La notte calò e fu un momento di tregua. Il lamento delle donne si era azzittito. I folletti riferirono confusamente che tra i pirati si era deciso di lasciarle in pace purché tacessero, così che i loro piagnucolii non istigassero ulteriormente i loro uomini che quindi, ora, venivano percepiti come nemici e non come prede.

Dall’alto, la città fradicia era scura e cupa e nessun fuoco acceso sembrava in attesa. Il vento soffiava gelido sotto stelle enormi.

Molto prima dell’alba Hania e Rois radunarono i combattenti ancora euforici per la vittoria.

«È tutto fradicio, non possono stanarci incendiando il bosco, ma più aspettiamo più loro si riorganizzano. Attacchiamo ora. Scivoliamo in silenzio, nel buio, e cerchiamo di arrivare al centro della città, al palazzo del Governatore, è lì che hanno spostato i prigionieri, le donne i bambini, quelli che diventeranno schiavi».

Scendere fu facile e infiltrarsi nella città anche.

C’erano poche sentinelle, che Hania abbatté con una facilità assoluta prima che potessero dare l’allarme. Non li stavano aspettando.

L’abitudine alla loro vigliaccheria, la consuetudine a saperli imbelli, aveva fatto sì che ancora non si fosse decisa una reazione a quella prima battaglia vinta.

Quando furono sul molo centrale, allora, si aprirono le porte di quelli che erano stati i magazzini del legno e delle reti e i pirati uscirono.

Hania riconobbe il loro capo, lo aveva visto attraverso gli occhi dei folletti mentre comprava la città e pagava gli schiavi al Governatore. Anche se l’aria era fredda, aveva il torace e le braccia nude, interamente coperti di tatuaggi. Erano tatuaggi tridimensionali, più simili, dovendo paragonarli a qualcosa, a un altorilievo che a un affresco, perché nel disegno erano inserite scarnificazioni e cicatrici, più una serie di oggetti metallici, alcuni fatti di oro, altri di un orrendo ferro arrugginito. Creavano gli occhi e le scaglie di una specie di drago, che aveva il muso e l’occhio sulla spalla destra dell’uomo, così che le fiamme che vomitava dalla bocca erano disegnate sul braccio che teneva la spada.

Era una forma di idiozia. Per ottenere quel risultato quel tizio si era fatto male da solo, e farsi male da soli era comunque una cosa stupida. L’ABC dello stare al mondo era di farsi male il meno possibile, e lì si era addirittura sotto l’ABC. Poi Hania si rese confusamente conto che doveva avere un senso, se ne accorse dando uno sguardo veloce alla faccia di Rois, che era livida.

Quella cosa, quindi, serviva a disorientare i nemici ispirandogli una nausea profonda, o anche una strana forma di paura: un uomo che era capace di fare un simile scempio della propria pelle, avrebbe sicuramente fatto molto peggio con il corpo di coloro che avrebbero osato opporsi: che ognuno si sbizzarrisse con la fantasia.

«E voi chi accidenti dovreste essere?» chiese l’uomo, aprendo un sorriso maligno e sbilenco sui denti mancanti. «Chi pensate di essere, poveri piccoli miserabili idioti che osate opporvi a noi? Sapete quante maniere diverse ci sono per morire? Per voi avevamo messo in preventivo una morte tranquilla, praticamente indolore, lieve e veloce quanto un battito di ali. Un bel colpo di spada, una decapitazione precisa e pulita, al massimo un’impiccagione con corda lunga, di quelle che sono una delizia e si muore subito, senza restare a sgambettare, come quando la corda è poca. Ora voi avete insistito con questa idea di fare gli eroi, quindi saremo costretti a ricorrere a tutta la nostra immaginazione per vivacizzare».

L’uomo si interruppe per estrarre dalla cintura un pugnale piccolo, quasi assurdo nella sua piccolezza, la cui lama affilatissima scintillò nella luce della luna e delle torce.

«Serve per scuoiare e fare a pezzi. Piccoli pezzi. Piccoli lembi di pelle. Un po’ alla volta. Ci si può impiegare tre giorni. I pezzi li mangiamo. Ne offriamo anche a quello che stiamo facendo a pezzi. È divertente. Ci divertiremo tanto».

Hania restò ammirata da quel linguaggio. Si sarebbe aspettata qualcosa di più rozzo, di più elementare, un accento insopportabile, l’incapacità di usare i verbi. Invece era notevole, c’era anche una certa sfumatura di ironia che accentuava per contrasto l’orrore delle parti tremende. Sicuramente interessante. Quell’uomo doveva avere studiato, doveva avere appreso, e poi tutto era scivolato verso la crudeltà più assoluta, la barbarie più stolida. Si rese conto che c’entrava il tatuaggio, doveva essere uno dei simboli di suo padre, o forse una specie di porta che restava aperta perché l’oscurità passasse attraverso la pelle.

Alle sue spalle un sommesso ringhiare si mischiò ai molti gemiti di terrore. La poco eroica banda dei poco fulgidi eroi che aveva alle spalle si stava di nuovo ritraendo nel terrore, ma qualcuno era semplicemente furioso.

La collera era una bella cosa. La collera era un gioiello di emozione, l’unica che annullasse la paura. La collera diminuiva persino la percezione del dolore, che invece la paura aumentava.

Strinse il pugno sulla sua metà di pietra, e Rois ritornò calmo e forte. La sua voce era ferma quando la fece sentire. Doveva fargli paura.

Simbolo di separazione paragrafi

«Noi siamo quelli che vedranno il colore del vostro sangue, l’ultima immagine che avranno i vostri occhi prima di morire siamo noi, le nostre facce, le nostre spade. Noi siamo la vostra morte» cominciò Rois.

La teoria di suo padre, che quando si combatte si combatte e non si parla, continuava a essere valida, ma a volte, come ogni regola, necessitava di eccezioni.

Ora si stavano misurando. Faceva parte della strategia. La retorica si basava sulla ripetizione.

La parola “noi” suonava come una campana a morto, come la campana del porto quando le barche non tornavano perché il mare le aveva inghiottite. E poi quel “noi” serviva ai suoi sgangherati e indecisi seguaci, perché smettessero di essere un assembramento di singoli e diventassero fratelli in armi, come erano stati gli uomini di suo padre nel difendere il regno.

«Noi siamo la vostra morte, e ora voi ci state guardando. Siamo noi che abbiamo chiesto agli spiriti di questa città di alzare i marosi che hanno distrutto le vostre navi portando morte e distruzione, perché non possiate più fuggire alla nostra giustizia. La vostra vita finisce qui, finisce oggi, a meno che non ci consegnate le armi e non vi inginocchiate davanti a noi, ora. Subito. Questa è l’ultima alba che vedrete. Abbiamo con noi alleati invisibili e voi sarete annientati, quindi, per generosità e cavalleria, vi porgiamo l’offerta della resa. Chi si arrende sarà salvato. Gli altri non vedranno la luce di domani. Tutta la nostra ammirazione per il delizioso coltellino. Farebbe la gioia di un orefice. O di uno di quei cuochi che creano i fiori con le fette di arrosto. Noi non abbiamo nulla di così delicato. Noi vi faremo a pezzi con le asce, le stesse normali asce con cui tagliamo gli alberi per fare le porte delle case che custodiscono coloro che amiamo, la culla dei figli che non potrete più rapire, il talamo delle donne che non potrete più profanare. Con le nostre asce vi faremo a pezzi talmente piccoli che quelle stesse madri che non hanno trovato niente di meglio da fare che mettervi al mondo, non riusciranno a distinguervi dai ciccioli del minestrone. E poi vi butteremo semplicemente in mare, senza divertirci nemmeno, ma sapendo che i vostri cadaveri nutriranno i gamberi che poi faremo in guazzetto con la cipolla e il prezzemolo, così che, almeno una volta nella vita, sarete serviti a qualcosa. E lo faremo in fretta, perché non ci divertiamo. E sapete perché non ci divertiamo? Perché non siamo un branco di falliti che tutto quello che ha per divertirsi è distruggere e massacrare. Voi prendete a calci la vita perché siete dei morti che camminano. Non avete una casa, solo un veliero con le vele nere, e ora nemmeno più quello. È facile piombare di tanto in tanto come sparvieri sui nidi di tortora, molto più difficile mettere al mondo dei figli e allevarli, prendere una sola donna per rispettarla e proteggerla. Queste sono le forme di coraggio che voi non capite nemmeno. Arrendetevi e la vostra miserabile vita sarà salva».

Era stato un gran discorso. I pigolii alle spalle di Rois e Hania erano scomparsi e ora si sentiva solo un furioso ringhiare. Gli uomini guardavano in faccia i pirati, stringendo le roncole e i forconi.

Il discorso di Rois era stato geniale, ci aveva aggiunto del suo: l’accenno alle culle, ai talami, alle porte, ad Hania non sarebbe venuto in mente.

«Io mi chiamo Sasho, e le sciocchezze mi danno fastidio. Tu mi hai infastidito. Dicono che sei una strega» disse il capo dei pirati.

Hania allungò la destra, sempre bendata perché la pietra verde stesse a contatto col palmo, e il piccolo coltello schizzò via dalle mani del pirata per finire nelle sue. Poi fece un gesto con la mano davanti al suo torace.

«Lo abbiamo sentito dire anche noi. Una strega, la figlia dell’Oscuro, con poteri immensi che ora si scateneranno contro di voi» disse Rois.

Il capo perse il suo sorriso in una smorfia di dolore.

«Fermati, fermati, cosa stai facendo?» latrò pieno di dolore, mentre si strappava i pezzi di metallo che ornavano il suo tatuaggio.

«Sta aumentando il calore. Sono certo che il drago che rappresenti su di te abbia apprezzato».

«Idioti. Sappiamo che c’è una strega con voi. Non vedete che siamo pochi? Non vi siete chiesti gli altri dove sono? Sui tetti ci sono i miei arcieri. E insieme alle vostre donne e ai loro dolci bambini, quelli per cui avete fatto le culle, si sono gli altri, con le loro spade. Volete i vostri figli e le vostre donne vivi? Posate le armi, tanto la vostra strega non può proteggerli come non può proteggere voi dagli arcieri».

Onestamente, era prevedibile.

Per questo Hania lo aveva previsto.

Sapeva anche che gli archi erano pochi. Ed era ovvio sarebbero stati sui tetti: i folletti l’avevano avvertita, certo, ma ci sarebbe arrivata anche da sola. Ed era anche ovvio che avendo in mano le donne e i figli di quegli uomini li avrebbero usati per ricattarli. Peraltro avere l’aiuto dei folletti aveva dato quel colpetto di perfezione in più, la preparazione geometrica dell’attacco.

Hania aveva già appostato i suo secondo esercito. Suo padre si sarebbe reso conto di lei, pazienza, così andava il mondo, non si poteva avere tutto. Tra la segretezza e la potenza ora diventava più importante la potenza, tanto più che dopo quel primo attacco vittorioso, la segretezza era già aleatoria.

All’improvviso, insieme agli uomini si scatenarono i topi, anzi le regine dei topi, le pantegane. Geno ne era piena.

Uscirono a migliaia a mordere e a far inciampare. Nugoli di gabbiani si abbatterono valorosamente sugli arcieri sui tetti, incuranti dei colpi di spada e di ascia che li lasciavano agonizzanti sui moli. Persino i pesci saltarono fuori dalle onde impazzite, per collaborare alla battaglia con i loro corpi viscidi che facevano scivolare.

Il pezzo forte furono i calabroni. Nessuno, nemmeno il guerriero più pieno di coraggio poteva resistere ai calabroni, nemmeno Sasho che pure combatteva incurante delle molte scaglie infuocate del suo drago. A Geno di calabroni ce n’erano tanti, i loro nidi si trovavano tra le travi dei moli, in basso, o sotto le tegole, in alto, nascosti nei comignoli delle case di pietra, sotto i pavimenti delle palafitte. I calabroni percepivano i folletti, ed eseguirono giudiziosamente l’ordine di seguirli. I folletti protessero le madri che li avevano rifiutati e i fratellini che avevano avuto la possibilità di vivere. Nugoli di calabroni tennero in scacco i pirati il tempo necessario ai padri e ai mariti di arrivare. Hania restò con Rois e pochi altri a ripulire i moli.

Simbolo di separazione paragrafi

Ultimo rimase Sasho con il suo orrendo tatuaggio, che non era stato toccato dai calabroni. Le scaglie del drago lo avevano protetto. L’uomo sapeva combattere, sembrava avere una forza infinita, sopportava con noncuranza le ferite, l’impressione era che il suo drago si muovesse da solo, che avesse una vita propria.

Rollo il falegname lo affrontò con la sua ascia, e fu abbattuto, crollò nel suo sangue. Rois arrivò con la sua spada. Rois era un bambino, Sasho era enorme. Hania doveva intervenire. Sollevò la spada, ma non riuscì nemmeno a finire il gesto. Qualcosa le tratteneva il polso: la cicatrice, il marchio a forma di meteora era diventata pesantissima. Cosa stava succedendo?

Finalmente Hania capì. Come il marchio, anche il drago veniva dall’oscurità. Sasho continuava a combattere invincibile e invulnerabile perché le scaglie del drago lo avevano protetto. Il drago era vivo. Hania poteva combattere e anche uccidere, ma davanti a un’emanazione diretta dell’oscurità doveva fermarsi.

Il marchio sul suo polso eseguiva gli ordini del drago. Anche Sasho quindi era figlio dell’oscuro, oppure aveva stretto con lui un patto talmente atroce da avere diritto a una magia più potente della sua.

Da sempre Hania teneva il polso destro nascosto sotto qualcosa, una manica molto stretta, una fascia. Da anni non guadava se non di rado il marchio che portava sul polso, ma ora lo sentì vivo e maligno, un incantesimo fuso con il suo corpo, fratello di quello del drago.

La sua volontà allora fu di chiudere la gola dell’uomo perché soffocasse, ma si infranse contro l’impossibilità: il drago proteggeva l’uomo anche da quello.

«Non posso muovermi» riuscì dire, perché Rois sentisse la sua mente. «Scappa, mettiti al sicuro, non lo affrontare!»

«Non temere Hania!» urlò Rois. «Io sono un cavaliere!»

Lui forse era anche un cavaliere, ma, nel caso, era un soldo di cacio di cavaliere. L’altro era un bestione, sapeva combattere e c’era qualcosa di malefico in quel tatuaggio che aumentava la sua forza e il suo odio, e gli permetteva di non sentire le ferite. Il vento soffiava furioso sulla battaglia folle.

Sasho scoppiò a ridere. Avanzò verso Rois, che indietreggiò, con decisione, ma non c’era nessuna paura nei suoi occhi.

«Ora non hai più la tua sorellina strega ad aiutarti! Che bambino coraggioso, sei proprio un ometto, sai! Quella baldracca che ti ha messo al mondo sarà proprio fiera di te! Adesso creperai, io sono grosso e tu sei piccolo» rise il pirata.

Mentre lui parlava Rois aveva avuto il tempo di sganciare con un movimento rapidissimo l’arco che aveva sulla schiena e incoccare la freccia tolta dalla faretra con un movimento altrettanto rapido.

La freccia partì e colpì l’occhio del drago, che era sulla spalla del pirata, ma l’uomo sbiancò e perse tutta la sua forza, e si lasciò cadere in ginocchio. Rois scoccò la sua seconda freccia, questa volta al cuore dell'uomo.

«Io sono Rois, figlio di Dartred e nipote di Ari, io sono piccolo e tu grosso, ma io ho un arco, mentre tu non hai la corazza» rispose Rois serenamente, mentre l’altro crollava al suolo. «Io sono intelligente e tu sei stupido».

Lo disse dopo averlo ucciso. Quando si combatteva si combatteva. Le chiacchiere, dopo.

Un urlo di gioia si alzò dalla città. Avevano vinto.

«Hai usato tutti i tuoi poteri» disse Rois ad Hania, riuscendo a sovrastare con la sua voce i clamore che li circondava. «Ora tuo padre saprà dove sei. Saprà dove sei e saprà che stai combattendo».

Hania annuì. Il tempo del nascondino era finito. Ora cominciava il tempo della guerra.

Si avvicinò a un braciere che qualcuno aveva acceso sul molo per arrostirci qualche pesce così da festeggiare la vittoria.

Si levò la fascia che le copriva il polso destro e guardò il marchio. Sembrava scolorito e rimpicciolito. Sembrava scontento e deluso.

Hania non si era mai resa conto del fatto che, quando il marchio a volte diventava più grosso e più scuro, la sua mente era bloccata. C’erano pensieri che non aveva mai avuto semplicemente perché incantesimi avevano paralizzato la sua mente alla nascita. Come l’odio per sua madre, oppure la stolida indifferenza con cui aveva guardato giorno dopo giorno il suo polso, senza aver mai capito che era un marchio, il segno di un legame.

Prese l’affilatissimo coltello che aveva sottratto a Sasho, lo passò sul fuoco perché si purificasse del dolore innocente che aveva portato, poi lo consegnò a suo fratello.

«Non toccare i tendini» raccomandò.

Rois era livido. Aveva le labbra strette per la determinazione e la nausea. Annuì. Suo fratello, sempre, capiva a volo. Prese il coltello tra le mani e poi incise il polso di Hania.

Il dolore fu terribile. Il marchio si risvegliò, pieno di terrore. I tentacoli, si mossero, strinsero la presa. Rois non si fermò. Fece scivolare la lama orizzontalmente, sotto la pelle, così da levare solo il lembo di pelle con il marchio, come aveva fatto con quelli infetti dei lebbrosi.

Il polso di Hania era sangue e dolore, la sua mente era sangue e dolore, eppure anche così sentì la presa scomparire. Una presa che conosceva da sempre, di cui non si era nemmeno resa conto. Un presa quieta, discreta, che saltava fuori al momento opportuno, per impedirle di battersi contro Sasho per esempio.

Il sangue sgorgò a impregnare il terreno, e con lui Hania sentì scivolare via tutta la sua forza e la vita stessa. Lei era per metà ombra: forse l’ombra, nel lasciarla, l’avrebbe uccisa.

Sentì le gambe che le si piegavano, il respiro cominciò a mancarle.

Si lasciò cadere a terra.

Il dolore aumentò.

Non riuscì a pensare più a nulla.

Rois aveva con se mandragora e arnica, riuscì a fare un bendaggio e vi mise dentro le due metà della pietra verde, contro la ferita.

Lentamente, lentissimamente, il dolore cominciò a scemare. Il sangue alla fine si arrestò.

Hania era ancora viva.

La pietra verde sulla ferita. La freccia nell’occhio del drago. Rois arrivava dove lei non riusciva ad arrivare.

Davanti all’oscurità, la mente di Hania rallentava, quella di Rois trovava la strada, una strada ovvia, a pensarci, che però a lei sfuggiva.

Insieme diventavano invincibili.

Il frammento della sua pelle finì nel fuoco. Il marchio si contrasse furioso e finalmente bruciò, mentre un fumo nerastro si alzò ad appestare il cielo, fino a quando la brezza lo disperse.