Gari risalì fino alla città di Kaam che, già dall’esterno delle sue ciclopiche mura di mattoni rossi, gli sembrò caotica, incomprensibile, ma anche affascinante, incredibilmente bella. Aveva passato tutta la sua vita in mezzo a sterpaglie, deserti e brulle colline punteggiate di pecore.
Gli era capitato di vedere persone in una quantità che gli era sembrata grande, ma erano tutti maschi, tutti vestiti con la stessa corazza, tutti fermi in piedi o, nel caso marciassero, tutti nella stessa direzione.
Le strade invece mischiavano maschi e femmine, vecchi e infanti, ognuno su una rotta sua, tutti che si urtavano, qualcuno che si salutava. Poi c’erano quelli fermi. I mendicanti accucciati negli angoli, i venditori seduti di fianco alle loro merci, quelli che radunati in capannelli chiacchieravano amabilmente.
Nata sulle soglie del deserto, Kaam era piena d’acqua. Fontane si aprivano in piccoli spazi all’ombra di alberi di arancio selvatico e limone. Il rumore dell’acqua accompagnava i passi degli uomini, un rumore fresco e forte, particolarmente dolce in un luogo arido. Strane strutture fatte di archi sovrapposti, piene di rampicanti fioriti, di campanule azzurre e di edera, davano ombra alla città che si inerpicava su una collina ripida, le mura in basso, il centro in alto, con viuzze strette e piene di ombra, spesso spezzate da gradini.
Vagando nella città caotica arrivò a un mercato. L’odore era fortissimo e, nello stesso tempo, impossibile da distinguere: cavallo, pecora, cavolo, uomo, di nuovo cavolo. Zuppa di cavolo per la precisione. Una giovane donna con un pentolone e una pila di scodelle la vendeva ai passanti: per un soldo si aveva diritto a due mestoli e a un pezzo di pane.
Il profumo della zuppa era dappertutto, insieme a quello del pane. Gari identificò anche le cipolle. Le vendeva abbrustolite su una piastra un vecchietto con un naso adunco come il becco di un falco. Alla fine del mercato, al riparo di una tettoia fatta di giunchi, un garzone faceva girare un’anatra su uno spiedo, al centro di una cerchia di gatti speranzosi.
Gari si riempì di quell’odore che gli sembrò riassumere tutta la beatitudine del mondo. Lungo la strada non c’era stato nulla da cacciare, salvo qualche smunta lucertola e un paio di topini tutti ossa. Cercò di fare il conto di quanto tempo era passato dall’ultimo pezzo di pane che era riuscito a comprare sulla via prima che i tre soldi della piccola signora grigia finissero. Era più di un giorno.
Esasperata dai profumi, la fame esplose nella sua testa. Il ragazzino si chiese se c’era un qualche lavoro che lui potesse fare per portare nello stomaco qualche cosa, ma non gli venne in mente nulla. Si chiese quanto fosse disdicevole per un guerriero chiedere l’elemosina, e si rispose da solo che, essendo il furto da escludersi, le alternative non erano molte.
Si mise al centro del mercato, il punto più trafficato, con l’idea di chiedere a ognuno che passava qualche cosa anche piccolissima per consolare la sua fame, ma la voce gli morì in gola, uccisa dalla timidezza, e tutto quello che riuscì a fare fu un gesto della mano, appena abbozzato.
Il sole si alzò. Era ormai a picco sulla sua testa, quando una grossa figura scura si materializzò di fianco a lui. Era un grosso uomo di età indefinibile, con un vecchio mantello di cuoio sulle spalle e sulla testa, che nascondeva il suo viso nell’ombra della barba.
«Scusa, figliolo, tanto per saperlo, ma stai chiedendo la carità?» chiese con cortesia.
Gari annuì.
«E secondo te si fa così? Con un corpetto di seta addosso, un gesto appena accennato, proprio per non compromettersi troppo, non riconoscere apertamente che si sta chiedendo, e soprattutto per non imbarazzare, oserei dire, quelli che passano con una richiesta più diretta, più franca? Secondo te, nella tua idea, la gente è contenta di staccarsi da una cosa sua, mettiamo una deliziosa moneta da un soldo, per darla a un tizio mai visto prima, per il quale non prova sentimento alcuno di affetto e nemmeno di interesse?»
«Signore?» chiese Gari che si era perso alla prima frase. Però l’uomo gli piaceva, gli aveva dal primo istante ispirato una strana potente simpatia.
«Secondo te a questi di te gliene frega qualcosa?» tradusse gentilmente l’energumeno.
«Ecco, signore, io e questi uomini e queste donne siamo tutti persone e quindi credo che quando una persona…» cominciò a dire Gari cercando di tradurre in parole il suo concetto di gentilezza umana.
«Hai raccattato molto da stamattina?» chiese ancora l’altro.
«Nulla, signore» riconobbe Gari.
«Allora è dimostrato. Di te non gliene frega niente. Vedi, figliolo, chiedere è un’arte, è una scienza, perché staccarsi da qualcosa che è nostro, un soldo, un pezzo di pane, è dolore. Quindi tu devi offrire un piacere più grande. Quando tu chiedi, fai dono alla gente della generosità che mai avrebbe pensato di avere».
L’uomo si staccò da Gari e si avvicinò alla donna che vendeva la minestra, trascinando una gamba i maniera penosa. Davanti a lei crollò. Gli tremavano le mani.
«Nobile dama cui il cielo ha dato il dono dello splendore negli occhi e della bontà, permettete a questo miserabile di godere per un istante del vostro sorriso, così che questa giornata si riempia di freschezza come una rosa appena sbocciata. Null’altro voglio se non il vostro sorriso» disse l’uomo con la voce stentata di chi fatica a parlare.
La donna lo fissò attonita, attonita ma contenta, poi gli mise in mano un bel pezzo di pane.
«Grazie per questo meraviglioso cibo, grazie perché riempirà la mia fame, grazie perché le vostre mani lo hanno sfiorato e questo me lo renderà caro, sarà un balsamo per la mia povera vita che ora ha avuto luce» concluse l’uomo trascinandosi via.
Passando vicino a Gari gli fece segno si seguirlo; insieme raggiunsero l’unico angolo buio del mercato, sotto una vecchia tettoia, e di lì, nascosta sotto un mucchio di vecchie ceste, una scala a chiocciola che scendeva verso il fresco e verso il buio. Non appena furono al riparo dagli sguardi, l’uomo smise di tremare, si rialzò in tutta la sua ciclopica statura e consegnò a Gari il pezzo di pane.
«Sarebbe il terzo da stamattina, poi è troppo. Ma la cosa importante, vedi, è che ora quella donna è contenta e si porterà la sua contentezza fino a sera. Hai capito? Chiedere l’elemosina è regalare gioia».
Gari annuì. Lui quella roba lì, chiedere, lodare, inventarsi che di una donna ti interessava il sorriso anche quando non era vero, lui non sarebbe stato mai capace di farla e non la voleva fare. Però il pane era buono, morbido, profumato, ancora tiepido. Dentro c’erano anche pezzetti di noce e uvetta secca, come piccoli doni in una giornata di gentilezza.
Come Gari scoprì, sotto la città carovaniera di Kaam fatta di luce e di zampilli, ce n’era una seconda nascosta, fatta di cunicoli e tane, prese di luce che interrompevano il buio e gli davano aria.
Era abitata da topi, straccioni, disertori e contrabbandieri. E soprattutto mendicanti. L’energumeno si chiamava Anen e, come gli spiegò, la Kaam del sottosuolo, scavata dalla roccia e completata dagli uomini, era immensa e si arrotolava su se stessa come una spirale, come il guscio di una chiocciola.
Era servita a contenere gli acquedotti fino a quando erano stati sotterranei, prima che fossero sostituiti da quelli che correvano negli archi, e ora ospitava tutti quelli che ne avevano abbastanza della luce accecante e preferivano scivolare nella penombra tiepida del sottosuolo.
Chiedere l’elemosina era un vero e proprio affare gestito dalla Compagnia del Buon Cuore, costituita da Anen e altri due enormi ceffi, tali Enen e Inen, e da una donna che si chiamava Ara, che sembrava essere la moglie di Anen.
«Avete tutti nomi simili» osservò Gari educatamente.
«Sono tutti falsi» rispose serenamente Anen. «Ce l’hanno insegnato i nani. Meno il tuo nome gira, meno può essere maledetto. Da quando le meteore di sangue e di fuoco hanno traversato il cielo, hanno detto di fare attenzione, perché il regno del male incominciava. Ma lo sappiamo solo noi qui sotto. Quelli di sopra continuano a campare sempre uguale, convinti che le fesserie che i banditori leggono agli angoli delle strade siano l’anima della verità e il cuore del decoro».
Nel sotterraneo c’erano anche i nani. Ce n’erano una decina, tantissimi quindi in un mondo che era sempre più povero della loro rara presenza. Uno di loro aveva anche una piccola fucina, e in mezzo al fuoco e a miriadi di scintille lavorava il ferro.
Attorno ad Anen, Enen, Inen e Ara si raccolsero alla sera uno stuolo di bambini mendicanti. Gari ne contò diciassette, tutti maschi, qualcuno un po’ più grande di lui, qualcuno un po’ più piccolo, qualcuno più o meno uguale. Si chiamavano con i numeri da uno a diciassette e lui fu il diciotto.
I diciassette ragazzini avevano raccolto monetine, pane, qualche mela, un cavolo, un mazzo di carote, tre cipolle, una testa di aglio, una rapa, le frattaglie di un coniglio, la cresta e le zampe di un gallo, mezzo cavolfiore.
Ara aveva messo una grossa pentola su un fuoco di sterpi e trasformato il necessario in una profumatissima zuppa e, mentre la cena cuoceva, Enen e Inen si misero a raccontare storie: le avventure di un coniglio con otto fratelli che faceva dispetti alle volpi. I ragazzini sorridevano alle battute, i bambini più piccoli ridevano felici. Anche Gari si ritrovò a farsi cullare da quelle voci, dall’immagine dei conigli che nascondevano le orme alle volpi.
Mentre mangiavano, Anen spiegò a Gari come fosse necessaria un’organizzazione. Occorreva qualcuno di grosso per proteggere i bambini, per insegnare il nobile mestiere del donatore di gioia, cioè del mendicante, e distribuirli con una certa logica, evitando che ce ne fossero troppi in un punto e nessuno in un altro.
«Qui sono al sicuro. Qui tu sarai al sicuro. Domani ti spiegherò qualche cosa su come si chiede».
«Non lo farò» disse Gari. Suo padre non avrebbe voluto. Lui non voleva. Erano brave persone quei quattro, con loro i bambini erano al sicuro, l’idea del distributore di gioia era divertente, ma lui era Gari figlio di Ardo, comandante della Brigata del Sud, morto impiccato con ignominia come punizione per la sua lealtà. Lui non chiedeva l’elemosina.
«Posso cacciare» propose Gari. «Prendo un passero a cinquanta passi».
«Non si tira ai passeri, mai» ribatté dolcemente Anen. «Piuttosto chiedi l’elemosina. Ma se sei così bravo con l’arco, potremmo organizzare qualche piccolo spettacolo a pagamento. Veramente sei così bravo? Benissimo. Adesso dormi, è stata una giornata lunga».
Gari si ritrovò sdraiato su un mucchio di paglia pulita. Kaam era una città calda, ma il fresco della notte si fondeva con quello dei sotterranei, e un piccolo fuoco in un braciere brillava vicino ad una delle prese d’aria, creando ombre magnifiche tra le grandi arcate delle volte. Aveva la pancia piena di minestra e le voci di Enen e Inen che di nuovo lo cullavano con il loro racconto dei conigli.
«Sono al sicuro, padre. Che la terra vi sia lieve, per questa notte» mormorò piano. Sfiorò con le dita la pietra verde nascosta nella sua giubba e si addormentò.
I giorni successivi il ragazzo trasformò la sua abilità di arciere in un numero da saltimbanco. Anen si mise con lui all’angolo del mercato a fargli da banditore.
«Tirate in aria una monetina, nobili signori, se il mio ragazzo la copisce con una freccia, il soldo resterà suo. Il mio ragazzo è muto, ma un grande arciere. Siate compassionevoli con questo figlio della vita» gridava.
C’era stata una lunga discussione: Gari non voleva quella menzogna, l’essere muto, e non voleva la compassione, ma Anen fu irremovibile. Un po’ di compassione bisognava farla, così la gente sarebbe stata meno scontenta di averci rimesso un soldo, così era la vita. Se si chiamavano Compagnia del Buon Cuore, non era per gioco, ma perché spingendo la gente a una piccola generosità, la rendevano migliore.
Il numero divertiva molto. Lui diventava sempre più bravo con l’arco, imparò anche a fare il funambolo, su una grossa corda tirata sopra al mercato. Se colpiva una monetina mentre stava in equilibrio sulla corda, gliene toccavano due.
Spesso uscivano dalla città per andare a cacciare qualche coniglio o qualche fagiano, che nel sotterraneo era una festa. I sotterranei erano fatti di cunicoli intricati, ma la forma a spirale era interrotta da un asse principale, il decumano, che a est si interrompeva contro le mura della città, mentre a ovest proseguiva grazie a scavi molto rustici fino all’esterno.
L’uscita era stretta e nascosta in un gruppo di rocce, sotto l’ombra di cespugli di acacia, e la sua esistenza era comunque una forma di gravissima imprudenza, di sciatteria militare, perché era un punto da cui si poteva penetrare e uscire dalla città senza essere visti dai guardiani delle mura.
«La città potrebbe cadere per questo buco» protestò Gari. Anen rispose con un gesto. Una volta che li aveva indicati, Gari si accorse di innumerevoli uomini, e un paio di nani, che, nascosti tra le rocce, controllavano i dintorni e l’accesso.
«Noi abbiamo fatto gli scavi e noi li distruggeremo se ci sarà un assedio. Nessuno entrerà a Kaam di qui» garantì Anen.
Gari insegnò anche agli altri bambini l’uso dell’arco e della spada. Nei sotterranei di Kaam si formò una vera scuola. Il nano che faceva il fabbro fabbricò qualche rozza spada fondendo in un calderone i vecchi coltelli da cucina comprati in giro. In cambio arrivò nelle sue tasche un po’ del fiume di monetine che ormai aveva inondato la Compagnia del Buon Cuore. Insegnò anche l’arte di leggere e scrivere, che Gari conosceva già, ma di cui gli altri bambini erano digiuni. Gari con grande attenzione perché nessun altro vedesse, osò mostrargli la pietra verde che la piccola signora dei veli grigi e dei campanelli gli aveva consegnato. L’altro la guardò estasiato, la sfiorò con le dita, poi scosse il capo.
«Per questa ci vuole una fucina vera, ragazzo, una fucina degna di questo nome e un’incudine altrettanto degna. Non è cosa per questo sotterraneo fabbricare una spada con l’anima verde. L’acciaio deve essere temprato e poi temprato e poi temprato. Dicono che nella capitale c’era un fabbro che poteva fare una lama con l’anima verde, ma non so nemmeno se c’è ancora».
Il numero di Gari continuò, alternandosi anche ad altri numeri di duelli e gare con l’arco, su cui gli spettatori potevano fare puntate, e a cui intervennero anche altri bambini. Fu una fortuna, perché Kaam, la ricchissima città carovaniera, misteriosamente cominciò a diventare sempre più povera.
Le voci raccolte sul mercato dicevano che nelle altre parti del regno era peggio. I mucchi di mele divennero sempre più piccoli, la minestra venduta a scodelle sempre più acquosa e povera. La Compagnia del Buon Cuore sarebbe finita a un cattivo partito, perché i cuori si stavano inaridendo, ma le scommesse piacevano sempre di più. La gente partecipava per il piacere di vincere, ma ormai era stato dichiarato che Gari era muto, quindi si continuò su quella finzione.
Erano passati due anni dal suo arrivo a Kaam, quando successe un fatto nuovo, e la sua vita, che ormi sembrava avviata su stabili basi, cadde di nuovo.
Mentre Gari era sulla corda a fare il suo numero, un banditore si presentò sulla piazza del mercato, evento raro e quindi sempre circondato da grande curiosità e grande interesse. Il ragazzo perse immediatamente il suo pubblico, quindi scivolò giù dalla corda e si avvicinò anche lui. Anen lo raggiunse.
Arrivarono per ultimi quindi rimasero sul bordo esterno della piccola folla.
«Da oggi tutte le cicogne sono bandite dal Regno delle Sette Cime, se qualcuno ne vedesse una, l’avvistasse, ha l’ordine di abbatterla con ogni mezzo. Sappiamo che sono bestie malefiche. A chiunque porterà una cicogna, ovviamente defunta, al palazzo del Governatore, sarà elargita una moneta d’argento intera, e, udite, udite, in segno di munificenza sarà lasciato il corpo della cicogna istessa, perché se lo possa tenere per desinare, a spezzatino con i chiodi di garofano o anche in altra maniera secondo il gusto suo. Il motivo di questa regola è che la nostra Reggente, nella sua saggezza, ha smascherato l’oscuro disegno della principessa Haxen, che anni fa partorì la creatura muta dell’Innominabile, e questo oscuro disegno passa attraverso lo sguardo delle cicogne».
Gari restò immobile, basito, con il gelo e il terrore che cominciavano a riempirgli il cuore. Era evidente che tutto quello aveva a che fare con la cicogna che lui aveva visto volare nel cielo, bassa e appesantita da un qualcosa che stava portando. La cicogna era una creatura benefica, lui lo aveva sentito, come ora sentì che in quello che stava ascoltando c’era qualcosa di oscuro e maligno.
«Ma il ragazzo con l’arco non è muto?» cominciò a dire qualcuno tra la folla.
«Ma è troppo grande. E poi non era una bambina?»
«Se è una creatura dell’Oscuro può sembrare maschio o femmina o essere più grande».
«C’è qualcosa di assurdo su come tira l’arco. È troppo bravo. È evidente che non è umano».
Gari e Anen, fortunatamente all’esterno della folla, riuscirono a scivolare via, e nascondersi nella penombra così da raggiungere il sotterraneo. Qui c’erano Ara e un paio dei bambini, Tre e Otto, quel giorno febbricitanti, che ascoltarono in un silenzio addolorato l’inquietante racconto.
Anen consegnò a Gari i guadagni della giornata, lo aiutò a raccogliere le sue cose. Tre e Otto dissero che volevano andare con lui, Anen e Ara spiegarono che erano piccoli e malati e che era fuori questione, ma a Gari fece enormemente piacere quella richiesta. Anen poi lo scortò lungo il decumano fino all’uscita.
«Dove andrai?» domandò.
«A nord, verso la capitale» rispose allegramente il ragazzino. «Il sud già lo conosco, proviamo qualche altra cosa».
In fondo non gli dispiaceva nemmeno. Se doveva proteggerlo, meglio che il regno lo conoscesse tutto. Una fase della sua vita finiva e ne cominciava un’altra. E poi a nord c’erano le montagne delle tigri bianche dove suo padre aveva combattuto, insieme a questo tizio che si chiamava Dartred, e poi forse nella capitale c’era la fucina giusta per la sua spada, magari avrebbe incontrato la regina e le avrebbe detto: «Eccomi, signora, come mio padre sono uno dei vostri soldati».
Un passo dopo l’altro, senza fermarsi mai, il sole dell’alba sulla destra quello del tramonto sulla sinistra. E, di notte, la stella della Piccola Orsa davanti.
Suo padre sarebbe stato fiero di lui.
E sua madre anche.