Hania continuava a stringere la pietra. E il mondo cambiò. Cambiò la sensazione del cielo, quella dell’odore della terra, cambiò la percezione di Rois di fianco a lei che tornò di nuovo a essere suo fratello e non più un utile scudiero.
“Fratello”. La parola la stordì per la sua potenza.
Gli incantesimi esistevano, e passavano dalla materia. L’Acqua Sacra, la pietra verde contenevano incantesimi che contrastavano l’oscurità e le tenebre.
Fu come un ritorno a casa, fu come quando il sole esce da dietro una nuvola, fu come uscire da un posto fetido e trovarsi su un molo. Lei era stata a casa sulla cima della settima torre e nel lebbrosario: quelli erano due luoghi talmente ricchi di potenza benefica che lì la sua piccola anima era riuscita e crescere.
A Geno, impregnata di oscurità, la sua anima era rimpicciolita, era diventata un vermetto che sgattaiolava tra le rocce dell’indifferenza, del fastidio, della nausea di tutto e di tutti. In fondo, un’anticipazione della morte.
Hania strinse la pietra con tutte le sue forze. Il mondo riprendeva colore e dolore. Fu come uscire da un guscio di qualcosa di duro e opaco.
«Hania» le disse ancora Rois. «Ha detto il nano che ci vuole un orco per fermare un orco, ci vogliono le tenebre per fermare le tenebre, e solo tu ci puoi riuscire. Questa pietra non funziona con quelli che sono completamente persi, funziona con quelli che hanno già dentro un seme, e il seme diventa un albero».
Certo: solo lei, figlia di Haxen con un’anima dimezzata ma ostinata, avrebbe seguito le orme di sua madre, battersi, battersi sempre, anche quando la battaglia sembrava persa, quando tutto sembrava inutile.
«Madre» ripeterono le sue labbra a lungo.
Haxen era morta. Era stata uccisa. Non l’avrebbe più rivista.
Quelle parole le risuonarono nella testa come se fosse stata la prima volta che le sentiva.
Ripensò alla sua storia. Madre. La parola continuò a risuonare. Haxen. Madre. Il tuo odore, il colore dei tuoi capelli. Mai più. Si sedette per terra con la faccia tra le mani, la pietra contro la guancia calda, mentre la pietra era fresca. Madre. Haxen. Mai più.
Finalmente arrivò il dolore. Sua madre era stata uccisa. Attirata in una trappola atroce, dove era caduta perché un cavaliere non avrebbe avuto altra strada, sua madre era stata uccisa.
Il suo sposo era stato ucciso con lei.
I due cavalieri, gli ultimi due. Gli unici due, erano stati abbattuti.
Lei aveva perso sua madre e l’unico maestro che mai avrebbe potuto avere.
Finalmente l’enormità di quello che era successo arrivò alla sua anima che stava rinascendo e che fu travolta dal dolore, fu travolta dal rimpianto. La morte della cicogna l’aveva sconvolta più di quella di Haxen perché era scivolata sempre di più nel baratro, nell’oscurità il cui primo gradino era l’indifferenza per Haxen.
Lei era morta. Non ci sarebbe più stata.
Non l’aveva nemmeno salutata. Era rimasta a guardarla mentre se ne andava, annoiata dal pianto di Roa e preoccupata che la sua spada andasse smarrita. In un certo senso era stata lei, consigliando il viaggio della cicogna, a spingere Haxen verso la sua morte. Hania rivide il primo viaggio della cicogna, lo cercò nella memoria e lo riguardò, lentamente, fermandosi su tutti i particolari, tutti gli impiccati, tutti i muri e le travi bruciate, tutte le grandi scritte che dichiaravano come gli uccisi inneggiassero alla principessa Haxen. Le scritte, se ne accorse finalmente, erano tutte rivolte verso l’alto.
Il suo fratello oscuro sapeva delle cicogne, le avevano sterminate da tempo nel Regno delle Sette Cime. Eppure la cicogna, nel suo penultimo volo, fatto senza nessun ordine preciso di prudenza e precauzione, aveva volato senza alcun danno, ed era ritornata per portare le notizie che avrebbero poi condotto alla morte sua madre.
Era tornata senza il segno di nessuna freccia, ma era improvvisamente invecchiata, la sua forza era scomparsa, le sue piume candide erano diventate grigie. Come se un incantesimo l’avesse colpita.
Suo fratello aveva teso la trappola e lei ci era caduta. Lei, Hania, il genio, quella che sapeva tutto, era diventata la pedina di un gioco atroce che aveva annientato Haxen e Dartred. E aveva mandato la mamma a morire, la sua mamma, sua madre. La madre di Rois. La madre della piccola Roa, che ora viveva in un villaggio polveroso affidata a una vecchia triste, lei che era la bambina di Haxen e di Datred. Hania rivide il faccino della bimba nella sua mente, si accorse di quanto somigliasse ad Haxen. La rivide con la sua piccola bambola tra le mani, che era tutto quello che le restava di sua madre.
Rincantucciata con la faccia tra le mani, con la pietra contro la guancia, Hania sentì la furia e la collera montare dentro di lei. La pietas filiale non era il suo forte, il dolore per la morte altrui lo conosceva da poco, la collera le veniva benissimo. La collera era la sua vocazione, la sua passione, era il suo regno.
Lacrime di dolore e collera le scesero sulle guance e bagnarono la pietra. Le lacrime ugualmente la stordirono e la stupirono perché erano le prime che versava e non aveva mai saputo di esserne capace. Continuò a ripetere i due nomi, Haxen e Dartred e di nuovo arrivò il dolore, enorme, il dolore di un figlio la cui madre è stata assassinata mentre compiva un gesto eroico. E la collera ingigantì. Divenne infinita.
Avevano ammazzato Dartred e Haxen.
Li avrebbe fatti a pezzi o sarebbe morta nel tentativo.
Avrebbe cominciato dai pirati. Tanto per addestrarsi, e tanto per essere sicura. Se dopo aver sterminato Geno si fossero arrampicati nel monte, avrebbero incontrato i due villaggi e in quello che non era protetto dalla paura del contagio c’era Roa.
Hania non era stata capace di amarla, ameno l’avrebbe protetta.
I pirati li avrebbe fatti a pezzi o sarebbe morta nel tentativo e se non moriva nel tentativo sarebbe stato un grazioso allenamento per fare a pezzi quelli che sarebbero venuti dopo: coloro che avevano assassinato sua madre e il suo sposo.
Sentì una gioia feroce di stare al mondo, vide l’azzurro del cielo e il bianco dei gabbiani come fosse stata la prima volta, sentì l’odore dell’aria. E, insieme, sentì lontano e terribile il pianto delle donne nella città martirizzata. Si asciugò le lacrime e si alzò sempre stringendo la pietra tra le mani: era più grande di quella che aveva avuto, con iridescenze dorate all’interno, che arrivavano fino a increspare la superficie.
Annuì.
«Andiamo?» chiese Rois contento.
Hania annuì di nuovo.
Andavano.
In fondo il moccioso aveva ragione, era molto meglio morire per qualche cosa che vivere per niente, trascinandosi da un nascondiglio all’altro. E suo padre, Dartred il guerriero, non era poi stato così malaccorto: probabilmente lo aveva saputo che andava verso la morte, semplicemente era una di quelle cose che non si potevano non fare.
Non avevano potuto fare a meno di cercare di soccorrere la regina come non avevano potuto ammazzare lei. Faceva parte di quella decenza minima al di sotto della quale il suo oscuro padre avrebbe vinto la guerra.
E invece l’avrebbe persa.
Bisognava riconoscere che Rois somigliava a suo padre, con il coraggio di morire per qualche cosa.
E comunque non era neanche detto che sarebbero morti. In effetti, non era poi così probabile. Il dolore, la collera, il ricordo di sua madre stavano centuplicando i suoi poteri.
Hania ascoltò ancora il suono flebile e lontanissimo del lamento delle donne e sentì la sua già smisurata collera ingigantirsi.
Una collera infinita.
Aveva tutti i suoi poteri, tutti quelli che aveva il giorno che aveva sconfitto suo padre. Era di nuovo in grado di spostare le cose, aprire chiavistelli, rendere qualcosa incandescente, o gelido. Si chiese se ci fosse l’abitudine, tra i pirati, di fare testamento, nel caso non fossero più tornati alle loro casette, perché lei era Hania, figlia delle tenebre ed erede del Regno delle Sette Cime, e i pirati che l’avessero incontrata sulla sua strada non lo avrebbero più potuto raccontare a nessuno.
Hania si fermò: si tolse dalla tasca la pietra verde, la sganciò dalla catenella d’oro che la teneva e restò a guardarla, a lungo e con attenzione.
Quando la guardava rivedeva il viso di Haxen, lo rivedeva nella sua mente, non nella pietra, ma lo rivedeva con precisione, come se si fossero appena lasciate, e per qualche momento rivedeva anche il faccino tondo di Roa, forse perché somigliava alla mamma, forse perché, incredibilmente, cominciava a mancarle.
Quando la incontrava per casa, la piccolina le sorrideva, non era niente di personale, sorrideva a tutti, avrebbe sorriso anche a un cinghiale se per caso ne avessero avuto uno per casa. Comunque, quel sorriso era carino, a volte le mancava.
Osservando la pietra con attenzione, si rese conto che l’oro al suo interno aveva una forma precisa: divideva la pietra in due descrivendo una circonferenza.
La posò con precauzione su una roccia dura, poi prese un grosso sasso e la colpì, con tutta la forza che aveva.
A Rois scappò un grido soffocato.
Hania, per qualche istante, rise. La pietra si era spaccata perfettamente in due. Il velo d’oro costituiva la parte piatta di ognuna delle due metà, che erano perfette e simmetriche.
Hania ne tenne una stretta nel pugno e dette l’altra al fratello.
«Sento i tuoi pensieri» disse Rois.
«Bene» rispose lei nella sua mente. «Mentre combattiamo contro i malvagi o litighiamo con gli imbecilli perché smettano di essere imbecilli e ci diano una mano, non possiamo fare gesti con le mani. Tu devi essere la mia voce, e devi essere una voce potente, perché adesso andiamo a fare una guerra e guideremo degli uomini verso la morte. Alcuni uomini moriranno al nostro comando e uccideranno al nostro comando. Siamo, tu e io insieme, l’ultimo cavaliere che è rimasto a un mondo disperato».
«O teniamo in mano questo o teniamo in mano una spada» obiettò lui.
I maschi erano interessanti, ma a volte anche un po’ stupidi: brave persone, magari, come Rois o Dartred, ma c’era sempre un pezzetto di senso pratico che mancava. Hania si strappò un pezzo di manica, la strappò in due così da farne due bende, con cui legò il frammento di cuore del mondo alla sua mano destra e a quella del fratello. Al momento di impugnare una spada, l’arma sarebbe stata a contatto a sua volta con quello speciale amuleto. Non avrebbe avuto la forza delle lame di Dartred e di Haxen, ma sarebbe comunque stata potente.
«Abbiamo un piano?» si informò Rois.
«Andiamo a liberare le donne e facciamo a pezzi tutti quelli che ci sbarrano la strada» rispose lei.
«Abbiamo un piano di riserva, nel caso qualcosa non andasse bene con questo?» chiese ancora Rois dubbioso.
«Non ne abbiamo bisogno. Questo andrà benissimo» lo rassicurò Hania.
Si girò verso di lui, lo guardò, si chinò al suolo e posò le due mani per terra, poi si alzò. Lentamente un minuscolo alberello nacque dal suolo e sulla sua sommità, tondo e rosso, si formò un melograno. Hania lo colse e lo porse al fratello, che lo fissò felice.
«Mamma me lo aveva raccontato, io non ci potevo credere. Allora è vero! Allora i tuoi poteri non sono sempre uguali, possono essere enormi o piccoli!»
Hania annuì. Come le onde del mare, qualcosa che poteva abbattere un veliero o essere un’increspatura di mezzo pollice. E quelli che avevano sempre visto il mare come un’increspatura di mezzo pollice, quando poi si trovavano in mezzo alle tempeste si guardavano attorno stupiti, chiedendo come era potuto succedere che quelle ondette così piccole e buffe fossero diventate una potenza terrificante e mortale.
Scesero verso Geno correndo. Arrivarono alla città che era quasi il tramonto.
Sul mare calmo e grigio galleggiavano i cadaveri. Sarebbe stata una festa per i dentici e i tonni, e da lì a qualche mese sarebbero aumentati i gamberi. Innumerevoli navi con le vele nere stavano attraccate ai moli come pasciute e tronfie creature di morte. Il nero delle loro vele si fondeva con il nero dei drappi di Geno, così che la luce del tramonto ne fosse macchiata, il suo riflesso sul mare infangato.
Questa volta era un’invasione. I pirati avevano creato una trappola. Le pendici del monte erano pattugliate.
I pirati erano troppi.
Non era la solita scorribanda, sembrava fossero venuti a occupare Geno per sempre, ma era un’idea bizzarra e Hania la lasciò in sospeso.
Lei e Rois, con gli archi e la faretra sulle spalle, nascosti sotto i mantelli, scivolarono nelle ombre degli alberi, non visti né sentiti e finalmente arrivarono fino al cuore della città, in basso, dove c’erano i moli, con i grandi magazzini costruiti di rozzo legno di pino per stipare le merci di passaggio, e piccole costruzioni fatte di pietra e bel legno intagliato che erano invece i luoghi dove gli affari erano trattati.
Hania conosceva la topografia della città grazie alla visione serena della cicogna, e ne conosceva gli angoli più nascosti grazie alla confusa, accorata, sentimentale e ansiosa visione dei folletti.
I suoi occhi scivolavano lungo gli spigoli delle case, le linee delle facciate, per identificare i punti dove sarebbe stato possibile tendere o subire un’imboscata, gli slarghi dove si poteva radunare un gruppo di armati, le vie dritte lungo le quali una freccia poteva correre.
Tutte le case portavano i segni del saccheggio: porte divelte, muri imbrattati, cadaveri abbandonati sulla soglia. Da molti tetti usciva il fumo di piccoli incendi, che fortunatamente tra le case di pietra non si erano estesi. Solo, intatto e magnifico, resisteva il palazzo del Governatore, con il suo basso muro di cinta, da cui uscivano i rami carichi degli alberi di arancio e limone.
Sul suo tetto intatto sventolava la bandiera nera dei pirati, un drappo di un nero uniforme, come quelli che da sempre sventolavano a Geno.