A Geno si scatenò l’inferno. Improvvisamente tutti sapevano che da loro c’era la bambina strega, la figlia della folle e crudele principessa delle Sette Cime. Chi aveva qualche dubbio, veniva aspramente deriso. Per la fortuna di tutti, ora sul piccolo e sciagurato regno governava una nuova e buona regina, una donna del popolo che vestiva modestamente per la sua sterminata umiltà, pari solo alla sua incrollabile dirittura. Costei nella sua bontà teneva nel cuore anche gli abitanti della città di mare, benché antichi nemici, dimenticando così passati dissapori, e aveva munificamente inviato messi su messi per avvisare Geno del terribile pericolo che incombeva su chiunque fosse vivo, che si trattasse di uomini, donne, bambini, cani, gatti, vacche, porcelli, galline, tortore, orate, sogliole, gamberi, cavoli, indivie, erbe commestibili e non commestibili, perché pareva che solo i topi, gli scorpioni, la cicuta, la gramigna e i funghi mortali potessero prosperare fino a che una strega esercitava il suo potere. La sovrana delle Sette Cime indicò anche come riconoscere la casa della piccola ma micidiale strega, che era semplice da individuare: quella che per anni aveva ospitato sul tetto una cicogna e ancora la ospitava. E, come spesso succede, nel momento in cui la novella fu strillata ovunque e ovunque affissa, tutti si resero conto della sua logica inoppugnabile, della sua veridicità granitica, di come fosse inconcepibile dubitarne e tutti si chiesero anche come avessero potuto per anni non porsi domanda alcuna su quella stranezza: una cicogna che viveva quieta sul tetto di una palafitta, rinunciando alla necessità di migrare, al piacere di vivere con i suoi uguali, adattandosi a mangiare pesce come un qualsiasi gabbiano, restandosene accoccolata per ore di fianco a un ragazzino che suonava il flauto. Che una bambina potesse essere camuffata da maschio non era impossibile, che la strega mostrasse più della sua età era voce corrente, che fosse muta era un dato certo, e finalmente tutti si accorsero che nessuno aveva mai sentito la voce del ragazzino con il flauto, nessuno lo aveva mai nemmeno incontrato nelle vie della città. Per anni e anni avevano vissuto di fianco alla piccola palafitta senza rendersi conto di quanto trasudava malevolenza e cattiva magia. Si stabilì che da quel giorno tutti gli abitanti della città avrebbero dovuto dare prova della propria capacità di parola. E questa sarebbe stata la seconda cosa da fare. La prima era distruggere la palafitta della cicogna, e tutti coloro che ci stavano dentro, così che non potessero esserci errori o fraintendimenti. E dato che una strega era una strega e la prudenza non era mai troppa, decisero di prendere qualche congrua precauzione. Sarebbero andati nella casa di notte, così da prendere tutti di sorpresa, la strega e chi aveva deciso di vivere con lei: familiari, amici, conoscenti, eventuali animali da guardia o da compagnia, cugini di qualsiasi grado, perché chiunque convivesse con una strega e contribuisse all’impresa di tenerla celata, era inevitabilmente un complice e quindi un colpevole, affermazione di così sontuosa verità da rendere balzana e irresponsabile qualsiasi idea di un qualsiasi processo. Sarebbero andati loro, i cittadini della città, anche perché di armigeri Geno non era troppo fornita. Si presero due giorni per rifornirsi di forconi, roncole, corde, torce, falcetti e qualche buon coltello di scorta.

Ci si accontentava di roncole e falcetti perché a Geno, da quando gli armigeri erano pochi, si era creata una sciatteria grave nel portare un’arma e saperla usare. In passato avevano avuto un esercito, anche bellino. Però l’esercito era una tentazione eccessiva: quando lo avevano avuto, lo avevano usato per cercare di invadere il Regno delle Sette Cime, che se pure era un regno piccolo, una specie di valle a scodella, aveva sempre vinto. Loro si erano seccati di essere sempre sconfitti e avevano addirittura deciso di risparmiare i soldi dell’esercito per scopi migliori. Si erano limitati a una piccolissima truppa di armigeri veramente molto scelti, che per ulteriore e lodevole senso del risparmio andavano a piedi invece che a cavallo. E a Geno erano contenti così.

Che fine avessero fatto poi i denari risparmiati, dove si fossero dispersi senza lasciare traccia non si era mai capito bene, ma tutti dovevano riconoscere che non avere un esercito dava una certa leggerezza, una specie di giuliva confidenza nella benevolenza del mondo.

Un bel po’ di oro andava ai regni meridionali, a quelli orientali e a quelli dell’ovest, perché se ne stessero buoni e quieti a commerciare. Restavano fuori i pirati, che però si facevano vedere solo di tanto in tanto e, quando venivano, restavano poco e poi se ne andavano.

Il Governatore da sempre spiegava quanto pericoloso fosse essere armati, militarizzati, una provocazione per i pirati, che davanti a una resistenza si sarebbero battuti come leoni portando la città alla distruzione, dandola alle fiamme, evento fino ad allora mai successo, perché c’era in un certo senso un patto non scritto. Loro non si difendevano e Geno restava in piedi. Perché sciupare per puro spirito guerrafondaio una così bella intesa? Così invece se la cavavano con qualche onesto stupro, che in effetti in una città di mare andava messo in conto, qualche piccola ruberia, che anche era un ovvio inconveniente del possedere qualcosa.

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I folletti avvertirono Hania con uno stordente e cacofonico stridio, che l’assordò e che era tanto fastidioso quanto inutile, perché le voci erano state talmente ripetute e urlate che le aveva sentite anche lei.

La catastrofe, quindi, piombava a interrompere una quotidianità disastrosa, fatta di pesce mal cucinato e continua necessità di pulire, con il continuo piagnucolio di Roa e della voce di Rois che cercava di consolarla con un insoppoertabile tono mellifluo.

Andarono via a notte fonda, quando sia il mondo che la piccola Roa erano scivolati nel sonno. Portarono con loro, nascosti sotto il mantello, gli archi e le frecce, le uniche armi rimaste, e il poco pane che avevano nelle bisacce.

La cicogna ebbe l’ordine di precederli a di attenderli in alto, sulla cima della montagna dell’Aria Grigia.

I folletti facevano loro da vedette, dirottandoli sui moli e sulle banchine deserte, così che evitassero i luoghi dove qualcuno ancora vegliava.

Giunsero alla casa di Madama Tara. La vedova era sveglia e li aspettava sulla veranda.

«I folletti mi hanno avvertita che, sapendovi in pericolo, vi stavate dirigendo verso casa mia. Me ne stupisco. Non fareste meglio a scappare via da questa città piccola e maledetta che vi perseguita? So che siete soli. Ignoro quale compito la principessa vostra madre e il suo sposo stiano portando a termine, ma so che la vostra posizione è quanto di più pericoloso si possa immaginare».

Hania impiegò qualche istante a superare lo stupore: la vecchia megera era diventata non solo benigna, ma anche capace di pensare. Al collo le pendeva la pietra verde che era stata sua e che le mancava, ma quella pietra sarebbe rimasta dov’era. Madama Tara le serviva sana di mente e di spirito, e la pietra quindi era necessaria.

Hania mise la piccola Roa addormentata tra le braccia della vecchia dama.

La lunga e ossuta faccia rimase perplessa, poi si illuminò. Gli occhi si spalancarono, la bocca si aprì per la prima volta in un accenno di sorriso. La donna strinse le braccia attorno al piccolo corpo tiepido della bimba addormentata.

«Io? Volete che la custodisca io?»

«Con voi è più sicura» rispose Rois. «Anche se ci spezza il cuore separarci da lei».

Nel suo caso era sicuramente vero. Rois era sconvolto dall’idea di allontanarsi dalla sorellina. Hania era piuttosto contenta di liberarsi di un familiare che ignorava ancora la necessità di evacuare il contenuto intestinale in luoghi e tempo acconci e non dove e quando capitava. Sicuramente la vecchia signora avrebbe condiviso l’entusiasmo di Haxen e forse anche la sua abilità nel pulire e nutrire la bimba, Hania si sarebbe liberata di entrambe le incombenze e tutti sarebbero stati contenti.

I tre folletti che da sempre abitavano con Madama Tara si misero a strillare tutti insieme.

«No, qui non è sicura» disse la donna, decifrando gli striduli avvertimenti. «Molti l’hanno vista e sanno che appartiene alla vostra famiglia, la riconosceranno e col terrore che si sta diffondendo la uccideranno. Non è sicura qui. Dove pensavate di fuggire?»

«Dai lebbrosi. Lì non ci cercheranno. Mia sorella può evitare il contagio sia a me che a lei, ma quello non è posto per la piccola» rispose Rois.

«Vengo anche io. Datemi il tempo di preparare un fagotto e andiamo subito. Voi raggiungerete il villaggio infetto ed io l’altro, quello delle madri dei bambini salvati. Avrei dovuto fare parte del loro numero anni fa, ma non è mai troppo tardi per fare la cosa giusta. La faccio ora».

L’idea era perfetta. Madama Tara era perfetta. Quella pietra aveva fatto miracoli.

«Certo, è una bellissima idea, così non saremo troppo distanti e di tanto in tanto potremo vederla» esultò Rois.

Certo, anche quella era un’idea. Di tanto in tanto sarebbe andata a trovare Roa, ogni due anni, magari ogni tre, certamente più spesso che ogni quattro.

Poco prima dell’alba, di nuovo si avventurarono nel buio, protetti dai folletti che guidarono i loro passi così che restassero segreti.

Mentre la luce illuminava il mondo, si arrampicarono sulla montagna dell’Aria Grigia, ne raggiunsero le pendici brulle al pomeriggio. Dormirono sotto le stelle, mangiarono le loro poche provviste, e giunsero a destinazione dopo un paio di giorni di cammino.

Roa cominciava ad abituarsi a Madama Tara, che si alternava ad Hania per portarla. Forse più che un abituarsi era un rassegnarsi. Da quando Haxen se n’era andata, a ogni fruscio la piccolina girava la testa, con un istante di speranza che fosse lei, un accenno di sorriso sotto gli occhi sbarrati, per poi spegnersi di nuovo nella delusione. Aspettarono che Roa fosse addormentata per separarsi. Madama Tara si avviò al luogo che aveva scelto, ed era quasi arrivata quando un nugolo di bambini le venne incontro per festeggiarla, poi arrivarono le donne. Tutti erano laceri e tutti erano contenti. Le loro voci rimbalzarono fino a loro due. E anche la voce di Madama Tara risuonò serena e lieta. Poi tutti, le donne e i bambini, si girarono verso di loro, salutarono a lungo e scomparvero nelle grotte orlate di capperi in fiore.

«Abbiamo fatto la cosa giusta. Roa è al sicuro. Se anche troveranno noi, non cercheranno lei» disse Rois, come per convincere se stesso. Hania lo sapeva già che avevano fatto l’unica cosa che potevano fare. Annuì. Se ne era liberata. Niente più cose che puzzavano da pulire.

Rois si mise a piangere.

«Mi manca già. Era come avere mia madre con noi. Badarle è stato bellissimo».

A quel punto ricomparve la cicogna, che finalmente li aveva ritrovati, e Hania poté risparmiarsi la risposta.

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Si avviarono al lebbrosario, l’unica decisione possibile. Lì i fulgidi eroi intenzionati a dare la caccia alle loro teste non li avrebbero cercati.

Hania riempì Rois di un impasto di mandragora, arnica e saliva che gli avrebbe permesso di passare indenne attraverso innumerevoli pestilenze e di restare al lebbrosario anche tutta la vita senza subire il contagio. Lei sapeva di essere naturalmente immune da qualunque morbo con l’unica eccezione dell’essere ammazzata, quindi lì era il caso che facesse attenzione.

Si avvicinarono lentamente, sotto il sole cocente, e superarono i tre cerchi di massi che facevano da ingresso a quel luogo. La cicogna li seguiva dall’alto in ampi giri lenti.

Già dalla prima occhiata fu evidente quanto il lebbrosario fosse straordinariamente bello, un luogo di ordine e dolcezza. C’erano tre semicerchi di grossi sassi davanti all’ingresso, così da creare una specie di sbarramento. Quando superarono l’ultimo, dalle pareti di tufo si staccarono figure cenciose, coperte di stracci che ormai avevano lo stesso colore della roccia con cui si confondevano quando erano immobili. Erano due uomini e un nano.

Il nano era il più mal messo dei tre, doveva appoggiarsi a un grosso bastone nodoso e camminava leggermente avanti agli altri, che lo seguivano come due scudieri.

In tre, evidentemente i maggiorenti del luogo, andarono ad accoglierli con lunghi veli bianchi che coprivano la figura e il viso, per non impressionarli con i segni della malattia che li aveva devastati.

«Avete superato il terzo cerchio, quello dopo il quale non c’è ritorno, ma non avete ancora toccato nulla. Mostrateci i segni della malattia o andatevene fino a che siete in tempo e la libertà del mondo vi è ancora concessa» disse il nano, che sembrava essere il capo, quando venne ad accoglierli.

Hania sentì il suo cuore allargarsi. Era arrivata in un rifugio: finalmente capì lo strano senso di pace che l’aveva accolta e ricordò dove l’aveva già provato.

Rois spiegò che quello era l’unico luogo dove le loro vite non fossero in pericolo, in quanto erano fuori da ogni protezione, da tutti condannati.

«Mia sorella è immune da qualsiasi contagio per sua natura e ha protetto me con cure sufficienti. Possiamo vivere presso di voi senza pericolo alcuno» garantì.

Il nano li fissò a lungo con i suoi occhi penetranti.

«Siete i figli della principessa Haxen» indovinò infine. «La bambina di tenebra preannunciata dalla notte delle meteore è qui, e non è schierata con le forze oscure. E ha un fratello a battersi con lei. Un fratello! Le nostre più disperate preghiere sono state esaudite. Il mondo non è ancora perduto e ha ancora speranza di salvarsi. Voi siete quindi destinati a battervi contro le tenebre. Che siate i benvenuti, il poco che possiamo offrirvi vi è offerto in letizia».

Hania a sua volta fissò in nano a lungo ed ebbe bisogno di tempo per capire il senso delle parole, tanto erano follemente inaspettate, incredibilmente insolite: qualcuno l’aveva riconosciuta e non la temeva, anzi l’accoglieva con gioia.

Ebbe un’impressione di qualcosa di noto, poi si ricordò la torre delle cicogne.

La sensazione era la stessa: un luogo che sembrava aspro e invece era dolcissimo, che sembrava desolato e invece conteneva una forza arcaica che sapeva che una guerra era in corso e anche quali fossero gli schieramenti.

«Vi accogliamo. E vi proteggeremo, per quello che ci è possibile. La vostra identità deve essere celata anche all’interno di questo luogo. Ammalarsi è una disgrazia che può portare, come unica alternativa alla disperazione, verso la saggezza, ma questo non significa che tutti gli abitanti di queste grotte siano in grado di capire chi voi siate e la vostra importanza per l’equilibrio del mondo. Spiegheremo che siete una guaritrice, sono certo che questa qualifica vi appartenga e che non la farete sfigurare, anzi le darete lustro e luce. Il nostro è un luogo di purezza e se così non fosse sarebbe un luogo di orrore. La lebbra è una malattia lunga, che a tutti dà il tempo di trovare la strada per la saggezza, che a volte passa per la dannazione. È una strada dalle spire contorte, e numerosi sono coloro che devono percorrerle tutte prima di arrivare. Ma il dono che si trova alla fine della malattia è straordinario e dobbiamo perdere la nostra forza per ottenerlo. Fino a quando la nostra forza, il godere di salda salute, il potere delle armi e degli averi ci distraggono, non riusciamo a guardare il nucleo centrale della spirale, ma queste sono parole, e sono troppe».

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Il lebbrosario era un mondo di silenzio dove si parlava pochissimo e non ci si toccava mai. Hania pensò che avrebbe potuto essere il suo luogo ideale. La bruttezza dei lebbrosi non la infastidiva. In effetti, lo sapeva, lei aveva un senso del bello molto elementare. Qualsiasi discostarsi dalla naturale simmetria del volto umano o delle mani, deviazione che sconvolgeva tutte le altre persone, erano per lei linee interessanti, come potevano essere interessanti le circonvoluzioni di una radice o le macchie di un sasso. In più le piaghe erano spesso luogo di mosche, e le iridescenze delle loro ali l’avevano da sempre affascinata, come l’affascinavano i movimenti sinuosi delle loro larve.

L’identificarsi con l’orrore di quella carne che marciva da viva allontanava tutti gli altri, mentre la sua completa assenza di compassione istintiva la rendeva capace di vivere in mezzo a quelle mostruosità senza il minimo fastidio. I lebbrosi le furono tutti sempre infinitamente grati per quel suo non provare ripugnanza, senza capire che si trattava in realtà di assoluta indifferenza alle loro sofferenze. La sua calma contagiò anche Rois, che invece risolse il ribrezzo e l’orrore con il sistema opposto, riuscendo a vedere l’uomo e la donna o il bambino, non il lembo di carne in agonia, non le mosche.

Hania cominciò a sentirsi sempre più a suo agio in quel mondo fatto di tufo bianco calcinato dal sole che nascondeva minuscole forre umide, dove correvano piccoli rivoli di acqua pulita, il cui rumore accompagnava il passo degli uomini; erano ricoperte di cespugli di capperi e ginestre, che in primavera riuscivano a fiorire riempiendo il verde di fucsia e di giallo.

Su tutto, si alzavano le silenziose rocce verticali con sopra arcane rovine, archi spezzati, antichi bassorilievi, che si potevano scorgere solo dopo che si era superato il cerchio interno di protezione. Quel paesaggio che alternava il bianco del tufo al verde delle ginestre e dei capperi, le ricordava la settima torre che chiudeva a sud il Regno delle Sette Cime.

La morbidezza rosa del tufo permetteva da sempre all’acqua dei ruscelli e alla forza degli uomini di scavarla. Millennio dopo millennio era stata scolpita dall’acqua e dal vento in un’architettura di torri e muraglie, vicoli, piazzole, arcate e caverne. Miriadi di caverne, un’infinità di grotte, uno sterminato numero di tane, che erano state ampliate dalla forza dei picconi e dei badili, collegate, munite di nicchie, prese d’aria.

L’interno dei pinnacoli era stato svuotato così da formare stanze che si aprivano all’esterno con delle finestre fatte di tufo traforato, che sembravano una via di mezzo tra le celle delle api e un pezzo di trina. Canali scavati portavano l’acqua pulita direttamente dai torrenti fino a vasche realizzate nel tufo all’ingresso delle grotte, solchi di scarico la portavano via una volta usata. Ciclopiche cisterne assicuravano contro la siccità. Generazione dopo generazione erano stati aggiunti bassorilievi, altorilievi, colonne, capitelli scolpiti con animali e fiori reali e fantastici.

Ovunque regnava la capra, regina degli orizzonti vuoti, sovrana delle terre aride. Le capre erano di tutti e di nessuno. Fornivano carne, pelli con cui si facevano i giacigli, l’osso per i piccoli utensili e soprattutto il latte con cui i neonati potevano essere nutriti, quando una madre non era sopravvissuta alla nascita del suo bambino oppure se era troppo malata per allattarlo.

I neonati, sempre, nascevano sani e il loro pianto si univa al cinguettio dei passeri e al tubare delle tortore, e portava un istante di gioia in quel mondo di morte.

Poi, sempre, restavano sani, contravvenendo alla regola che chiunque viva in un lebbrosario, prima o poi si ammala.

Quando le sere erano miti, venivano accesi falò, e al suono di tamburelli, flauti, mandolini e viole, accompagnati da canti che, sempre, parlavano del fato, cominciavano danze complesse, giocate su coreografie che includevano rotazioni attorno ai fuochi, piroette e zig zag, creando una doppia armonia, il movimento dei corpi e il disegno prodotto dalle orme. Quando il buio calava completamente e le orme diventavano invisibili, le danze venivano fatte tenendo torce in mano; in alcune erano le dame che tenevano i fuochi, in altre i cavalieri, in altre ancora c’era un passaggio tra gli uni e le altre.

Quella che si raggiungeva, allora, era l’armonia data dal movimento delle torce nel buio. Non c’era alcun contatto tra i corpi. A volte una torcia cadeva, tenuta da mani a cui le dita mancavano, e l’abilità consisteva nell’andare avanti lo stesso, senza rompere il disegno. Dall’alto della sua grotta, Hania e Rois guardavano sempre più affascinati. Capirono che uno dei numerosi sistemi con cui l’ordine veniva mantenuto era il timore, per chi volesse violarlo, di poter essere esclusi dalle danze.

Il fato ci ha guidato ad essere qui,

una mano che è stata severa o forse amabile,

perché il nostro canto si rivolga al cielo e al mare,

alle terre emerse e a quelle infere

per riunire la loro voce nella lode.

E se visto da fuori il lebbrosario poteva dare l’idea dell’ultimo dei luoghi da cui si alzassero lodi, eppure una volta che ci si avvicinava alla sua sofferenza si vedeva come fosse intrecciata con la gioia.

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Hania esercitò la sua arte di guaritrice. Le piaceva, era estremamente divertente cercare di capire tra tutte le possibili quale era la cura più idonea, era una specie di indovinello, come trovare la maniera più veloce di fare scacco al re. Di notte, quando tutto era silenzio e il cielo stellato brillava implacabile sulla terra arida Hania correva a piedi nudi perché la sua mente e il suo corpo trovassero le erbe velenose e quelle benefiche, che spesso erano le stesse, ma usate in diverse proporzioni, e soprattutto la radice di mandragora, la regina di tutte le pozioni, la principessa di ogni cura che avesse una qualche logica e non fosse solo un qualche inutile intruglio, buono per i creduloni e gli incauti.

Nelle sue sterminate conoscenze, Hania aveva anche l’arte cerusica, l’arte di tagliare il corpo per togliere parti malate o ricucire ferite, che era in effetti una delle attività più divertenti che mai avesse incontrato sul suo cammino. Occorreva levare i tessuti morti lasciando intatti quelli ancora vivi, e facendo sanguinare il meno possibile. Hania arruolò anche il fratello nell’impresa, non sembrandole bello non coinvolgerlo nel divertimento.

Con grandi disegni fatti sulla sabbia gli spiegò anche il concetto di arteria, vena, tendine, quello che bisognava lasciare il più possibile intatto, inviolato.

Rois, paziente, imparò.