivò settembre e il fratellino nacque, in una notte serena e piena di stelle. Hania sentì l’odore del sangue nell’aria umida e poi il pianto del fratellino, e poi la voce di Haxen che lo consolava.

Ricordava la sua nascita, l’odio che la riempiva, pari solo al disprezzo, per tutto e per tutti, enorme come la paura. Ricordava il viso devastato di sua madre, il tranquillo disperato coraggio con cui aveva affrontato il mondo e le aveva salvato la vita.

Ora tutto era tenerezza, tutto era dolcezza.

Sentì il desiderio tiepido del fratellino che lo spingeva verso la madre.

Si alzò e si sporse cautamente nella stanza. Alla luce della lampada li vide, mamma e piccolino, sotto le coltri. Una tranquilla levatrice stava buttando i pochi teli sporchi di sangue in una tinozza, e anche quel gesto era tenerezza e tepore, poi spalancò gli scuri della piccola finestra e la stanza si riempì di stelle e di brezza fresca, e della testa di Dartred, mandato durante il parto fuori dalla minuscola palafitta a sedersi sul porticato. Hania sentì il suo riso. Guardò la testolina del bimbo che ora spuntava tra le braccia della madre e sentì quasi, tanto era potente, la sua felicità di essere dove era.

Il parto era stato facile, tutto era andato bene, la levatrice era piuttosto ciarliera e in cambio della moneta che i due le avevano offerto, oltre alla sua attenzione alla madre e al piccolino, fornì anche le ultime notizie sbocciate nella contrada.

Suo figlio maggiore era mercante, portava il legno di quercia nera dal Regno delle Sette Cime. Pareva che lassù tutti fossero impazziti, proprio loro che erano sempre sembrati i più tranquilli, quelli del posto dove si stava meglio, e invece adesso erano proprio impazziti.

Si diceva che la principessa avesse fatto un figlio con il Signore Oscuro. Chissà come le era venuto in mente, a lei sembrava un’idea piuttosto idiota quella di mettersi a fare un figlio con il Signore delle Tenebre. Tra l’altro era evidente che a una donna perbene una cosa del genere doveva fare pure un bel po’ di paura. Queste principesse dovevano essere delle gatte morte, però sveglie parecchio sotto le sottane. Comunque, andata come era andata, tre anni fa, quando c’era stata quella notte infernale e le meteore erano finite in mare facendolo sollevare in ondate maledette, sua altezza delle Sette Cime si era fatta mettere incinta e, nove mesi dopo, aveva scodellato una bambina, e adesso tutti stavano dando la caccia a sua altezza e alla sua pargola.

«Signora, cosa vi è successo? Siete pallida come un osso spolpato» chiese improvvisamente la levatrice ad Haxen.

«Sono impressionata dalla vostra storia» riuscì a balbettare Haxen. «Sono sicura che è falsa. Sapete, si raccontano tante storie! Le storie si formano da sole negli angoli bui delle cucine, quando il vento soffia e più fanno paura, più sono strampalate, più sono raccontate!»

«Io mi credo che è tutto vero! Certo, è terribile, soprattutto per voi, che avete appena avuto un bambino! Ma non temete. Nel Regno delle Sette Cime prima o poi la trovavano, questa principessa idiota e la sua figlia strega. Una piccola strega muta non è difficile da identificare. In più questa deve avere una specie di marchio sul polso, una macchia rossastra con la forma delle meteore che sono comparse nel cielo tre anni fa. Dovrebbe avere due anni, ma ne dimostra di più e pare che sia bella. Tranquilla signora, vedrete, troveranno la piccola strega e la sua maledetta madre e le impiccheranno. Le stanno cercando tutti. Ci sono le due forche pronte in tutte le città e i villaggi, una grande e una più piccolina. Sarà una bella scena. Se non è oggi sarà domani, se non domani dopodomani. Tra l’altro, voi avete anche una figlia maggiore, vero?»

«Un figlio. Sta dormendo» si precipitarono a correggere sia Haxen che Dartred quasi all’unisono, mentre Hania scivolava nel buio, schiacciandosi contro la parete.

Era dall’incontro con i briganti che non provava più la paura. Quella era stata furiosa e feroce, consolata dal sangue sparso per la morte dei mancati aggressori, questa era gelida e totale, scendeva sin dentro le ossa. Non voleva morire, sapeva cosa era la morte.

Il fratellino pianse e poi si acquietò.

All’alba la levatrice finalmente se ne andò. Hania scivolò fuori dal buio e si spinse nella stanza. Dartred e Haxen sottovoce si stavano chiedendo quanto fosse verosimile che la levatrice si fosse accorta che Hania era muta, o se era possibile che avesse pensato fosse solo molto timida.

Quando lei entrò nella stanza i due alzarono gli occhi su di lei.

Hania guardò la fiamma della candela. La luce dell’alba ormai entrava dalle finestre, e così dette l’ordine nella sua mente alla piccola fiamma di spegnersi, ma non successe nulla. La paura annullava i suoi poteri. Suo padre era più forte che mai, e lei era una bambina muta che portava la sua condanna a morte stampata sul polso. La paura divenne un macigno, un nodo gelido nel ventre, talmente insopportabile che, per un istante, pensò che almeno dopo la sua morte non avrebbe più avuto paura.

«Staremo insieme, sempre. Noi due, tu, il piccolo. Si chiama Rois, ti piace? Avremmo voluto chiamarlo Ari, come tuo nonno, ma ci chiederebbero perché e meno attiriamo l’attenzione meglio è. Ha un nome che comincia per R come omaggio al nano e ci sono due delle lettere del nome di suo nonno. Staremo insieme, sempre, combatteremo insieme, ci nasconderemo insieme. E insieme vinceremo» disse Dartred.

Hania annuì.

Da quello si riconosceva un guerriero: la capacità di non arrendersi nemmeno davanti al disastro.

Erano quattro sbandati. Si poteva dire che gli avvoltoi volavano sulla loro testa. Hania non avrebbe scommesso troppi soldi sulla loro capacità di restare in vita.

Haxen, Dartred e il piccolo se la sarebbero cavata molto meglio da soli.

In effetti da soli non rischiavano nulla.

Quel pensiero folgorò Hania. Stavano di nuovo rischiando la vita per lei.

Erano brave persone, avevano senso del dovere. Faceva parte della cavalleria. Si difendono sempre i bambini e lei era una bambina. Probabilmente non era tutto affetto, ma senso del dovere. Comunque, qualsiasi cosa fosse, era meglio di niente.

Hania si girò verso la candela e le ordinò di spegnersi.

La piccola fiamma obbedì.