Hania poteva sentire suo fratello.
Della felicità o della disperazione delle persone non le era mai importato nulla: non sempre riusciva a capirle e nel caso erano solo informazioni.
Se una persona trovava un sacco d’oro era contenta, se cadeva nel fosso era scontenta. Era logico, ci arrivava. Per il fratellino era diverso. Hania percepiva nel suo pianto se era fame, freddo o solitudine, percepiva la sua felicità profonda quando era nelle braccia della mamma.
Fu grazie a lui che si rese conto di quel piacere. Lei non lo aveva mai provato: con squisita scortesia suo padre aveva riempito di odio il suo piccolo corpo di neonata: ogni cosa, dal contatto con la madre al suo latte, l’aveva riempita di repulsione. Era vissuta sull’orlo della morte per inedia, con il cuore pieno di disprezzo per sua madre, dell’ottusa sicurezza che tutta la nausea che la squassava altro non fosse che una manifestazione della di lei inimicizia.
Il fratellino invece era una bollicina di felicità pura. E anche Haxen era felice nel cullarlo, nel toccarlo, nel sentirlo contro di lei. Si cercavano quando erano distanti, si ritrovavano con una contentezza che sembrava scintillare come un raggio di sole sull’acqua. Il fratellino era il raggio di sole, Haxen era l’acqua che lo moltiplicava. Hania era nata nell’ombra, fatta di ombra, accolta da una madre disperata e dolente.
L’idea di diventare madre per lei era eccessiva, tutto il contatto necessario per concepire un figlio, per portarlo, era troppo, era impensabile.
Ma le piaceva sentire la felicità del fratellino.
Erano giornate di luce, di pesca e di scuola d’armi con Dartred, passate nel silenzio fragoroso del mare, fatto di onde e di vento, a tratti interrotto dalla voce di lui.
Alla sera, l’uomo e la bambina riguadagnavano la minuscola casa. Dartred la lasciava lì, mentre lui si avviava al mercato. Hania rientrava, riponeva le armi e ritrovava la madre e il fratellino. Rois era sempre contento di rivederla, sorrideva e agitava le manine.
Era un tipo di amore, una forma di affetto che non aveva nulla a che fare con il senso del dovere, come lo era invece il prendersi cura di sua madre e di Dartred. Il fratellino era semplicemente contento di vederla, si scompisciava di gioia quando lei suonava il flauto. Per rispondere al suo sorriso, Hania sorrideva. Imparò a fare un giochetto scemo: nascondeva la faccia nelle mani, così che per qualche istante il sorriso scompariva sul visetto del fratellino e le piccole sopracciglia preoccupate si avvicinavano. Quando lei levava le mani, il bimbo scoppiava a ridere felice e il suo riso risuonava nella piccola casa.
Non era la prima volta che Hania giocava. La definizione della parola “gioco” era: un’attività che non aveva scopo alcuno, salvo il divertimento. Aveva giocato, molto piccola, con rane e topi. Si era divertita a farli morire di agonie lunghe prima di mangiarli. Sulla loro dolorosa impotenza nasceva il senso del suo potere.
Anche i gatti lo facevano con i topolini, non doveva essere un’abitudine così inaudita il godere del dolore altrui. Anche lì, a Geno, per un infinito numero di mancanze, si veniva consegnati al carnefice, che in quelle contrade rispondeva all’ampolloso e inquietante nome di “Mastro degli intestini rotti”, appellativo scelto, evidentemente, perché chiunque finisse nelle sue mani si risparmiasse l’inutilità di chiedere una pietà che non sarebbe arrivata, essendosi dispersa nei canali di scolo che portavano via dai moli le viscere dei pesci, le bucce dei meloni, le foglie di cavoli ingiallite.
Nel far ridere il fratellino, di nuovo Hania provava il suo potere, un potere più paziente e complesso. Fare male era molto più facile, quindi far ridere era un potere più grande, come un potere era la musica.
Ad Hania sarebbe piaciuto avere una bambola. Le sarebbe piaciuto moltissimo. Era una cosa che la rendeva furiosa, ogni mocciosa aveva una bambola, meno lei. Così come odiava essere vestita da maschio, odiava che i suoi capelli fossero stati tagliati e che ogni volta che cercavano di allungarsi venissero tagliati di nuovo.
Voleva una bambola e non lo avrebbe mai detto, nemmeno se avesse avuto la parola, essendo il chiedere, il segnalare un bisogno, per lei un fastidio insopportabile.
In più, ora, era camuffata da maschio e i maschi d’abitudine giocavano con giochi idioti: minuscoli carri, barchette, cavallini.
La la nascita del fratellino aveva come compensato quel desiderio: il fratellino era la sua bambola. A volte Haxen raccontava piccole storie buffe, che, anche se non parlavano di guerra e cavalleria, ascoltava anche lei.
Una storia era su una piccola talpa in un campo di carote, che organizzava una resistenza sotterranea all’attacco delle faine, così che poi riuscivano a combattere anche i lupi.
Erano storie carine, di quelle che normalmente tengono buoni i bambini normali, quelli che non siano figli di un Signore Oscuro, obbligati dalla loro oscurità a detestare qualsiasi storia dove ci fossero gnometti, fatine, bacchette magiche, ma che non dispiacevano nemmeno a lei, in quanto descrivevano una sia pur buffa battaglia.
Hania capì anche che Haxen stava cercando di far conoscere al figlio qualcuna delle numerosissime cose di cui, vivendo confinato in una palafitta sul mare, non avrebbe saputo nulla. I lupi sulle palafitte non c’erano, le talpe nemmeno. Le carote sì, i giorni di festa, venivano a mischiarsi ai cavoli nella zuppa. Tanto valeva che Rois sapesse che i campi di carote erano un’ordinata fila di ciuffetti verdi perché la parte arancione stava sotto, dalla parte delle talpe.
Il tetto della palafitta si infestò di folletti: in qualche maniera la presenza di un bimbo piccolo li attirava come il miele i mosconi.
I loro dispetti erano esasperanti. Bastava che il latte restasse fuori una sola notte per inacidire, ogni cosa che non veniva messa puntigliosamente in ordine scompariva. A volte il fratellino nel cuore della notte scoppiava in un pianto che aveva un suono particolare di dolore e disperazione.
“Lasciate stare mio fratello” sibilava Hania nella sua mente e in risposta i folletti piangevano e le loro voci risuonavano cacofoniche e confuse, un rumore di fondo pieno di una sottile e indecifrabile angoscia.
Se lei suonava il flauto o Haxen cantava una ninna nanna, allora finalmente tacevano, e nelle ore successive sospendevano i dispetti. Il flauto prima faceva ridere il bimbetto, poi lo lasciava scivolare nel sonno, fino a quando i folletti non lo facevano piangere.
La loro palafitta quindi cominciò a risuonare sempre di più di melodie e sempre più folletti vennero a viverci.
Finalmente Hania capì il motivo delle mareggiate che periodicamente si abbattevano sulla città. Erano i folletti che facevano scricchiolare il legno vecchio delle palafitte e dei moli, che facevano allontanare i banchi di acciughe, erano loro che alzavano le onde.
I folletti erano in balia del loro sentire, la collera poteva travolgerli, e quando li travolgeva si moltiplicava, perché, rimbalzando dall’uno all’altro, diventava enorme e alzava le onde che distruggevano la città.
I folletti poi annegavano nel dolore della distruzione che essi stessi avevano causato e quello diventava la pioggerella infinita che a volte flagellava la città per giorni e giorni e poi ancora giorni e di nuovo giorni. Certo, c’era anche la brezza di mare che urtava contro la montagna dell’Aria Grigia a giustificare la meteorologia fradicia di Geno e dei suoi dintorni, ma non era l’unico motivo, c’erano anche loro, le loro lacrime.
I folletti amavano il flauto. Geno era piena di musici e quindi di musica, ma era il flauto di Hania che li affascinava. Non solo, avevano gusti precisi, e per starsene buoni, in silenzio e lasciar stare il fratellino, esigevano una musica che a loro piacesse. Hania dovette abbandonare i ritmi precisi che lei amava, quelli che avrebbero potuto far ballare un orso se ci fosse stato, per melodie lente e strane, a volte senza un motivo riconoscibile. Più il motivo era malinconico, più i folletti si rasserenavano, e lasciavano in pace il fratellino e la città. C’era una tristezza totale in quelle nenie che le scivolalava dentro e restava incrostata. Nella città color azzurro e nero Hania scivolava sempre di più verso il nero. Poi, per fortuna, arrivavano tre giorni di sole e lei si allontanava dai folletti, e restava insieme a Dartred, che era un guerriero e un cavaliere, in un mondo di luce e ombra precise e nette, a imparare l’uso delle armi e a respirare il vento teso del mare. Lì i folletti non la seguivano, restavano confinati nel buio umido della città. Poi però la loro tristezza scatenava la pioggia e Hania tornava da loro e al loro continuo piagnucolare, che si attenuava solo se lei suonava. Quando non ne poteva più di quelle nenie strazianti, si accucciava per terra e si metteva le mani sulle orecchie per non sentire le piccole voci confuse, per stare in pace.
La loro casa era la più esposta alle mareggiate. I gabbiani si alzavano in volo, i pellicani sparivano chissà dove. Le ondate entravano dalle alte finestre, riempiendo di acqua il pavimento. A volte qualche acciuga restava intrappolata a nuotare tra le gambe del tavolo. A volte i folletti giocavano sull’acqua, mentre le onde che si rovesciavano nella piccola casa li sfioravano facendo loro il solletico. Il loro cicaleccio, pur non perdendo mai la sfumatura del lamento, si ammantava di qualche scintilla se non di gioia per lo meno di divertimento.
Dartred e Haxen preparavano i fagotti, pronti ad andarsene se il pericolo fosse aumentato, con le orecchie tese agli scricchiolii della piccola casa, ma non si univano ai molti che per precauzione si spostavano sulla terra ferma, perché avrebbe significato esporre madre e figlia agli sguardi e alla curiosità. Sarebbe bastato che la manica sinistra di Hania risalisse di mezza spanna perché il disastro fosse assoluto. Inoltre, scappando, avrebbero dovuto portare con sé i propri averi: un’ascia e due spade di fattura nobile, una delle quali con segni reali, beni insoliti per una famiglia di pescatori.
Mareggiata dopo mareggiata, il mare si calmava, l’inverno passava, tornava la primavera. C’era come un patto tra Hania e i folletti. Grandi onde, grande paura e niente di più.