Gari si spostò sempre più verso nord. La solitudine gli pesò ad ogni passo di più. Se non avesse avuto la pietra verde sotto le dita della mano destra e la boccetta di vetro smerigliato sotto quelle della sinistra, non avrebbe resistito, sarebbe crollato, sarebbe tornato indietro dai mendicanti del sottosuolo o dalla piccola nana in mezzo alle pecore, ovunque ci fosse una voce oltre la sua. Su quelle lunghe strade non ce ne erano. Spesso parlava da solo, ancora più spesso parlava alla pietra, che sembrava aumentare la sua potenza benevola e a volte lo riempiva di dolcezza e di strani sogni ad occhi aperti pieni di colore verde.

Gli mancavano Anen con il suo sarcasmo, Enen e Inen con le loro storie e Ara, con le sue zuppe, e gli mancavano i bambini, soprattutto Uno, Quattro e Otto, che erano coetanei, quelli a cui aveva insegnato con maggiori risultati la nobile arte del tiro con l’arco.

Il passo della Porta del Cielo aveva una sua straordinaria bellezza che lo commosse profondamente, come lo commossero i boschi verdissimi, dove il rumore dell’acqua si accompagnava ai suoi passi. La ricchezza di scoiattoli e fagiani, quaglie e conigli lo commuoveva ancora di più, e di tanto in tanto l’ombra nera del cinghiale passava tra i tronchi, ma persino nei posti più impervi e dimenticati compariva, scolpita su tavole di legno o addirittura incisa sulla roccia, la scritta che dichiarava come la cattura di qualsiasi preda fosse bracconaggio, crimine odioso contro il popolo e la Reggente, sicuramente punito con accurata severità. Lo stesso possesso di un arco, una fionda, un qualsiasi strumento per fabbricare una trappola, o, gli Dei non volessero, la trappola stessa, sarebbero state contate come colpe imperdonabili.

Gari odiava violare le regole, era comunque figlio di un uomo il cui compito era stato proteggere il loro rispetto, ma non rinunciò all’arco. Si limitò a smontarlo, e, una volta privatolo della corda, a fingere di usarlo come bastone. Le frecce anche furono ridotte e tre, accuratamente nascoste sotto le brache e legate contro le sue gambe.

Dette fondo a tutte le monetine che Anen gli aveva consegnato e proseguì mezzo morto di fame in boschi che pullulavano di roba da mangiare.

Aveva già superato il passo quando ne ebbe abbastanza.

Un’enorme lepre gli si parò davanti, e si mise a brucare l’erba con tale esasperante lentezza da essere quasi un invito. Con movimenti lentissimi, approfittando di essere sopravvento, Gari ricostruì l’arco, recuperò la freccia e tirò. Fu un centro perfetto. Un arrosto perfetto, quindi, cominciò a cuocere su un fuoco di sterpi che dette calore ai suoi piedi gelati e alla sua solitudine. I piedi rimasero freddini, ma la solitudine si risolse.

Il profumo della lepre si alzò glorioso su quella terra affamata, portato dal fumo lieve come un rigagnolo verticale che saliva al cielo e poi si apriva. Un uomo raggiunse Gari, un viandante triste e pieno di terrori, che saltellava zampettando e guardandosi attorno per avvistare in tempo eventuali guardaboschi e che, in cambio delle cosce posteriori della bestiola, gli regalò un sacchetto di sale e le informazioni sul regno, su come fosse sempre più povero, più ridicolmente povero, perché la terra era rimasta fertile e i boschi pieni di ricchezze.

Era l’animo degli uomini che era diventato stupido, di una stupidità abissale, totale, che non si era mai vista prima.

Gari ripensò a suo padre condannato a morire di corda, intuì che non era facile fare il male senza che fosse riconosciuto: bisognava camuffarlo da imbecillità.

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Traversare il Regno delle Sette Cime fu faticoso e tristissimo. L’arco salvò Gari dalla fame e gli fornì anche notizie e compagnia. Tutti si rendevano conto di quanto le cose andassero male, ma nessuno aveva il coraggio di arrivare alla conclusione.

Il male esisteva e la Reggente ne era alleata. Ovunque bambini cenciosi chiedevano l’elemosina. A ogni angolo c’erano uomini tristi e violenti che giocavano a dadi. Tutto era costoso e difficile da avere, con l’unica eccezione di una birra pessima, detta “la birra della Reggente”, che scorreva a fiumi ovunque, nelle taverne o venduta agli angoli delle strade. Una povera vecchina cui Gari aveva ceduto una magnifica trota presa con uno spettacolare colpo tirato dall’alto della ripidissima roccia su cui era inciso il divieto a qualsiasi tipo di pesca, dette a Gari la notizia più assurda e più folle. Mentre gli uomini si imbarbarivano coi dadi agli angoli delle strade, pieni di birra cattiva, nella capitale erano stati arruolati come armigeri i barbari del nord. Avevano riempito la capitale con le loro chiome chiare e le loro voci gutturali, e lei era scappata, aveva lasciato la piccola casa che da sempre era stata sua, aveva abbandonato il cimitero dove errano le tombe di tutti coloro che aveva amato, e si era trascinata verso sud, sempre più lontano da quella follia.

«Hanno arruolato le volpi a fare la guardia al pollaio» commentò la vecchina. «Hanno combattuto come eroi per fermare i barbari nella Guerra dei Due Inverni. E ora li fanno entrare e li armano».

Gari annuì. Non era idiozia. Anche l’imbecillità, per quanto immensa, aveva dei limiti. Questa era precisa volontà di annientare.

«Mio padre ha combattuto in quella guerra, proprio al nord» si lasciò sfuggire Gari.

«Allora avrà combattuto con Dartred, il Temerario» confermò la vecchina. «È lui che ha ucciso la tigre che aveva assassinato sire Ari, è lui che sta proteggendo la principessa Haxen, dicono. Se è vero, ci sta proteggendo di nuovo. Era figlio di un fabbro. I suoi fratelli sono ancora nella capitale, e hanno una locanda, Taverna dell’Incudine si chiama».

Gari abbassò il viso perché non si vedesse il lampo di forza che lo aveva traversato. Era un mondo difficile, meglio che le informazioni fossero date con parsimonia, ma nella sua mente correvano le parole “fabbro”, “incudine”, “fratelli”. Forse aveva trovato la sua fucina.

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A mano a mano che si avvicinava alla capitale, Gari divenne sempre più prudente. Cacciava solo di notte, guidato dai fruscii. Imparò, su consiglio di un altro cacciatore di frodo con cui divise il sale, a seppellire la preda sotto un sottilissimo strato di terra e accendere il fuoco sopra. Cuoceva più lentamente e si riempiva di terra che faceva scrunk sotto i denti, ma non si sollevavano profumi e se per caso la persona sbagliata fosse arrivata, avrebbe visto solo un ragazzo che dormiva di fianco al fuoco.

Gari arrivò a Dovor in un gelido giorno di fine autunno, mentre il nevischio turbinava nel vento gelido. Girò nelle strade sudicie che conservavano i segni di un recente splendore, intravide armigeri enormi che bofonchiavano una lingua ignota agli angoli delle strade.

La paura lo prese. Senza nemmeno osare chiedere un’indicazione, cominciò a battere la città palmo a palmo cercando la Taverna dell’Incudine, dando per scontato che, se c’era, l’avrebbe trovata. Non trovò né lei né nessun altra locanda, solo bettole infime, dove si giocava a dadi e si beveva l’orrida birra , che avevano nomi strani e inquietanti: Taverna del Sorcio, della Rana, del Corvo.

Era intuitivo che i nomi si riferivano al tipo di carne servita.

L’idea di poter essere catturato, picchiato, gli strinse la gola. Non osò più cacciare nulla. Tentò qualche miserabile numero di saltimbanco, ma senza arco non avevano alcun valore e soprattutto, visto che non c’era più una monetina da catturare, non c’era motivo, una volta visto lo spettacolo, che qualcuno si separasse da un mezzo soldo, una pinta di pessima birra, per pagare lui. Chiedere l’elemosina sarebbe stata fatica persa, per non parlare della disperata concorrenza.

Finalmente, la terza volta che passava in una viuzza laterale particolarmente dimenticata da tutti, Gari si accorse di un’insegna mezza inghiottita dall’edera, come se non volesse essere guardata. Scostò i rampicanti e vide che l’insegna indicava una piccola scala che scendeva, e lì si sarebbe trovato qualcosa da mangiare.

La scritta che accompagnava l’indicazione era ornata da un segno che ricordava quello sul tappo della piccola bottiglia di vetro smerigliato, il suo secondo tesoro:

TAVERNA DELLA CHIOCCIOLA IN GUAZZETTO

E sotto una scritta piccola, sbilenca e fitta:

Scritta piccola, sbilenca e fitta:  in questa terra arrivato non restare affamato come un otre svuotato una mangiata ti aspetta di sotto alla scaletta in una bella saletta nel tepore del caminetto e di gioia ti si allargherà il petto.

Era la scritta più minuscola e meno vistosa che mai avesse annunciato una locanda, ma le lettere che cominciavano gli strampalati versi formavano la parola:

INCUDINE

Con il cuore che batteva all’impazzata, Gari scese le ripide scale, e finalmente arrivò in una piccola locanda per metà occupata da una carbonaia, con un camino enorme e un paio di tavoli sbilenchi con qualche scodella sbrecciata. Due uomini seduti a uno dei tavoli girarono la testa a guardarlo. Erano robusti, bruni, entrambi con la barba.

«Siete i fratelli di Dartred il Temerario?» osò chiedere Gari.

«Figliolo, hai fatto una scuola per imparare a dire scemenze pericolose, o è una dote con cui sei nato?» rispose il più giovane dei due.

Gari sentì il cuore che riprendeva coraggio. La sua solitudine era finita. Li aveva trovati. La disperazione che valorosamente teneva a bada passo dopo passo e giorno dopo giorno, finalmente poteva sgretolarsi. Il camino era talmente grosso che poteva essere una fucina, la stanza era quasi invasa dal carbone tanto ce n’era, e sotto quelle volte annerite c’erano ben quattro porte che davano evidentemente su vie di fuga. Aveva trovato un rifugio. Si lasciò cadere seduto per terra. Le dita andarono alla pietra verde. L’esultanza lo riempì al contatto. Era nel posto giusto davanti alle persone giuste. Mostrò la pietra.

«Potete farmi una spada che contenga questa? Voi potete, vero? Quell’enorme camino e tutto quel carbone servono per questo, vero? Questa è una fucina e voi siete i fratelli di Dartred il Temerario. Io mi chiamo Gari».

I due restarono qualche secondo immobili, con gli occhi fissi sulla pietra.

Poi sempre quello più giovane parlò di nuovo.

«Ma come accidenti hai fatto a restare vivo fin qui? Gente molto più capace di te a tenere la bocca chiusa e a non dire nemmeno se c’è il sole o piove è già finita impiccata o appesa ai torrioni con gli avvoltoi che gli mangiano quello che resta della faccia, e tu sei vivo!»

«Ho una certa capacità di capire prima, quando ho qualcuno davanti, da che parte è schierato» rispose Gari.

«Gran bella capacità, ma impara a essere più cauto. Tutti, anche i migliori, possono cedere sotto tortura; tutti, anche i migliori, possono dare via tutto per salvare qualcuno di molto amato dal boia. Comunque sì, siamo i fratelli di Dartred, Tori e Ripi, e non lo sappiamo se siamo capaci di fare una spada con quella pietra, ci vorrebbe un nano. Il fabbro era Dartred. Noi abbiamo ancora l’incudine e questa potrebbe anche diventare una fucina, ma fino ad ora ha fatto la taverna. In più per fare una spada ci vuole del carbone e non ce lo abbiamo, del ferro di buona qualità e non ce lo abbiamo, e del tempo, tanto tempo, durante il quale questo posto non sarebbe più una taverna ma una fucina e questo è fuori discussione, perché fare il taverniere è permesso, fare il fabbro è vietato, chissà come mai, e faremmo una brutta fine, finiremmo in mano al boia. Lo conosciamo tra l’altro. Abita in fondo alla strada. Va matto per la birra. Noi non vendiamo birra, così se ne sta fuori da qui: preferiamo non approfondire la conoscenza. Vuoi una scodella di chiocciole in guazzetto? È ancora permesso raccoglierle, e con aglio e prezzemolo sono meglio del pollo. Probabilmente. Chi se lo ricorda un pollo?»