La sera stessa, nascoste dal buio di una notte, le vele dei pirati giunsero fino alla città costiera, e si scatenò l’inferno. Erano tante come mai erano state, non due o tre come d’abitudine, ma una sterminata invincibile flotta.
Hania e Rois avevano lasciato il lebbrosario da un giorno, erano ancora sull’altopiano. Dal punto in cui erano non potevano né vedere la cosa, né udire le grida disperate.
L’arrivo notturno, a luci spente, fece sì che la città fosse interamente presa. Questa volta non ci fu la lunga fiumana di profughi ad arrampicarsi sulla montagna dell’Aria Grigia per mettersi in salvo.
Furono i folletti che vennero a stuoli, a nugoli, fin da loro a raccontare con pianti e stridore di denti l’orrore che stava succedendo, a chiedere soccorso, a chiedere conto anche delle promesse di aiuto passate.
Hania confermò a se stessa che il momento di andarsene era arrivato. I folletti li avrebbero seguiti per un po’, poi se ne sarebbero tornati alle loro tane e lei ne se sarebbe liberata.
Tra l’altro, finalmente aveva capito a cosa doveva il suo nome la montagna dell’Aria Grigia, sulla quale mai aveva visto neanche un velo di nebbia: quando i folletti tutti insieme gli svolazzavano sopra, davano l’impressione di un velo che ingrigiva il colore stesso della luce.
«Dobbiamo fare qualcosa» disse Rois. «La piccola è al sicuro. Madama Tara è al sicuro. Ora possiamo andare a fare qualcosa» insisté Rois.
Certo: andarsene. Quelli non erano affari loro e comunque non c’era niente che loro due potessero fare salvo, appunto, andarsene. L’ultima cosa che dovevano fare era scendere a Geno, avrebbe solo aumentato di due unità il numero delle vittime. Non era il caso, pareva ce ne fossero già in abbondanza, di tutte le forme e dimensioni e ammazzate secondo tutti i sistemi, quelli tradizionali e quelli più nuovi.
La bambina era al sicuro. Madama Tara l’avrebbe tenuta come la pupilla dei suoi occhi, l’avrebbe accudita con letizia, attenzione e pazienza e Hania si era liberata del problema. Non doveva badare alla piccola e nemmeno continuare lo sforzo, perché sempre uno sforzo era, di resistere alla tentazione di prenderla a calci. Due piccioni con una fava, due gabbiani con lo stesso pesciolino, due sciami di tafani con lo stesso cadavere, due mosche con lo stesso sbudellato, si sarebbe potuto dire. Ora doveva solo scappare insieme a Rois e tenersi lontana dai guai.
La vita si era improvvisamente semplificata e, data la sua tendenza a complicarsi in continuazione, Hania ci avrebbe messo tutta la buona volontà possibile per tenerla sul semplice: un po’ di caccia, un po’ di pesca, magari un orticello per tenerci due filari di qualche cosa, un pollaio che non doveva mai mancare nella vita di nessuno, perché il pollaio era l’essenza stessa del valore della vita e produceva uova. Tutto era opinabile e discutibile al mondo, ma non il pollaio, apogeo della civiltà umana.
Hania avrebbe contribuito alla sopravvivenza di Rois, figlio di Haxen e Dartred, nipote del mitico re Ari, e il suo tributo al mondo e alla sua famiglia finiva lì.
Il mondo si era perduto, e pazienza. Lei non era in grado di ritrovarlo. Evidentemente perdersi, per il mondo, era destino e niente si può contro il fato, dicevano le canzoni dei lebbrosi. Evidentemente erano vere.
Bisognava andare a nord, perché il Regno delle Sette Cime era l’ultimo posto dove ci si aspettava che loro andassero. E poi, a sud c’erano i pirati, a est e ovest regni terrificanti di terrificanti barbari, e quindi la direzione era obbligata: superare la capitale e ficcarsi in mezzo alle montagne più alte, in compagnia delle marmotte e delle tigri bianche, se c’erano ancora.
Tra un giro nell’orto e un giro nel pollaio, avrebbero praticato la nobile arte della caccia: avrebbero mangiato le marmotte e conquistato le pelli delle tigri. Se non ce ne erano più, pazienza, avrebbero fatto a meno sia delle marmotte che delle tigri, avrebbero ripiegato su scoiattoli e cinghiali, e si sarebbero accontentati, come sempre si accontentavano i saggi, anche perché prendere a calci la vita quando questa aveva deciso di dare poco non serviva a migliorare.
«Certo, tu ed io. Ci siamo solo noi due. Tu sei una strega, no? È perché tu sei una strega che tutti ci stanno cercando, è perché tu sei una strega che mio padre e mia madre sono stati uccisi. Tra l’altro, il piano qual è? Scappiamo, scappiamo e poi scappiamo? L’oscurità è dappertutto, sempre più fitta e atroce, e solo uno stolto può pensare di potersi nascondere per sempre. Ovunque andiamo, prima o poi arriveranno anche quelli che ci cercano, perché dietro di loro e dentro di loro c’è l’oscurità, l’oscurità è ovunque. Dobbiamo combatterla. Mio padre lo aveva detto» disse ancora Rois.
Parlava lentamente, scegliendo le parole, bisognava riconoscere che aveva un linguaggio notevole per un moccioso della sua età, frutto della parola di sua madre e forse anche della mente di sua sorella.
Hania era rimasta molto seccata dall’uso della parola “stolto”. I ruoli erano chiari, lei era il genio e suo fratello l’anatroccolo, e che questo rapporto potesse essere invertito, o anche solo violato era impensabile.
I due non avevano mai litigato, ma c’era sempre una prima volta nella vita, e anche quella poteva essere un’attività interessante. Hania fu sul punto di dire a Rois che suo padre era figlio di un fabbro e si era fatto ammazzare come un micio neonato, una delle morti più stupidamente prevedibili che si ricordassero nella sciagurata storia di quella loro ridicola famiglia, ma le sue mani non si mossero, e il suo pensiero restò dentro di lei senza arrivare al fratello. C’erano infiniti concetti che nell’ossuto e stringato linguaggio dei segni non avevano potuto trovare un’acconcia presentazione, essendo il numero di possibilità offerto dal solo movimento di dieci dita, e infinitamente più piccolo e limitato di quello permesso dall’intreccio e dalla danza di ventuno lettere.
Restò in silenzio, e restò in silenzio anche la frustrazione per quelle parole non dette e per la sua incapacità a pronunciarle.
Avrebbe potuto riassumere: “tuo padre è uno stupido e infatti è morto da stupido”. Però c’era due volte la parola “stupido”, era inelegante, e poi la parola “stupido” si faceva divaricando nella mano sinistra il mignolo e l’anulare da un lato mentre il medio e l’indice andavano dall’altro, un movimento faticoso che non le veniva bene.
Hania sospirò. Non aveva voglia di dire che Dartred era stato uno stupido. Tra tutte le persone che aveva incrociato, a parte Rois, era quella a cui era stata più legata. Non era suo padre, ma era il padre di Rois, ed era verosimile che se gli avesse detto che suo padre era uno stupido, il fratello si sarebbe rattristato ancora di più di quanto non fosse, e quando si rattristava molto diventava legnoso e noioso. E poi la parola esatta non era “stupido”, ma “malaccorto”, per la quale non avevano mai concordato un segno. Le parole non potevano essere sostituite a casaccio l’una con l’altra.
Rois continuava a parlare. Quelli dotati di parola, bisognava riconoscerlo, la usavano. Forse avevano paura che le parole si sarebbero rinsecchite come le acque di un ruscello in estate, se mai fossero rimasti in silenzio lasciando alla gente, e in particolare a lei, il tempo per riflettere, o anche solo per stare in pace.
Rois parlava e parlava. Era un bravo bambino, certo, sicuramente c’era di peggio al mondo, però parlava. Tanto.
Averlo per fratello era stato più semplice quando a condividere il continuo cicaleccio della sua conversazione erano stati in tanti, Haxen, Dartred, qualche vicino di casa, i gabbiani e la cicogna, cui anche, a volte, Rois parlava. Ora c’era solo lei. Lei era una creatura del silenzio, come un pesce lo era dell’acqua. Avrebbe dovuto essere evidente, intuitivo che né lei, né i pesci potevano stare a lungo fuori dall’elemento naturale senza averne danno.
Lei si stava danneggiando, con quella vocetta piagnucolosa che continuava a ronzare come le mosche sui cadaveri, in particolare quelli dove c’era da qualche parte sangue raggrumato, e lei, potendo scegliere, avrebbe di gran lunga preferito le mosche.
«Hania, sorella, sei una strega, sei la figlia dell’Oscuro Signore, Padrone delle Tenebre e della Sconfitta e del Dolore. Mio padre e mia madre sono morti per questo, per opporsi all’Oscuro e per il terrore in tutti generato dai tuoi poteri. Qualcuno di questi maledetti poteri, adesso, lo puoi tirare fuori e fare qualcosa? Sai aprire i lucchetti e sai dare ordini ai pesci e agli uccelli, e anche ai topi, le vespe, gli scarafaggi. Attacchiamo i pirati. Dai ordine e tutti di attaccare, gli uccelli gli caveranno gli occhi, i pesci salteranno sui pontili e li faranno scivolare. Noi apriamo i lucchetti e liberiamo tutti» piagnucolò Rois.
«Perché?» le mani di Hania lo interruppero con quella domanda. «I tutti che andiamo a liberare avrebbero ammazzato tua madre, se l’avessero scoperta, e avrebbero ammazzato me. E anche te. E Roa» concluse furiosa. «Non posso inviare i sorci, gli scarafaggi, i pesci e i gabbiani a vincere la guerra per me. È quello che mio padre aspetta, che io mi manifesti per intervenire, per scatenarmi contro tutti i suoi poteri, che sono immensi, mentre i miei sono robetta. Io sposto i topi, lui sposta gli eserciti. Ci faremo ammazzare. Per chi? Per cosa?»
«E cosa cambia anche se restiamo vivi?» Rois era un ostinato. Rois non mollava, non mollava mai. «Vivere scappando sempre a cosa serve? E poi sono persone. Non è colpa loro se pensavano male di noi, se hanno creduto che siamo noi il nemico, sono stati ingannati. Il Signore Oscuro è il signore degli inganni. È lui che ha ucciso mio padre e mia madre, è lui che ucciderà me, è lui che ucciderà te. Tanto vale che moriamo combattendo. Siamo comunque i Principi delle Sette Cime, siamo l’ultimo Cavaliere rimasto al mondo. Prima o poi ci troverà. Prima o poi dovrai fare una di quelle cose strane che sai fare solo tu e lui ci troverà. Una volta lo hai battuto, nostra madre me lo ha raccontato, è per quello che lei era viva. Non so come tu abbia fatto, nemmeno nostra madre aveva mai compreso cosa era esattamente successo, ci deve essere stato un dialogo tra voi che lei non poteva udire, ma quello di cui era certa è che tu lo hai disorientato, lo hai fatto sentire stupido. Il suo potere diminuisce o aumenta a seconda di come gli vanno le cose. Tu lo puoi fermare. Ecco, sì… se sente l’umiliazione, allora il suo potere si scolorisce, si ammoscia, si perde. Non so cosa sia successo, ma so che c’è stato un momento, la mamma me lo aveva raccontato, in cui era talmente abbacchiato da sembrare morto. Hania, tu lo hai quasi ammazzato. Ed eri una bambina piccola. Hania, lui ha ucciso mio padre e nostra madre. Erano mio padre e mia madre: se non vuoi farlo per loro, fallo per me. Laggiù i pirati hanno ucciso gli uomini e hanno preso le donne e i bambini. Dobbiamo andare. Ci siamo solo noi. Hania, fermalo. Hania, ti prego, combattiamo».
Hania stava pensando.
Per la prima volta da anni era di nuovo fortissimo dentro di lei il ricordo dell’antica memoria, di quando aveva confuso suo padre e il potere oscuro si era spampanato come i soffioni sotto la brezza di maggio.
Se ne era dimenticata quasi.
Le parole del fratello avevano smesso di scivolare sul suo mondo di silenzio come acqua su un sasso, e avevano cominciato a penetrarvi.
Di Haxen, Rois aveva sempre parlato come “la mamma” o “mia madre”. Solo una volta aveva detto “nostra madre”. In teoria Haxen era anche madre sua, era ben grazie a quello che lei era Hania delle Sette Cime. Anche se nella sua testa Haxen non era mai stata sua madre, lei l’aveva sempre pensata chiamandola con il suo nome, Haxen, o con epiteti non troppo complimentosi, che andavano da “la scema” a “sua altezza l’oca”.
Non c’era mai stata, non avrebbe mai potuto esserci tra loro la complicità assoluta che aveva legato Haxen e Rois e soprattutto Haxen e Roa. Loro, Rois e Roa, erano i veri figli di Haxen, i bambini che lei aveva concepito nel suo ventre congiungendosi all’uomo che amava. E il rapporto era ancora più speciale con Roa, perché Roa era femmina, come Haxen. Roa non era stata costretta a vestirsi da maschio e lei una bambola l’aveva avuta. C’era qualcosa, nel modo in cui Haxen aveva guardato Rois e Roa, che mai c’era stato, né mai avrebbe potuto esserci, nel modo in cui guardava lei. Era stato quello che l’aveva riempita di furia.
Hania aveva usato le parole “mia madre”, nel famoso dialogo in cui aveva messo in ginocchio l’Oscuro.
Era stato quello che le aveva dato potenza?
Il riconoscere il legame con Haxen, in effetti, spezzava quello con suo padre. Era logico.
Hania si era dimenticata. La mente faceva cose stupide, dimenticava. Aveva dimenticato sua madre.
“Madre” ripeté la parola nella sua testa. “Madre. Mia madre”.
«Mamma» cercò di dire col movimento muto delle labbra e, sia pure a stento, ci riuscì.
«Tieni» disse Rois allungando la mano verso di lei.
Sopra il palmo c’era una grossa pietra verde, legata con un filo d’oro.
«Me l’ha data il nano. Lui sa che l’Oscuro esiste. Lui dice che può essere battuto. L’unica che può fermarlo sei tu. Mi ha detto di darti questo. Ha detto che tu puoi cadere, ma che sei l’unica speranza che abbiamo, l’ultima speranza che abbiamo. In effetti da quando hai dato la tua pietra a Madama Tara, sei diventata ancora più piena di ombra di come ti hanno resa i folletti. Mio padre mi ha detto che un pezzo di questa pietra era dentro la sua ascia e dentro la spada della mamma. Ora abbiamo perso anche quelle armi. Però abbiamo ancora questo».
Hania prese la pietra. Il ricordo di quando aveva combattuto per sua madre e aveva sconfitto suo padre divenne nitido e forte. Per anni se ne era come dimenticata.
Hania era stordita dalla propria stupidità, dall’enormità delle sue dimenticanze. Aveva riconosciuto Haxen come madre, poi se n’era dimenticata. Era rimasta con lei e Dartred tanto per stare con qualcuno, ma aveva rinnegato il legame dentro di sé ed era scivolata lontano.
La pietra verde del popolo dei nani le aveva ridato forza, ma l’aveva donata e di nuovo il mondo aveva ricominciato riempirsi di grigio e sporco. L’idea di dipendere da un sasso, da mezza ciotola di Acqua Sacra, la esasperava. Voleva negarlo, era umiliante, eppure era così. Anche l’idea di essere scivolata nel buio per il peso dei folletti, era irritante. Lei era lei, al di sopra di tutto. E invece no: nata dall’ombra e protesa verso la luce, lei era dannatamente fragile, aveva bisogno di aiuto. Da sola non poteva farcela. Era insultante, ma era la realtà.
La pietra era importante. Era materia: qualcosa che suo padre l’Oscuro disprezzava. Suo padre era uno spirito, la realtà tangibile non era in grado di crearla, e quindi la trovava risibile. I nani, che erano legati alla vita, alla potenza di ogni stelo d’erba che nasceva, alla bellezza di ogni ciottolo, sapevano che la forza passava di lì, e avevano cercato la materia che ne conteneva di più, e ad essa avevano aggiunto la loro potenza, la loro tenerissima magia fatta del colore del vento sulle colline, delle vigne e dei campi di grano appena spuntato, dei gelsi, del fieno.
Lei era Hania nata dalle tenebre. Quella pietra conteneva il verde che alla sua anima mancava.