Rois era terrorizzato ed euforico. Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua, e anche, in un certo senso, era la prima volta che smetteva di averne. Da sempre aveva avuto paura che prima o poi li avrebbero scoperti, da sempre era stato cauto, silenzioso. Rois aveva sempre evitato tutto, tutti, con il battito del cuore che accelerava e gli risuonava nelle orecchie quando semplicemente qualcuno guardava nella sua direzione. Ora quella paura era finita. Restava quella gigantesca di essere ammazzato, ma in qualche maniera non doveva più nascondersi come un sorcio in un buco. Avrebbe combattuto a viso aperto, come suo padre, come suo nonno, come il Cavaliere di Luce, come aveva sempre sognato. Era Rois delle Sette Cime.

«Devi dire chi sono» spiegò Hania mentre camminavano. «Usa il mio nome, devono conoscere il mio potere, Sono Hania, nata dalle tenebre, nipote di sire Ari, figlia di Haxen, erede delle Sette Cime».

«Principessa delle Sette Cime?»

«No, nata dalle tenebre, nipote di sire Ari, figlia di Haxen, erede delle Sette Cime».

Per qualche istante Rois sentì il terrore aumentare, così da prevalere sul coraggio, che rimpicciolì e si acquattò come una talpa in un campo di carote.

Quel nome, Sette Cime, da sempre era stato necessario tenerlo nascosto, seppellirlo talmente in basso da essere certi che mai avrebbe potuto affiorare: era il nome del regno che aveva sconfitto Geno in guerra innumerevoli volte.

La guerra l’avevano scatenata quelli di Geno, certo, ma comunque restava un’invincibile animosità nonostante i commerci di quercia nera, e poi c’era quella faccenda dell’oscurità, con cui era meglio non vantare parentele, meno che mai dirette. Anzi, le parentele meglio negarle, anche di fronte all’evidenza più sfacciata, perché altrimenti si alzavano torce, roncole e forconi.

Gli bastarono pochi istanti, però, per rendersi conto che Hania aveva ragione, e la talpa ricominciò a crescere fino a diventare, se non proprio un lupo, almeno una faina, mentre il terrore scemava. Non potevano combattere una battaglia in due. Dovevano convincere gli uomini di Geno a diventare un esercito, e un esercito aveva bisogno di credere in qualcuno che avesse qualche probabilità di farcela. Un capo forte. Se non sembrava troppo buono, pazienza, anzi poteva essere un elemento a favore. Un capo temuto per la sua potenza oscura era una scelta migliore di un ragazzina muta travestita da maschio e suo fratello piccolo.

L’oscurità li teneva in pugno e sire Ari li aveva battuti due volte. Hania nata dalle tenebre, erede delle Sette Cime, era, in effetti, l’unico capo possibile.

Hania si tolse la giacca di pesante velluto indaco che portava sempre. Senza quella, anche se aveva i capelli alle spalle e le brache, si vedeva che era femmina.

Il travestimento era finito.

Hania e Rois entrarono nella città con precauzione.

Si avventurarono nelle strade dove il sangue si era raggrumato nelle pozzanghere.

La città era un pericolo. Hania era molto forte, aveva moltiplicato la sua potenza, ma anche un guerriero forte e con poteri oscuri poteva soccombere alle frecce, o all’attacco di una moltitudine, e allora il guerriero implume che gli stava al seguito, lui, Rois, sarebbe stato fatto in pezzi tanto piccoli che avrebbero potuto usarli come esca per i saraghi e le ombrine.

Simbolo di separazione paragrafi

La città era nel dolore ed era un pericolo camminare nelle sue strade.

Le sue strade erano deserte, ma ovunque si udivano pianti lontani, soffocati e difficili da localizzare. Attraccate ai moli, navi enormi con le vele nere piegate.

Tutti gli altri natanti, barchette, pescherecci, grandi navi mercantili, erano stati dati alle fiamme con metodico ordine e le loro carcasse nerastre dondolavano semiaffondate.

Lungo i moli non c’era un accidenti di nessuno, non c’erano più le donne accoccolate sulle banchine, non c’erano più gli uomini che riparavano reti.

Un silenzio cupo era rotto solo dall’ostinato sbattere di una porta dimenticata socchiusa, e da quel lontano pigolio di dolore.

Uomini armati sbucarono rumorosamente dall’ombra silenziosa e sbarrarono loro la strada: erano quattro, non particolarmente grossi, non particolarmente spaventosi, quattro facce normali, chiome biondastre, facce abbronzate, quattro persone qualsiasi che dovevano essere finite a fare il pirata forse per disattenzione e sciatteria, per una qualche scelta incauta, e sembravano fare il pirata con la stessa casualità con cui avrebbero potuto fare il contadino o il falegname.

«Ma che carini» disse quello che doveva essere il capo. «Una passerina e un moccioso. La passerina è veramente molto carina, il moccioso non è un gran che, ma crescerà. Cercavamo giusto voi, sapete? E volete sapere perché?»

Hania scosse la testa.

«Mia sorella mi incarica di comunicarvi che non è interessata a conoscere la motivazione delle vostre illustri azioni» tradusse Rois.

La battuta lasciò interdetti i quattro. Si sarebbero aspettati un po’ più di pathos, un bel po’ di terrore, una maggiore compartecipazione, qualche grido di orrore e un linguaggio un po’ più sobrio.

«Bene, io te lo dico lo stesso» sibilò con un ghigno forzato il capo dei quattro. «Siamo quelli che voi chiamate pirati. Dalle nostre parti il nostro nome è Eroi del Mare. Siamo qui per procurare schiavi. Sapete, ci sono i nostri regni che vanno costruiti, pietra su pietra, i nostri principi che vanno sollazzati. Ci servono schiavi volenterosi e passerine molto carine: voi due sembrate fatti apposta».

Rois si rasserenò. Avevano valore sul mercato degli schiavi. Quindi la freccia alle spalle diventava improbabile. L’altro vantaggio era che era gente a cui piaceva parlare. Suo padre gli aveva sempre detto, nelle sue lezioni di duello, che quando si combatte non si parla: questi non dovevano conoscere la regola. Pavoneggiarsi, fare paura doveva piacergli moltissimo, sprecavano completamente l’elemento sorpresa, concedendo a loro tutto il tempo di intuirne i punti deboli, di capire come colpire e con quanta violenza.

Hania rispose con un gesto infastidito.

Per i pirati la scena era ovviamente assurda, come era assurda la loro mancanza di paura e questo destò qualche istante di perplessità, ma a nessuno venne in mente che se erano così poco spaventati era verosimile, o almeno possibile, fossero dannatamente più forti di quello che sembravano.

«Mia sorella ringrazia per la vostra offerta, cui non è interessata, e per l’attenzione che ci avete prestato, che vi chiede di posare altrove».

«Piccola ignobile cagna…» cominciò il capo dei quattro estraendo la spada. Quale avrebbe dovuto essere il resto della frase non si seppe mai.

Hania si girò verso di lui, allungò la mano, l’allungò semplicemente di lato, e la spada che era al fianco del secondo pirata sgusciò fuori dal fodero perché l’elsa potesse finire nel suo palmo. Quello era il loro punto debole: le spade non erano trattenute da nulla. Hania la strinse e con un movimento rapidissimo trafisse il capo, lo passò da parte a parte. L’altro non fece nemmeno in tempo a usare la sua lama per parare. Boccheggiò. Crollò a terra, in ginocchio, si portò le mani alla ferita come per trattenere l’anima e il sangue che sgorgavano via, non ci riuscì e si accasciò.

«Mia sorella, Hania, erede delle Sette Cime, è stizzita con voi, oserei dire irritata» spiegò Rois. Non c’era più niente da tenere nascosto. «E questo vi condanna a morte». Tanto vale che lo sapessero. Magari avevano qualcuno cui chiedere perdono, qualcuno da ricordare.

Hania massacrò i tre rimasti, l’uno dopo l’altro. Loro erano grossi, lei era velocissima, e il suo braccio aveva la forza che le veniva dalle tenebre.

Rois sentì la nausea riempirlo e la ringhiottì. Non era il caso: erano in guerra. La guerra si faceva così. Suo padre era stato un guerriero, come suo nonno, e come sua madre. E anche lui lo sarebbe stato. La guerra si faceva così.

Hania posò la spada e strinse forte la pietra verde mentre guardava i morti. Rois capì: le serviva per restare in equilibrio, per non provare gioia davanti a quei cadaveri, non troppa almeno, non più dell’onesta contentezza che dava la vittoria, sapere che quei nemici non avrebbero più dovuto combatterli, li avevano fermati per sempre.

Hania si chinò sui morti e li disarmò, levando anche la corazza fatta di piastre di cuoio bollito legate insieme da fili di ferro ritorto luridi e arrugginiti. Erano sudicie e nauseanti già in origine, e il fatto che fossero zuppe di sangue le rendeva ancora più immonde. Hania ne infilò una, poi si girò verso di lui, e gli infilò la seconda.

Poi scelse le due spade migliori, gliene consegnò una tenendo per sé l’altra, e in quel momento giunse il pianto delle donne. Era un lamento lontano e disperato e si disperse nell’aria sudicia che si stava riempiendo di nebbia, e che di nuovo si estinse in un silenzio livido, spento da voci rabbiose. Era il palazzo del Governatore il luogo di quella prigionia. Ora era evidente.

Rois sentì la collera diventare forza. Si aggiustò le cinghie della corazza: che fosse immonda era irrilevante, poteva proteggerlo mentre combatteva per liberare loro, poteva permettergli di combattere un minuto di più, di abbattere uno di più dei loro aguzzini, così da poter liberare una di più di loro. Perché il loro pianto chiedeva giustizia, pretendeva vendetta.

Si ripeteva ossessivamente che lui era Rois, figlio di Dartred e Haxen, nipote dell’ultimo re delle Sette Cime, fratello minore di Hania, che aveva portato nella giustizia degli uomini la potenza oscura delle tenebre.

Rois strinse le mani sull’impugnatura miserabile, fatta di lacci di cuoio arrotolati su un’elsa qualsiasi per migliorarne la presa. Era cuoio sporco di sudore e di sangue e lui lo strinse con gioia perché era un’arma, era l’arma con cui avrebbe portato la giustizia in quel mondo di drappi e vele nere che penzolavano lugubri contro l’azzurro.

Hania frugò ancora nella tasche dei morti: prese monete, chiavi, una fiasca piena a metà. Tutti gli oggetti erano pieni di sangue. Lei ne era inzuppata. Come aveva spiegato suo padre nei giorni sospesi nell’azzurro del suo addestramento militare, solo gli arcieri potevano uscire puliti da un combattimento. Chiunque si battesse all’arma bianca, avrebbe portato su di sé il sangue dei nemici uccisi, una parte di loro, come un amante teneva su di sé il profumo del corpo dell’amata. La guerra era una spaventosa forma di intimità da cui era impossibile uscire puliti. Una guerra non la si faceva senza imparare un po’ di crudeltà dai crudeli, e un po’ di barbarie dai violenti.

Rois aiutò Hania a far scivolare i quattro corpi in mare, sperando che si confondessero con gli altri, così da avere il tempo di attaccare con la sorpresa dalla loro parte. Non era più né euforico, né terrorizzato. Era un cavaliere e sarebbe arrivato fino alla fine, perché questa era la regola della cavalleria.