Gari si stabilì nella piccola locanda. Il luogo era decorosamente miserabile, così da non sfigurare rispetto al resto del regno. Tutto quello che si serviva, in vecchie scodelle sbreccate, era l’eterna zuppa di aglio e chiocciole, più aglio che chiocciole, e dell’acqua di fonte, in boccali altrettanto sbreccati. Piccole pagnotte rotonde accompagnavano il pasto, ed era tutto.

Il fatto che si bevesse acqua invece dell’onnipresente birra della Reggente, aveva limitato la clientela a pochi e selezionati amici. Solo coloro che avevano capito quanto quella birra fosse dannosa sia per l’anima che per la mente, scendevano le vecchie ripide scale.

C’erano, tra i pochi avventori, diversi guerrieri della Guerra dei Due Inverni, e sempre, sottovoce, davanti alle ciotole di chiocciole in guazzetto, il discorso finiva sulle pattuglie dei barbari – quante erano, dove erano, a che ora ricevevano il cambio – su quanto il regno fosse sempre più miserabile, con una Reggente miserabile e folle che teneva in ostaggio la regina. Persino le chiocciole erano sempre più difficili da trovare, e il giorno in cui avessero razionato anche l’aglio il regno sarebbe finito.

Il cicaleccio proseguiva ininterrotto sera dopo sera, lasciando il mondo uguale a se stesso, senza scalfirlo in nulla. Ma a un certo punto, sempre, quando ormai la notte era calata e le braci nel camino stavano per spegnersi, gli uomini si consolavano della loro pochezza con i racconti magnificati della guerra che c’era stata, insieme ai racconti fantastici di battaglie mai esistite: i ricordi dei reduci si intrecciavano con la narrazione di un’antica saga, quella del Cavaliere di Luce.

I racconti e i ricordi erano senza alcuna logica, a spezzoni. Erano racconti pieni di una struggente nostalgia. Le armi erano vietate. Ogni fatto di sangue, inclusi quelli commessi dagli armigeri barbari ubriachi, era riportato dai banditori, ricordato tre volte al giorno per mesi, ingigantito. Così, per evitare alla popolazione di essere vittima di facinorosi, tutte le armi erano state vietate, tutte le spade sequestrate, tutte le alabarde raccolte nel palazzo. I coltelli da cucina erano permessi solo se non superavano le due spanne.

Gari aveva una memoria di ferro e in strategia militare era un esperto: lui fu l’unico che si rese conto che tutti gli ordini che Dartred aveva dato, quelli strani che avevano salvato situazioni che sembravano disperate, erano ispirati alle gesta del Cavaliere, correlazione non troppo facile perché i due episodi erano stati narrati in due sere diverse, distanziate da mesi.

Quando li aveva attirati nelle miniere, per immobilizzarli con nuvole di insetti, quando li aveva fatti impantanare nelle pozze del fango: erano tutte azioni ispirate al racconto. Lui che di strategia se ne intendeva e l’aveva studiata sul manuale in dotazione, si accorse che le storie del Cavaliere erano semplicemente ispirate a quei capitoli: Capitolo 1. Conosci il territorio; Capitolo 3. Che il suolo diventi il tuo alleato; Capitolo 8. Che gli animali diventino il tuo alleato; e così via.

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L’arrivo di Gari, in apparenza almeno, non modificò in nulla lo scorrere dei giorni e delle ore. Il ragazzo fu accolto e messo a servire con l’ordine preciso, e spesso ripetuto, di tenere la bocca chiusa.

Una volta scesa la notte e giunta al suo punto più buio, la locanda chiudeva e quello che era rimasto, qualche scodella di zuppa, piccole pagnotte rotonde e qualche boccale di acqua pulita, anche quello un genere di sempre maggiore rarità, era distribuito a un folto gruppo di bambini mendicanti, che aveva individuato la locanda come uno dei pochi luoghi in quella città desolata dove qualcosa era dato anche a loro.

Gari faceva le miserabili distribuzioni. Mentre i bambini mangiavano, insieme a qualche ovvia raccomandazione (ringraziare sempre, con dovizia, non stare mai due nella stessa strada), Gari cominciò a raccontare le storie del Cavaliere. I bambini stavano con la bocca aperta, felici quasi come del pane, e poi dolcemente scivolavano nel sonno contro il muro tiepido della taverna, al riparo della tettoia, vicino ai bracieri che Gari aveva sistemato.

Uno dopo l’altro, dato che farsi dare qualcosa in quella città sempre più cupa era un’impresa al di là dell’umano, all’inizio forse per tenersi compagnia da soli, i bambini cominciarono a raccontare per le strade le storie del Cavaliere. Il successo fu al di là di ogni aspettativa. Di quelle storie nelle vie avevano più fame che del pane. Il ricordo di antichi splendori, la coscienza che il coraggio esisteva e faceva comunque parte del dono di essere uomini, ritornarono. Purché terminassero la storia, piccole monetine di rame vennero distribuite.

I bambini più bravi raccontavano le storie modificando anche le voci a seconda del personaggio. A piccoli gruppi si misero insieme per recitarle. Piccole spade di legno e scudi fatti da vecchi coperchi ormai bucati dalla ruggine e dall’uso permisero di aumentare la potenza dei racconti. Gli armigeri barbari guardarono distratti e senza intervenire. Erano bambini. L’ordine dato alla popolazione di non avere armi e non usarle non era violato. Tirarono dritto.

Lento e inesorabile come una quercia che nasce da una ghianda finita in una fessura, il coraggio degli uomini rinasceva e zampillava. Poi ognuno tornava a casa sua, al suo miserabile presente, e il coraggio di nuovo si scoloriva, ma ne restava il ricordo. I banditori che all’angolo delle piazze continuavano a ripetere quanto buona fosse la Reggente, in contrapposizione alla malvagità della regina, spesso parlavano da soli, perché ad ascoltarli non c’era più nessuno.

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Gari era arrivato da sei mesi quando, urlata da tutti i banditori, una notizia scosse la città, seppure sempre immersa nel suo spaventato torpore: la regina madre era stata condannata a morte e la condanna sarebbe stata eseguita da lì a pochissimo. Mentre ancora tutti si stavano riprendendo dallo stordimento, dopo essersi augurati con tristezza che la morte fosse meritata perché tanto non erano in grado di evitarla, una seconda folle notizia giunse alla taverna, questa sussurrata e celata, scivolata fuori dal castello di nascosto, contro la volontà della maledetta Reggente, che tutto poteva, ma per fortuna era scema e questo apriva delle fessure nella sua tirannia.

«Dartred e la principessa Haxen sono arrivati nella capitale, erano qui, sono passati per questa città e noi non ne abbiamo saputo niente. Sono stati arrestati due giorni fa e, ieri, sono stati impiccati» disse Ripi, il fratello più giovane, precipitandosi dentro, buttato giù dalle scale con una tale velocità che il cesto di teste di aglio si rovesciò e quelle si sparpagliarono dappertutto. «Una delle sguattere che ha assistito lo ha detto a sua cugina, che è la moglie del carbonaio, e ora lo so anche io».

Tori restò immobile, in silenzio. Poi, lentamente si lasciò scivolare su una sedia, si chinò e si prese la testa tra le mani.

Gari si lasciò scivolare per terra. Tutto gli si confondeva nella testa.

Era tutto finito. Non c’era più salvezza. Il dolore per la morte di sua madre, per l’impiccagione di suo padre, esplose nella sua testa senza possibilità di consolazione. Tutto era finito. Non c’era speranza di salvezza. Non c’era risoluzione. La disperazione era talmente fitta da diventare dolore. Il suo torace si alzava e si abbassava in un movimento furioso, in un singhiozzo senza lacrime. Le sue mani andarono ai suoi oggetti sacri. La pietra verde nella destra, la boccetta smerigliata nella sinistra, e questo, incredibilmente, lo rasserenò.

«Non è vero» disse.

I due fratelli girarono la testa verso di lui.

«Che noi non lo vogliamo, non vuol dire che non sia vero» disse dolcemente il maggiore. «Negare la realtà è il sistema più semplice per non soffrire, ma anche il più sbagliato».

«Non è vero, non è vero e basta. Lo so» disse Gari calmo. «Lo so. Io so le cose. Altrimenti non sarei arrivato vivo fino qui».

Tori e Ripi restarono a lungo in silenzio.

«Li hanno impiccati. E li hanno impiccati di nascosto proprio perché non si sapesse. La cuoca lo ha visto» disse Tori, sempre dolcemente.

«L’impiccagione è falsa. Devono aver fatto apposta che questa sguattera la vedesse. Sanno benissimo che se una sguattera vede qualcosa il giorno dopo lo sa la città».

«È possibile che l’impiccagione l’abbiano fatta non davanti al popolo per evitare rivolte, ma la presenza di una sguattera che poi lo racconta a tutti. Ma perché dici che è falsa?»

Gari ci pensò.

«Non li hanno impiccati veramente perché gli servono vivi. Lo hanno fatto sapere perché così hanno abbattuto ogni speranza, ogni volontà di lotta, ma non possono essere stati così idioti da farlo sul serio. Hania è una strega. Io lo so. Me la sono trovata davanti. Può dare ordini agli insetti, può spostare le pietre guardandole. Vi do la mia parola che può fermare un’armata, perché gliel’ho visto fare. Chiunque voglia combattere contro Hania non può essere così stupido da rinunciare ai due migliori ostaggi che si possano avere contro di lei».

«Non è così stupido» commentò Tori dopo un lungo silenzio.

Gari estrasse dalla sua borsa l’erba birra che gli aveva consegnato la piccola signora grigia.

«Me l’ha data un’appartenente al popolo dei nani. Con questa si fa la birra migliore del mondo. Una birra dorata, forte, buona, che fa perdere il senno e fa parlare molto» disse Gari.

I due fratelli lo guardarono a lungo, poi il più vecchio si mosse e prese le preziose foglie.