Ardo era il comandante della Brigata del Sud, soldato onesto e valoroso, finito a difesa di una frontiera tranquilla e polverosa. Nell’armata del Regno delle Sette Cime aveva arruolato il figlio, un bimbetto di soli cinque anni, il soldato più giovane mai visto e mai sentito. Il piccolo si chiamava Gartred, ma era un nome troppo lungo per un soldino di cacio, così fu riassunto in Gari.

Ardo non aveva trovato niente di meglio da fare, dopo la morte della moglie, che tirarsi dietro il bambino fino al Castello dell’Acqua Perduta, la vecchia costruzione che ospitava i soldati di guardia alla frontiera meridionale: torri smozzicate e muri diroccati, sotto un sole accecante che infuocava gli elmi e spossava gli animi.

Gari era il figlio unico di un matrimonio tranquillo e tardivo, un’unione creata dalla saggezza della sensale che aveva messo insieme un uomo e una donna giunti entrambi a un’imbarazzante età matura senza che nessun altro li avesse mai voluti.

Un anno prima della nascita di Gari, la sensale si era presentata al Castello dell’Acqua Perduta, aveva chiesto del comandante e aveva dichiarato che non se ne sarebbe andata fino a che non lo avesse incontrato. Era una delle ultime rappresentanti del popolo dei nani: la sua età si perdeva in un intrico di rughe in mezzo alle quali i suoi occhi chiarissimi brillavano di azzurro e di verde. Si diceva che appartenessero alla sua gente conoscenze arcane e inquietanti, e fu anche per quello che nessuno osò cacciarla e che lei alla fine arrivò fino ad Ardo.

«Ho una zitellina che non è male» propose quando finalmente ce l’ebbe davanti. «Una pastorella, una crea­tura perbene».

La sensale era una minuscola figura avvolta in veli grigi, con ai polsi dei braccialetti fatti di campanellini e le movenze e la leggerezza di un passero, ma una voce penetrante e ostinata che risuonò decisa nella stanzetta spoglia.

«Io non ho intenzione di prendere moglie» rispose asciutto lui, mentre si chiedeva come accidenti era riuscita quella donnetta a convincere le guardie alla porta a farla passare.

«È una fesseria» gli spiegò con cortesia la sensale. «Tutti gli uomini devono avere una moglie. Nessuno deve stare solo. Essere in due è meglio così se uno cade l’altro lo aiuta a rialzarsi».

«Il mio compito è qui. La mia casa anche» replicò secco, nascondendo nella severità che quelle parole avevano risvegliato il desiderio, mai veramente sopito, di una vita meno ossuta.

«Voi ve ne state qui a fare l’eroe e lei ne se resta a casa sua a guardare le pecore, che mica le può lasciare sole, povere bestiole. Ogni tanto vi incontrate. A ogni luna voi vi levate la corazza, se no le pecore si spaventano e non fanno più latte, e andate a trovare la vostra sposa. Sarà un matrimonio fatto di giorni sparsi, sono quelli che vanno meglio, la lontananza per uno sposalizio è la situazione ideale: è più difficile avere alterchi, l’altro sembra sempre migliore quando è distante».

«Io sono stato ferito» disse alla fine il comandante imbarazzato. Aveva perso il braccio sinistro nella Guerra dei Due Inverni quindici anni prima. E poi zoppicava. Era per quello che non aveva mai osato offrirsi a una donna. E poi, anno dopo anno, l’idea era diventata sempre più difficile.

«Ferito non è la parola. Ferito è quando si perde sangue ma poi l’uomo c’è ancora tutto. Voi vi siete perso dei pezzi per strada. È più che ferito» corresse la soave megera. «Però avete una buona paga. E poi che un uomo si sia perso i pezzi in battaglia non gli toglie molto. Comunque sono venuta a dirvi che ho una zitellina, non una fanciulla in fiore. Se non ve la prendete voi, non se la prende nessuno. Non è giovane ma un figlio o due ve li potrebbe ancora dare. La volete?»

Il comandante era stato certo fino al mattino che sarebbe vissuto solo e sarebbe morto senza figli. Restò a lungo a fissare quella strana creatura che gli si era materializzata davanti in un turbinio di veli grigi e campanelli a parlargli di una donna e di una casa. Fino a poche ore prima tutto quello era fuori dai suoi pensieri, ma a ogni istante che passava gli sembrava più irrinunciabile. Si rese vagamente conto che il rumore dei campanellini aveva qualcosa di affascinante, forse quasi di ipnotico, e che erano un elemento importante nell’arte logica della vecchissima piccola signora.

«In fondo perché no?» insisté ancora la sensale.

«Già, perché no?» mormorò lui.

La minuscola signora sorrise.

«Sono quattro monete d’argento» comunicò giuliva.

«Quattro monete d’argento? Quaranta soldi? È una follia. È fuori discussione. Ci impiego un anno per guadagnarli. Perché diavolo dovrei dare a voi quattro monete d’argento? Basta che vada al villaggio e mi cerchi una zitellina con tre pecore e posso risparmiare anche i cinque soldi, che onestamente vi avrei anche dato per pagarvi il disturbo di arrivare fin qui».

Ci fu un vero tripudio di risatine e scampanellii in risposta. Al comandante non sembrava di avere detto niente di così esilarante.

«Si paga l’idea. Se io non avessi avuto questa idea, avreste continuato a vivere una vita piena di nulla, perché dove un uomo non incontra una donna è il nulla. Prima o poi voi morirete, e quando si muore quello che fa la differenza è chi piangerà la nostra morte. Quando ve ne andrete, grazie a me lo farete lasciando una progenie. Questo darà senso alla vostra morte, quindi darà valore alla vostra vita. Quel giorno, vi assicuro, sarete felice di queste quattro monete d’argento. Quando paghiamo caro qualcosa che non ha prezzo, abbiamo comunque fatto un affare. Dovete avere una sposa e una discendenza. Quando l’Oscuro Signore attaccherà di nuovo non dobbiamo farci trovare soli».

«Che l’Oscuro esista è una superstizione di vecchie signore» obiettò il comandante.

«Io sono una vecchia signora, molto vecchia, più di tutti gli alberi che avete mai incontrato sulla vostra strada. La mia memoria è più antica della loro. Non vi fate illusioni. L’Oscuro esiste. Attaccherà. Ha cercato di prenderci con la forza e ha fallito. Ora userà altro. Ve ne accorgerete. Quando il fratello tradirà il fratello, quando lo sguardo dell’amico diventerà obliquo, allora saprete che il lupo è dentro l’ovile. Quando l’Oscuro attaccherà, sarete felice di queste quattro monete d’argento».

«Sarò felice anche se saranno solo due, e anche così sarà stato dannatamente caro» riuscì finalmente a dire il comandante.

La vecchia signora non mollò, le monete furono quattro e finalmente l’affare si concluse.

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Il matrimonio fu celebrato in un’assoluta semplicità. Nella piccola casa, la più modesta di uno sperduto villaggio di pastori punteggiato di ovili, un quieto imbarazzo restò sempre tra i due coniugi, inevitabilmente diluito dalle assenze del comandante per l’inutile pattugliamento di una frontiera polverosa e assonnata.

Fu solo dopo la morte della sua sposa che l’uomo si rese conto dell’infinita voragine che quella presenza timida aveva lasciato. Gli mancò lo schivo sorriso con cui lei metteva in tavola un delizioso stufato di chiocciole e panna acida di cui deteneva la ricetta, l’impacciata dolcezza della loro intimità, il suono delle buffe fiabe con cui lei addormentava il loro bambino.

Un giorno era tornato alla piccola casa con la bisaccia piena di piccoli doni, fave, noci, un telo di lino azzurro da trasformare in una nuova veste, e aveva trovato ad accoglierlo i veli neri del lutto, il singhiozzare disperato di suo figlio, le annoiate condoglianze del capo villaggio e dei pochi vicini.

È nel deserto che si comprende il valore dell’acqua e, in quel deserto che era diventato improvvisamente la sua vita, lui decise di non ripetere l’errore di vivere lontano da chi amava senza averlo sempre sotto gli occhi.

La febbre gli aveva portato via la sposa mentre era distratto e distante. Non avrebbe mai più allontanato Gari dal suo sguardo: lo avrebbe tenuto sempre con sé.

Sprangò la casa, vendette le poche pecore e il piccolo ovile e spiegò agli attoniti sottoposti e ai lontani superiori che il bambino avrebbe fatto parte della guarnigione: si trattava di una scelta obbligata, non essendoci vicine, sorelle o cognate a cui affidarlo. Assicurò che in quel mare di nulla che era il loro dimenticato e oscuro ufficio, Gari non avrebbe infastidito nessuno, né corso alcun rischio, non avrebbe spostato di un pollice la vita dei militari.

Su questo si sbagliò. La presenza del bimbo fu un improvviso alito di brezza primaverile, una scintilla di vivacità che riportò il fuoco. Evitò l’abbrutimento che la noia e l’inutilità seminano nell’animo degli uomini quando il loro naturale istinto a costruire e a fare si impolvera.

Gari giunse alla guarnigione accompagnato dal padre, con alle spalle la morte della madre e una vita corta e quieta nella casa più modesta di un modesto villaggio di una modesta contrada, dove l’unica compagnia e l’unica ricchezza erano modesti ovili di pecore.

Non avendone mai visti altri, i soldati gli sembrarono un gioiello di ordine, le loro arrugginite armi il paradigma della potenza, le povere corazze fatte di piastre di cuoio bollito tenute insieme con tendini di pecora un esempio di bellezza geometrica e di incastro. Le sbracate uniformi erano comunque più belle, più grandiose, più somiglianti le une alle altre degli stracci dei paesani, le spuntate alabarde più epiche dei forconi, i due smunti cavalli infinitamente più grandi e maestosi delle pecore, e persino dell’unico asino che c’era al villaggio, che era stato la bestia più grossa che Gari avesse mai visto. Per quanto ammaccato, era pur sempre un castello il posto dove quello splendore si manifestava.

«Siete di una splendida magnificenza» osò sussurrare quando per la prima volta li vide, dopo averli osservati a lungo, con la bocca semi aperta, gli occhi sbarrati per la meraviglia, con un’ammirazione totale.

Quell’unica frase fece il miracolo che generazioni di comandanti non avevano nemmeno osato sognare, che uno stillicidio ininterrotto di rimbrotti e punizioni non avevano nemmeno iniziato.

Lo sguardo incantato del bambino aiutò l’annoiata guarnigione a riscoprire il decoro. Tutti gli inutili guardiani di una frontiera in pace si sentirono improvvisamente investiti del compito del buon esempio, che infranse il tedio. Perché l’ammirazione non fosse immeritata, cominciarono a essere più attivi. Inevitabilmente scoprirono come il fare fosse in fondo più divertente del non fare e la ricerca della perfezione più appassionante della resa alla sciatteria, essendo l’animo umano portato a perdersi nell’inutilità e a ritrovarsi nella capacità di modificare il mondo.

Il vecchio castello fu riscattato dalla ruggine, sovrana assoluta e invincibile, che aveva lentamente e inesorabilmente invaso le alabarde, le spade, i cardini delle porte, e le loro anime di guerrieri. In effetti, anche se lo avevano scordato, tutti loro avevano avuto un’anima di guerriero, una scintilla di eroismo che aveva brillato il giorno in cui avevano deciso di prendere le armi, insieme ad altre considerazioni, certo, la necessità del soldo, la sicurezza del rancio. La ruggine quindi cominciò a indietreggiare e perse una guerra che ormai considerava vinta per sempre: fu cacciata dalle alabarde, dai cardini, dalle spade, e dai cuori.

Mostrarsi al ragazzo come lui li aveva visti in quel primo istante divenne la nuova natura. Gli acciai furono lucidati, gli ottoni pure, il pavimento spazzato con una incredibile regolarità e commovente accuratezza. Il necessario addestramento del bambino impegnò tutti gli uomini che così tennero lucida, come gli ottoni e gli acciai, anche la loro capacità di sorreggere la spada.

Le lezioni di tiro con l’arco rimpolparono il rancio, con bisce, sorci e conigli selvatici. L’addestramento con l’ascia riempì il cortile di ordinate cataste di legna tagliata con puntigliosa regolarità. Dopo il duello e il corpo, a corpo si passò alle regole del perlustrare e quindi allo studio della strategia: quali erano i punti dove nascondere gli uomini per un agguato in caso di attacco, in quali punti il terreno era troppo molle per sopportare carri e cavalli, quali passi potevano essere chiusi causando una frana.

Il compito della brigata era proteggere da sud l’accesso alla Porta del Cielo, il passo da cui si accedeva alla valle tonda come una scodella che costituiva il piccolo Regno delle Sette Cime. Le montagne si stagliavano a nord, nei giorni limpidi si riusciva anche a vedere il loro magnifico color verde, che sovrastava il giallo polveroso della loro piana. Dopo di loro, ancora appartenente al regno, c’era un deserto punteggiato da torri di roccia scavate dal vento, interrotto solo da una striscia verdissima, la Valle degli Zampilli, dove l’acqua scorreva in abbondanza, talmente buona che la superstizione del popolino affermava avesse capacità benefiche contro le potenze del male, e che guarisse anche piccoli malanni, come i calli, il mal di denti e i sogni cattivi.

«Superstizione del popolino un accidente. Se non eravamo scemi, ce ne procuravamo un po’ di quella roba e ce la tenevamo qui al castello, che non si sa mai» bofonchiava Baio, il vicecomandante, l’uomo più anziano della brigata, parlando piano per evitare il sarcasmo.

E dopo la strategia, Gari apprese la cavalleria. Gli uomini, tutti, spiegarono che si combatteva con lealtà, si combatteva per salvare il regno, per salvare le donne e i bambini, che erano l’onore del mondo, l’onore del guerriero. Gari veniva da un villaggio di pastori, quindi parlarono di pecore perché capisse: il Regno delle Sette Cime era l’ovile, loro i cani da pastore e i lupi si sperava non venissero mai, nel caso loro li avrebbero fermati, come già il passato li avevano fermati, come sempre li avrebbero fermati. Avevano fermato i lupi quando erano arrivati da tutte le parti, al tempo di re Ari, e quando il re era morto lasciandoli soli, avevano combattuto la guerra detta dei Due Inverni.

«Eravamo al comando del re Mago, il padre di re Ari, e di nuovo abbiamo vinto. Io non ero qui. Ero al nord, con Baio, dove sulle montagne abbiamo fermato le orde dei barbari. Erano enormi. Con la spada non li fermavi, ci voleva un’ascia. Il mio comandante si chiamava Dartred, era un grande comandante, per questo ti ho chiamato Gartred. La tua mamma lo ha accorciato in Gari. Mi hanno mandato qui dopo che ho perso un braccio e mi sono azzoppato. Per tenere un’ascia ci vogliono due mani. Qui la guerra era più mite, di braccia ne poteva bastare una. Baio mi ha accompagnato perché dovevo appoggiarmi a qualcuno, da solo non ce l’avrei fatta» spiegò Ardo al bambino che lo guardava felice e pieno di adorazione per quelle confidenze magnifiche.

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La piccola guarnigione rimase forte e compatta, attenta e sveglia. Gari divenne un soldato, piccolo ma perfetto. L’unico suo difetto era la mancanza di difetti. Non aveva avuto coetanei commilitoni, non aveva dovuto subire ingiustizie: non aveva sviluppato nessun tipo di ironia, non aveva la protezione del sarcasmo. La sua mente era piena di un’idea di perfezione assoluta: nessun ordine poteva essere sbagliato, nessun dubbio poteva essere concesso. Restavano solo, come unica strada alla felicità dell’uomo, la serenità dell’obbedienza e la letizia del compiere il proprio dovere.

Il mondo era bello, la vita era facile. Bastava eseguire gli ordini e farlo al meglio.

L’attesa di un nemico divenne quasi spasmodica. In un certo senso era una delusione per Gari che nessuna prova al suo eroismo si presentasse. I racconti di suo padre e di Baio sugli episodi della guerra che quasi due lustri prima aveva insanguinato il mondo, si arricchivano ogni volta che venivano narrati particolari nuovi, che si incastravano con tutte le altre storie, quelle che gli uomini più giovani avevano sentito dai padri e dai nonni. In tutto quel raccontare, aggiungere, smussare e infiocchettare, ingigantire, inventare, la Brigata del Sud agli ordini del vecchio re Mago che inchiodava gli eserciti invasori alla Porta del Cielo, il passo da cui si accedeva al piccolo regno, divenne un’epopea fantastica, una sorta di poema epico inarrivabile, una nuvola di eroismo fatta di oro e valore. Gari sognava solo il momento in cui avrebbe potuto combattere. Prese l’abitudine ogni giorno, ben prima dell’alba, alle primissime luci dell’aurora, di arrampicarsi sul pennone dello stendardo che si alzava sulla torre per scrutare, il cuore gonfio di speranza, l’eventuale presenza di un qualsiasi pericolo, ma l’orizzonte rimase ottusamente vuoto, privo di ogni tipo di nemico. Suo padre e gli altri uomini non condivisero mai la sua delusione, e gli spiegarono che, se il regno era un ovile e loro ne erano i cani da pastore, le pecore stavano meglio se nessun lupo era nei paraggi. Convinsero la sua mente, ma il suo cuore di bambino, che in realtà non aveva mai visto un morto ammazzato in vita sua, restava a fantasticare delle armate che lui avrebbe fermato.

Tutto il tempo libero Gari lo impegnò nel tiro con l’arco: era l’unica attività guerresca dove poteva esercitarsi da solo, oltre ad essere l’unica che rimpolpasse la zuppa. Anno dopo anno divenne un arciere sempre più bravo, in grado di calcolare il vento e sottrarlo, e sempre più forte, in grado di non perdere precisione nella distanza. Tutta la guarnigione cominciò a essere fiera di lui.

Poi, tutta la serenità si infranse un’infernale notte durante la quale meteore rossastre solcarono il cielo, riempiendo il cuore di chi aveva osato guardarle di tale orrore e dolore, che la morte sembrava una liberazione. Come sempre Gari si svegliò all’aurora per scrutare l’orizzonte nella speranza di un qualche pericolo imminente, ma non riuscì a raggiungere il tetto. Suo padre lo fermò nel cortile e lo strinse a sé, coprendogli gli occhi con le mani perché non guardasse, ma lui ugualmente riuscì per qualche istante a scorgere uno di quegli strani astri nella loro luce ripugnante, che per sempre rimase impresso nella sua memoria. Capì che un incantesimo tragico e mostruoso stava avvolgendo il piccolo regno: erano sotto attacco e non potevano fare nulla. Baio disse di nuovo che sarebbe stata una bella cosa avere un fiasco di Acqua Sacra, e la sua voce si perse in un silenzio attonito. Gari sentì il cuore che si vuotava di ogni gioia, della speranza stessa di poterne avere, come quando era morta la mamma.

I giorni successivi tutti sperarono che una qualche parola arrivasse a rassicurare e spiegare, a dare un senso, ma il cuore del regno, la capitale, restò a lungo chiuso e muto. Poi, finalmente, si presentò un messo con una pergamena fermata da un sigillo color oro, quello delle comunicazioni reali.

C’erano una notizia cattiva, il re Mago era morto, e una notizia buona: ora il sovrano regnante era la principessa Haxen, la figlia del re Ari, che tutti sapevano bellissima, piena di onore e coraggio, splendida di dolcezza e cavalleria. Gari sentì il suo cuore riempirsi di amore per lei, che divenne nella sua mente il simbolo di tutto quello che al mondo aveva un valore, l’amore di sua madre, il profumo del vento sulle colline, il belare degli agnellini, lo splendore dell’aurora: tutto si riassunse nel suo amore per lei che era il suo comandante e il suo sovrano. Per lei avrebbe potuto dare la vita ogni istante, senza il minimo rimpianto, anzi con la felicità che la sua esistenza non avrebbe potuto avere conclusione migliore.

La vita riprese. Ogni tanto sull’orizzonte immobile appariva un messo reale con una pergamena, sempre con il sigillo, ma sempre giallastro color ocra, un colore smorto e stinto. Uno chiedeva di diradare la carne nel rancio per risparmiare qualcosa. Un altro ordinava di portare i cavalli a brucare, così da non dover più acquistare il fieno. L’impressione fu che il regno si stesse impoverendo, si stesse muovendo con lentezza e decisione verso una miseria stagnante e grigiastra, o forse erano loro, la Brigata del Sud, a non essere considerati abbastanza importanti da spenderci qualcosa. Poi a lungo non arrivò più nulla, l’orizzonte restò vuoto e alla fine, il giorno del settimo compleanno di Gari, finalmente, comparve un messo con una pergamena col sigillo rosso, come il sangue degli eroi: ordini militari.

Il momento della guerra era arrivato.

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Gari fissò a lungo quel sigillo, senza poter distogliere lo sguardo, fino a quando suo padre non lo ruppe per poter srotolare la pergamena. Forse avrebbe potuto combattere per la principessa Haxen, difenderla da ogni nemico, morire per lei. Giurò sulla memoria di sua madre che lo avrebbe fatto.

Di fronte alla brigata radunata nel piccolo cortile lindo come il cielo d’estate, il comandante lesse il lunghissimo dispaccio, dopo averne rotto il sigillo scarlatto, con una voce sempre più disperata e allibita.

Nemmeno nei sogni più assurdi, quelli che si fanno prima dell’alba, dove nulla ha un senso e tutto è angoscia, ogni realtà è ribaltata e ogni legge di natura negata, come in uno specchio rovesciato dove il bianco diventa nero e il nero bianco, c’era mai stato niente di così folle.

La notte delle meteore un demone aveva violato la principessa Haxen. E lei, che era stata la speranza del regno, l’erede dell’onore e del coraggio, ne era impazzita. La sua mente si era dispersa nel male e aveva rifiutato la necessità ovvia di sopprimere la figlia demoniaca. Quindi ora gli ordini erano fermare la principessa, trovare la bambina e ucciderla.

Quando la voce del comandante si azzittì, restarono le mosche a riempire il lunghissimo silenzio sulla terra scaldata dal sole. Gari aveva la bocca arida, gli occhi asciutti perché un soldato non piange, ma l’anima era lacerata e vuota come il giorno che era morta sua madre. I lupi dovevano venire da fuori e lui avrebbe versato il suo sangue per fermarli. E invece no. I lupi erano dentro l’ovile, travestiti da agnelli.

Qualsiasi cosa succedesse, dovevano salvare i bambini. Qualsiasi cosa succedesse dovevano salvare la principessa. Questo era stato l’oro di eroismo e fede e lealtà che da sempre era su di loro. L’orizzonte aveva smesso di essere immobile, un messo era comparso, con un sigillo color del sangue e tutto si era infranto.

Per la seconda volta Gari vide crollare il suo mondo. La morte di sua madre era stata la prima, ma la cavalleria era riuscita a riempire il vuoto terribile della sua mancanza. Quel giorno era morta la cavalleria, la sua unica ragione di vita.

Sentì suo padre dare gli ordini, dove mettere le sentinelle, come fare i pattugliamenti. Non per eserciti nemici, non per fermare l’invasione, ma contro la principessa del suo popolo e la sua bambina.

«Non sembra un compito difficile» disse alla fine il comandante.

Difficile forse no. Orribile.

Per evitare che si sbagliassero, magari non per colpa loro, solo perché non erano abbastanza, la Brigata del Sud sarebbe stata unita a quella dell’Est, ben più numerosa, inglobata in questa, agli ordini del suo comandante, tale Kinnik.

Il padre di Gari si fermò dopo aver letto queste righe, perché sia lui che i suoi uomini avessero il tempo di capirne il significato: il comando della difesa del sud non apparteneva più a lui, sarebbe stato uno dei tanti ufficiali.

Lentamente, sillabando quasi, lesse gli ultimi avvertimenti.

La piccola era bellissima, dimostrava più anni di quelli che aveva, il complice della principessa si chiamava Dartred ed era già stato catturato. Su quel nome, Dartred, la sua voce inciampò proprio, si fermò, ricominciò di nuovo e finalmente riuscì a pronunciarlo in maniera completa.

Baio era dietro a Gari, in fondo al cortile, il più vecchio e il più giovane uno di fianco all’altro.

«Che idiozia!» mormorò. «Io e tuo padre con questo Dartred ci abbiamo fatto la guerra al nord, te l’abbiamo raccontato mille volte. Se non era per lui eravamo tutti morti e se eravamo morti noi vuol dire che anche il regno era finito nello schifo».