Haxen partì con il cuore spezzato e pieno di speranza. Strinse i denti. Resisté al dolore che le traversò il petto al pianto della piccolina, si morse le labbra fino a far sanguinare quello inferiore e non tornò indietro.
Aveva lasciato i suoi figli, ma andava a combattere per loro, perché potessero avere una vita da uomini, non da sorci rinchiusi in un buco.
Aveva lasciato i suoi figli, ma andava a vincere per loro.
Mentre camminava a grandi passi, arrampicandosi sulle pendici verdissime della montagna dell’Aria Grigia, si rasserenò. Ce l’avrebbe fatta. Il buio stava per finire. Attanagliato dal malgoverno, il suo popolo avrebbe ritrovato il coraggio, avrebbe recuperato la fede. Doveva andare a combattere, doveva andare a salvare il suo regno così che i suoi figli avrebbero avuto un luogo sicuro dove stare, una reggia fornita di armati. Non dovevano più vivere alla mercé del pettegolezzo di un mercante, del malanimo di una qualsiasi megera, che avrebbe potuto condannarli a morte in qualsiasi momento. Una smisurata allegria cominciò a serpeggiare dentro di lei. Dopo anni in cui era stata sottomessa a una paura spicciola, minuta, quotidiana, eterna, andava a combattere. Portava sulla schiena la sua spada accuratamente nascosta in un complicato gioco di stracci, con sopra posta una gerla con dentro un ricambio, un grosso telo bianco e una specie di campanella fatta con due cucchiai e un mestolo legati insieme e un po’ di pane. Si sarebbe travestita da lebbroso. Le avrebbero sguinzagliato addosso i cani, ma non avrebbe dovuto temere gli uomini. Il peso dell’arma era felicità pura. Suo padre gliel’aveva data, era stata fabbricata dal padre di Dartred con l’arte e la potenza di uno dei nani, forse il più potente, le sue mani ne avrebbero stretto l’elsa perché la giustizia fosse ripristinata.
Andava a combattere.
Andava a vincere.
Arrivò in cima al monte che il sole era alto. Guardò l’azzurro del mare, l’orizzonte pulito, i gabbiani in basso con il loro volo veloce e, in alto, lenti e austeri, i falchi.
Andava a combattere.
Andava a vincere.
I suoi figli sarebbero vissuti sicuri e felici.
Il suo popolo anche.
Si nascose sotto il suo telo bianco, se lo strinse in vita con un pezzo di corda, dopo aver creato un’unica fessura per gli occhi e girò le spalle al mare.
Haxen camminò per sette giorni, sempre verso nord. Sulla strada dove i carretti dei mercanti si erano diradati, spesso qualcuno si fermò a farle l’elemosina. Lei non aveva mai chiesto niente a nessuno, e quella generosità la imbarazzò come l’impressione di star commettendo un furto, ma non osò mai rifiutare nel timore dipoter destare dubbi o sospetti. Un ragazzo posò metà della sua focaccia e si allontanò di corsa. Una vecchio le lasciò un piccolo orcio pieno di acqua pulita, che restò a lei, tra i suoi pochi beni, come prova che la gentilezza, come la generosità, tra gli uomini esisteva ancora e che non era vero quindi che vivere fosse solo ripararsi dall’odio, nascondersi al sospetto. Sia pure con il cuore attanagliato per la lontananza dai suoi figli, Haxen aveva l’impressione di rinascere, di essere di nuovo la principessa figlia di re Ari cui era stato insegnato a non avere paura di nulla.
Ma in quel non avere paura di nulla, lei aveva sempre pensato che entrassero nemici armati di mazze chiodate, spade e punte di freccia. Non la paura di quanto avrebbe pianto la sua bimba più piccola mentre lei non poteva consolarla, quanto sarebbero cresciuti gli altri due lontano da lei.
Ebbe la tentazione di invertire la direzione dei passi, di ritornare, ma poi le tornava alla mente che la piccola palafitta non era la casa dei suoi figli, ma la prigione. Da una casa si può uscire quando lo si desideri, per andare a correre nelle vie, giocare con gli altri bambini, azzuffarsi, consolarsi, andare a rubare i limoni che spiovevano fuori dai muri della casa del Governatore. I suoi bambini avevano il destino di vivere rinchiusi, lontani dagli occhi dal mondo, in attesa dell’errore che li avrebbe condannati a morte.
Non aveva altra scelta. Andava a combattere, per sua madre, per il suo sposo, per i suoi figli, per il suo popolo. Ognuno di quei motivi, da solo valeva l’impresa, e tutti insieme si moltiplicavano l’uno con l’altro, diventando un dovere assoluto senza possibilità di deroga.
Per anni era stata rinchiusa in un piccolo spazio, osando al massimo arrampicarsi sul tetto per guardare il mare. Il suo corpo impiegò qualche giorno a ritrovare la sua forza, la sua capacità di marciare senza fermarsi, e con la forza tornò la gioia che da sempre le dava camminare, guardare i sassi, l’erba, intravedere una volpe o una capra. Per anni circondata dal mare, Haxen riscoprì il profumo della terra.
Haxen traversò la striscia di terra arida che passava tra il lebbrosario da una parte e il villaggio delle madri dall’altro, perché in quel punto il suo travestimento era pericoloso, poteva spingere i lebbrosi a fermarla. Razionò la focaccia e l’orcio. Impiegò una luna a raggiungere il Deserto delle Torri Perdute e lunghi giorni aridi e freschi ad attraversarlo. Era inverno, la stagione migliore.
Fu alla valle degli Zampilli che incontrò Dartred. Il posto era un’assoluta desolazione. Rois l’aveva avvertita dopo che Hania aveva letto la mente della cicogna, ma nessuna parola avrebbe potuto prepararla a quella fila di alberelli ridotti a scheletri e piccole palme completamente secche, gli stagni azzurri ridotti a fanghiglia sudicia, gli zampilli scomparsi. Il tutto era circondato da una ininterrotta fila di armigeri, nemmeno un coniglio sarebbe riuscito a passare e non ci era riuscito nemmeno Dartred. Era la valle della desolazione, del sudicio, dello squallido. Il pozzo puzzava di marcio e di putrefazione. Dovevano esserci delle carcasse di qualche cosa da qualche parte, perché alti e lenti su tutta quella tristezza volavano gli avvoltoi.
Era arrivata appena i tempo. Il suo scudiero era tra due armati, aveva la faccia piena di ecchimosi, e lo stavano per impiccare.
Era evidente che si era fermato nella speranza di prendere un po’ di Acqua Sacra: se ci fosse riuscito sarebbe stata per loro un’arma formidabile. Non era mai stato un granché come ladro, però, riusciva sempre a farsi scoprire e a farsi prendere. Haxen fece un rapido conto: questa sarebbe stata la terza volta che lei gli salvava la vita. Si avvicinò con passo zoppicante agli armigeri.
«Un poco di Acqua Sacra per una vecchia malata» gridò con una vocetta acuta, che però Dartred riconobbe subito. L’uomo alzò la testa che teneva bassa e la fissò un istante, poi distolse lo sguardo, per posarlo sugli armigeri che lo stavano trascinando e che erano distratti a guardare lei.
«Questa roba non serve contro le malattie, e contro la lebbra non serve niente, quindi vattene prima che ti ammazziamo» le gridò il capo, un vecchio con la faccia stanca di chi ha visto più di quanto avrebbe voluto vedere al mondo e preferirebbe fare a meno di vedere altro.
«La mia malattia è dell’anima, strazia il mio spirito come corvi nel vento d’inverno, quando le nuvole sono così basse che si perde quasi il ricordo che il cielo pulito possa esistere. La disperazione per il morbo che mi attanaglia ha tolto serenità alla mia mente, che si è dispersa nell’odio al cielo e al mondo. Questo l’Acqua Sacra lo sanerebbe e io potrei attendere la mia morte con leggerezza e letizia. E inoltre, nobili signori, valorosi guerrieri, come pensate di porre fine alla mia miseranda vita? Non potete strangolarmi, per farlo dovreste toccare il mio corpo che spande morte. Potreste ricorrere alla precisione di un dardo tirato da un arciere accorto e di buona mira, ma cosa fare del mio sangue infetto che impregnerebbe la terra maledicendola, e soprattutto delle mie infelici spoglie mortali che, dopo la dipartita, aumentano assai il danno che possono fare al mondo? Non sapete che dal corpo di un lebbroso che sia stato ucciso in modo cruento, facendone scorrere il sangue che impasti la terra, esalano miasmi che avvelenano chi ancora respira, così da trascinare anche lui, con straziante sofferenza e crudele lentezza nel mondo della morte, rendendolo fantasma prima del tempo, come io stessa sono? È così che io contrassi la malattia. Il mio amato padre colpì con una freccia un lebbroso venuto a elemosinare alla nostra porta, e tutti ne siamo morti. Non commettete lo stesso terribile errore. E poi, valorosi guerrieri, come sposterete le mie spoglie? Chi tra di voi toccherà le bende zuppe del mio sangue infetto, così da esserne avvelenato?»
Si scatenò una feroce discussione. Che toccare il suo corpo desse il contagio era ben plausibile. Era difficile però che qualcuno avesse già sentito che gli effluvi di un lebbroso ferito causassero malattia, perché lo aveva inventato in quell’istante. Ma la lebbra incuteva un tale terrore, che nessuno voleva saperne di verificare la veridicità dell’informazione. Lei continuava ad avvicinarsi.
Finalmente, il vecchio stanco che guidava tutti quegli uomini decise di intervenire.
Indicò Dartred.
«Ehi, tu, portala via e hai salva la vita. Trascinala via e ti lascio andare, tanto di imbecilli che vengono a rubare questa roba convinti che valga qualcosa, ce ne ho finché voglio. Anche se ne impicco uno di meno, la paga me la danno lo stesso. C’è la pena di morte per i lebbrosi che osano mettere i piedi sulla nostra terra, ma la eseguirà qualcun altro. Io già ho difeso questi ridicoli acquitrini. Che ci pensi un commilitone da un’altra parte così anche lui si guadagna la paga».
Liberarono le mani a Dartred che non si fece ripetere l’ordine due volte. Scattò verso Haxen con aria decisa e cattiva. Lei fece qualche modesto tentativo di evitare di essere agguantata, con un corsetta a zig zag allietata da gridolini, cui Dartred pose fine agguantandola per un braccio e tirandola via.
«Mi hanno preso l’ascia» sibilò furioso quando furono ragionevolmente distanti. «E comunque avete fatto una follia a lasciare i bambini e venire qui».
«Vi ho salvato la vita».
«Per un colpo di fortuna. Se il vostro stratagemma non avesse funzionato, cosa avreste fatto?»
«Nulla, vi avrei lasciato a morire, e sarei andata io a vedere se si può fare qualcosa per la regina mia madre, visto che l’unico soccorritore che ho potuto mandare si è fatto acciuffare. Però avrei pianto la vostra morte e questo è sempre un bel pensiero. E non sprecate troppo tempo in ringraziamenti, di nulla, è stato un piacere. Sono desolata per la vostra ascia. È un colpo duro perdere le nostre straordinarie armi, sia perché noi non le avremo più, sia perché vanno al nemico. Abbiamo ancora solo la mia spada. La spada di mio padre, la vostra e la vostra ascia sono già in mano a loro» rispose lei tranquilla.
Stava andando a vincere. Ogni cosa le riusciva.
“Sono il Cavaliere di Luce, padre, sarete fiero di me” mormorò tra sé e sé, sotto il suo telo.
Non appena furono certi di non essere più in vista, Haxen si liberò del telo e della buffa campana fatta di stoviglie lasciandoli in un fosso. Qualcuno avrebbe poi trovato e usato tutti quegli oggetti, rimettendoli all’onore del mondo e del quieto uso domestico per cui erano stati creati. Per i lebbrosi c’era la condanna a morte, a quanto pareva, e con Dartred vicino non aveva più la necessità di celarsi. Camminare sulla sua terra, con il volto libero, la sua spada sulle spalle il suo sposo che era anche il suo scudiero che marciava vicino a lei, riempì la mente di Haxen di una tale gioia che persino il dolore per i suoi bambini lasciati si attenuò un pochino. Si ripeté che erano al sicuro. La forza di Hania e la saggezza di Rois avrebbero protetto la piccolina.
Insieme proseguirono il cammino. Il regno era pieno di abbandono, di desolazione, di follia e di miseria. I canali di irrigazione non erano sopravvissuti alla mancanza di qualsiasi cura. Campi che erano stati fertili erano diventati acquitrini o distese di erba rada e giallastra. I ponti di legno erano talmente mangiati dall’usura che affrontarli ormai era una prova di coraggio. In compenso, tutti erano guardati da armigeri che pretendevano un obolo per dare il permesso di passare. Alloggiarono in misere locande scoprendo che su ogni scodella di minestra acquosa e insipida occorreva pagare un obolo, come occorreva pagarlo per ogni pezzo di pane comprato in un mercato, per ogni frutto colto da un albero, per qualsiasi cavolo preso da un orto, anche se di quelle piante si era il proprietario, e persino sulle castagne e i funghi che da sempre tutti raccoglievano nei boschi ora esigevano che si pagasse un obolo.
Ovunque grida inchiodate ai muri annunciavano pene terribili fino alla morte per impiccagione per chiunque cercasse di evadere al dovere di versare gli oboli, essendo questi evasori, con evidenza, la causa della miseria e della decadenza del regno.
«Non hanno messo oboli sull’aria che si respira» notò Haxen.
«In fondo sono pieni di mitezza» commentò Dartred.
Sola a non avere nessun obolo a raddoppiarne o triplicarne il prezzo era una specie di birra nerastra, un intruglio micidiale che rispondeva la nome di “birra della Reggente”. Venduta ovunque per pochissimo, era amara e aspra, e bruciava sia la gola che le budella. Ne bastava pochissima per scivolare in una sbronza triste che non portava al sonno e che poi lasciava la bocca piena di fiele per giorni.
«Un vero regalo al popolo, quasi come i dadi, anzi forse ancora meglio» commentò Haxen.
«I due doni si completano a vicenda e moltiplicano gli effetti l’uno dell’altro. I dadi spingono alla disperazione e la birra potrebbe farla dimenticare, ma mentre bevono giocano ancora di più» disse Dartred. Nulla era fatto a caso nel piccolo regno ormai maledetto.