Hania era confusa: c’era qualcosa che non andava, ed era qualcosa di dannatamente grosso, qualcosa che non funzionava, e il non funzionamento stava rischiando di portarli al baratro, con la precisione di una botte che rotola lungo un pendio.

Fortunatamente conosceva il sotterraneo, topi e scarafaggi gliene avevano rivelato la pianta e le porte fino all’ultimo particolare, e conosceva la città, gatti e piccioni l’avevano colta con i loro occhi per offrirgliela: il loro intelletto si apriva docile davanti al suo. Hania si muoveva come il capo di uno sterminato esercito di minuscoli micidiali guerrieri e finalmente furono fuori dalla dannata città di Kaam. La mente di Hania, sconvolta dalla fatica fino alla paralisi, riprese lucidità.

C’era un punto a loro favore: nessuno li stava ancora cercando. Gli armigeri che lei e sua madre avevano rinchiuso erano ancora prigionieri. Il resto della città era in allarme per una donna di stirpe regale con una bimba di circa un anno, che ne dimostrava di più: tutti pensavano che potesse dimostrare un anno e mezzo, forse due. Loro erano una qualsiasi famiglia di pezzenti: padre pezzente, madre pezzente e pezzente bimba che ora dimostrava quattro anni, o forse cinque.

Bastava restare calmi, sereni, tranquilli. Una qualsiasi famigliola di deliziosi straccioni: li avrebbero guardati senza vederli. Le vesti di tutti erano immonde. Haxen e Hania puzzavano di sterco di capra, Dartred di sterco umano: questo creava una situazione omogenea, ed era un pregio, erano le dissonanze che attiravano l’attenzione. Inoltre, tutti giravano la faccia per non sentire il loro odore. Il giorno in cui avesse deciso di scrivere un testo di strategia o anche solo di sopravvivenza, Hania si sarebbe ricordata di raccomandare un odore nauseabondo quando si voleva evitare lo sguardo altrui. Gli occhi erano d’abitudine di fianco al naso: se si distoglieva l’uno, si distoglievano inevitabilmente anche gli altri.

Era stato tutto troppo difficile, e Dartred aveva qualcosa di livido, di spezzato. Certo, essere massacrati di botte in un sotterraneo non migliorava il carattere, ma il guerriero avrebbe dovuto provare uno straccio di contentezza, esprimere un barlume di gratitudine.

Scivolarono fuori passando attraverso i carri dei contadini che andavano a vendere cavoli e uova nella città e, quando finalmente si udirono i corni di allarme nella città, loro erano già distanti, nascosti in uno dei pochi boschi di quella regione arida. Finalmente si fermarono. Fu un momento meno commosso di quanto ci si sarebbe aspettati. Se fossero riusciti a puzzare un po’ meno forse Haxen e Dartred si sarebbero abbracciati. Così come stavano le cose, non fu nemmeno da prendere in considerazione. Ma non era solo la puzza a dividerli.

«Hania si è scontrata con suo padre, l’Oscuro Signore del mondo delle tenebre, s’è schierata dalla mia parte, e lo ha annientato. Lo ha ridotto a nulla. Il mondo ne è libero».

Dartred annuì, sempre svagato, indifferente, poco convinto.

La notizia era straordinaria, una meraviglia, uno splendore, una di quelle cose da festeggiare per anni, ma di entusiasmo ce ne fu solo qualche distratta briciola. E anche la vittoria sembrava scintillare poco. Il mondo era sempre astioso e pieno di armigeri che facevano la cosa sbagliata come d’abitudine. Il cielo avrebbe dovuto riempirsi di tortore, le fronde di cinguettii, i fiori sarebbero dovuti sbocciare pieni di colori.

Avevano vinto l’Oscuro Signore, ma il mondo era rimasto difficile e polveroso.

Finalmente Hania guardò bene Dartred: l’uomo aveva un grosso ponfo rossastro sulla faccia, talmente grosso da occupargli metà della fronte. Lo avevano massacrato di botte, aveva il naso spaccato, una cacofonica disposizione di ecchimosi di datazione diversa, il cui colore oscillava dal nerastro al giallastro, passando per tutte le gradazioni intermedie del viola e dell’arancione e a tutto questo si aggiungeva lo sporco, che l’acqua delle fontane era riuscita a intaccare solo nei suoi strati più superficiali e recenti. Eppure il ponfo riusciva a spiccare persino sul suo viso devastato.

Hania lo fissò talmente a lungo che Dartred se ne accorse. Si passò la mano su quel bitorzolo.

«C’era un tafano enorme nella mia cella!» spiegò.

Haxen annuì.

«Certo» mormorò sorridendo. «Può capitare».

Certo, un tafano in una cella: una cosa normale. Certo, andava tutto bene. Certo, l’ultima serratura era rimasta chiusa perché Hania era stanca. Certo, avrebbero vissuto in pace e letizia in un mondo pieno di canti e abbondanza e sarebbero tutti morti di vecchiaia.

Hania non annuì. Imprecò, anzi nella sua mente, dando fondo a tutte le imprecazioni note, che tanto erano sempre le stesse quattro o cinque cose. Uno dei numerosi motivi per cui le mancava dannatamente avere la voce, era l’impossibilità di imprecare. Fosse stata in grado di farlo, avrebbe manifestato il suo astio contro il destino e il mondo sbattendo i piedi, prendendo a calci qualcosa, spaccando qualsiasi oggetto avesse la potenzialità di andare in frantumi, tutte azioni che era possibile fare solo nel chiasso delle parole urlate. Nel silenzio erano gesti che si sarebbero persi nel ridicolo. Il silenzio avrebbe reso tutto insulso. La sua frustrazione aveva una sola via, quella di diventare collera gelida e acuto senso di solitudine: unico essere pensante disperso in un mondo demente.

I tafani non stavano nelle segrete. Non c’era nessun motivo perché uno di loro si spostasse dai grandi e luminosi prati pieni di tiepide e sontuose deiezioni di vacche, cavalli, capre, pecore e qualche gallina di buona volontà per andarsi a ficcare attraverso corridoi infiniti, bui e gelidi in una cella lontana dalla luce.

Anche le lucciole non stavano nelle segrete, a meno che qualcuno non comandasse le loro menti: in quel caso lei. Il tafano dimostrava che il suo controllo sui piccoli animali nei sotterranei era stato parziale e che era presente un’altra mente con la stessa sua capacità. Hania ripassò tutta l’impresa, lei aveva una memoria totale, e nel ricordo finalmente si accorse che c’era stato un punto cieco, una sfera di buio impenetrabile su cui la sua volontà era scivolata: lì, sotto il controllo di un’altra mente, c’era stato il tafano. Lei non ne aveva sentito nemmeno il ronzio. Cercò la mente dei ratti che affollavano il sotterraneo, vide il tafano con i loro occhi: loro lo avevano visto; sentì il ronzio che le loro orecchie avevano udito e facendo questo si accorse che c’era stata una seconda area cieca. Non aveva percepito uno dei topi. La mente degli altri ratti ne conservava il ricordo a lei precluso e le trasmise l’immagine di un maschio enorme che aveva fermato lo sguardo pieno di odio su di lei mentre cercava di aprire l’ultima porta. Il ratto aveva riso quando lei aveva fallito, aveva squittito per l’irritazione quando l’ascia di Dartred era riuscita, e Haxen aveva aperto la via per la libertà.

Quello sguardo malevolo li aveva seguiti quando Dartred era uscito dalla cella: ora nel ricordo degli altri sorci lei lo vide e lo riconobbe. Era suo padre. Suo padre era vivo.

Ridotto a un topo in un sotterraneo, capace di qualche piccola meschina magia, un tafano, una serratura bloccata, ma era solo questione di tempo: che non si facessero illusioni. Finalmente capì la sua stanchezza che era paralisi. Lui era lì.

Suo padre era vivo e vegeto, forse non troppo arzillo, se si era ridotto a un roditore in una prigione: il luogo comunque lo aveva trovato, un tafano e una serratura era ben riuscito a controllarli, quindi una parte della sua potenza c’era ancora.

Dartred era stato avvelenato. Aveva perso se stesso, stava sprofondando nelle tenebre. E prima o poi sarebbe morto, una lenta agonia sarebbe venuta a porre fine a una vita ridotta a indifferenza e astio. Era un uomo forte, non sarebbe scivolato verso la malvagità, ma sarebbe stato inutile e insopportabile.

Fino a poche ora prima lei e sua madre erano convinte che la guerra fosse finita e che loro l’avessero vinta. Implume ingenuità.

La guerra non era finita e loro non la stavano vincendo.

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«È andato tutto bene» mormorò Haxen, come se avesse dovuto convincere se stessa oltre che lui.

Hania si accucciò per terra e sbatté il pugno contro il suolo, il movimento che lei usava per dissentire e che era un bel movimento, che la tirava un po’ fuori dalla sua smisurata delusione.

«Vuol dire no» tradusse Haxen.

«Non è andato tutto bene, certo che no» mormorò Dartred. Anche avvelenato dal Signore Oscuro, restava il meno cretino dei due.

«Vi abbiamo liberato con grande facilità» insistette Haxen.

«Mi avete liberato compiendo un’impresa da tutti sempre considerata impossibile, certo, e grazie a poteri straordinari, ma siamo stati intralciati e ce l’abbiamo fatta in effetti per un soffio. Suo padre è vivo».

Palmo verso l’alto: il movimento che Hania usava per dire sì.

«Suo padre è vivo» riconobbe lentamente Haxen. «Quindi è sopravvissuto. Non è stato annientato. Però non ci ha dato troppo disturbo! Deve essere debolissimo».

Hania indicò il grosso ponfo che sfigurava Dartred.

«Suo padre è vivo» ripeté l’uomo. «È sicuramente debole, ma per poco non ci ha fermati. Il morso di quel tafano è stato talmente violento che ho sbattuto la testa contro la parete e sono rimasto stordito a lungo. Sono stato massacrato di botte, ma quel morso è stato un dolore mai sentito. L’Oscuro è diventato un insetto in un sotterraneo, ma anche così non ha poca potenza La serratura ci avrebbe fermati: per fortuna signora avete preso la mia ascia. È stata l’ascia a distruggere la porta. Come la vostra spada, è fatta di acciaio assoluto, con la più antica maestria dei nani».

Hania sfiorò con le dita il filo dell’ascia, e le arrivò una sensazione di verde e di fresco, come il vento sulle colline, come quando toccava la spada di Haxen. Non era solo maestria, quella dei nani, non era solo la capacità dei metalli. C’era un incantesimo. L’ascia conteneva la stessa magia della spada di Haxen, qualcosa di potente e verde, qualcosa che aveva un legame con la vita e con la terra. Per questo aveva abbattuto la porta in un unico colpo. Prima o poi sarebbe riuscita a esprimere la domanda e a ottenere una risposta sul perché di quella magia, quella della spada. Nemmeno suo padre sapeva nulla.

«Poi però siamo scappati senza intoppi» osservò Haxen, che evidentemente non voleva cedere, non voleva mollare la tenerissima idea che la guerra fosse finita e vinta, che si potesse passare il resto della vita nella trionfale situazione del reduce vittorioso, che racconta attorno al fuoco dei camini i pericoli e le privazioni ormai lontani.

«Certo, perché la città era piena di Acqua Sacra; l’avevano messa per distruggere Hania, e invece l’ha difesa, proteggendo i nostri passi e le nostre ombre. Non solo ha bloccato la forza maligna confinandola nel sotterraneo, ma deve anche aver creato una specie di aura. Gli armigeri guardavano nella nostra direzione e non ci vedevano. O forse giravano la testa per non sentire il nostro odore, oppure erano semplicemente confusi dalla stupidità, dal fatto che nessuno si aspettava una famigliola di pezzenti. Quindi ora noi ci nasconderemo. Niente reggia: è il primo posto dove l’Oscuro ci cercherebbe».

«Nella reggia, però, saremo al sicuro. Mura e armigeri per proteggerci!»

«No, signora. Mura per intrappolarci e armigeri per venderci. Saremmo un bel gruppo: un uomo già condannato per furto e una principessa che ha messo al mondo una bambina figlia di un demone e la bambina figlia del demone. E essere figlia di un demone la rende una strega. Tutti saranno certi che lei li dannerà tutti, distruggerà i raccolti, scatenerà epidemie, provocherà incendi per il solo piacere di farlo, questa è la convinzione comune. Cercheranno di ucciderla e non si fermeranno fino a che non ci saranno riusciti. Non ci permetteranno di vivere in pace. Non ci lasceranno vivere per nulla».

«Potremmo rassicurarli. Mostreremo che l’Acqua Sacra non fa del male alla bambina, mostreremo…»

«E loro mostreranno che benché intelligentissima, la piccola non può parlare. Mostreranno che sul suo polso ha impresso un marchio. Se l’Oscuro fosse scomparso, avremmo potuto rischiare: la ragione e la giustizia sarebbero tornate a zampillare ovunque. Così non possiamo: l’Oscuro spingerà alla malizia, dividerà la gente, lui distruggerà i raccolti, scatenerà epidemie e incendi. Qualcuno sarà certo che la bambina ne è la causa, qualcuno sarà certo del contrario. Se al comando del regno ci siete voi, l’Oscuro spingerà tutti alla guerra civile. Ci nasconderemo, signora, sulle cime, tra i castagni e i ghiacciai, le marmotte e le tigri bianche. Mangeremo le marmotte e staremo alla larga dalle tigri, poche regole semplici e si resta vivi. Camperemo di caccia, di pesca, mirtilli e more, e soprattutto di solitudine. Nessuno deve sapere di noi».

Hania ci pensò. Era un peccato: Hania la Principessa le piaceva. Finalmente avrebbe avuto delle vesti decenti, magari anche un po’ di broccato e oro, era un regno leggermente pezzente quello delle Sette Cime, con un certo fanatismo per la sobrietà che saltuariamente diventava eccessivo, ma qualche spanna di broccato lo dovevano avere anche loro. E poi Hania la Principessa dava adito a possibilità di interessante carriera, si sarebbe aperto prima o poi in Hania la Regina, e questo era ancora più deliziosamente affascinante. Ma era più facile Hania la strega, con una taglia lussuosa a chi riusciva ad ammazzarla.

Niente reggia, niente letti puliti, niente banchetti, niente panna montata e nemmeno smontata.

Castagne, lepri arrostite sul fuoco, acqua dei torrenti, tante stelle, querce nere, marmotte, tigri bianche.

Meno bello di un letto pulito, in una reggia dove tutti sarebbero scattati al suo solo starnutire per l’onore di porgerle il fazzoletto e soffiarle il naso. Sarebbe stata una vita dove il naso se lo soffiava da sola e se lo sarebbe soffiato perché era restata viva e quindi continuava a respirare.

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Se sul broccato e sull’oro ci poteva mettere una pietra sopra, poteva comunque organizzare qualcosa di interessante con le tigri bianche. La pelliccia poteva valere una fortuna. Col ricavato si poteva costruire qualcosa di comodo, una grossa villa fortificata o un castello piccolo, ma grazioso, e soprattutto si tornava al concetto del mettersi comodi. Si poteva passare dalla lepre arrostita sul bivacco allo spezzatino di marmotta ai chiodi di garofano. Hania l’agiata commerciante. I due avrebbero avuto tanti bei bambini: bastava che non fossero troppo tonti, che piagnucolassero poco e le dessero una mano con le pelli, e la vita avrebbe anche potuto funzionare.

Le parole “strega” e “uccidere” però, non smettevano di risuonare nella sua testa, cominciarono a ronzare come moscerini, il tipo di moscerino che si riproduce in fretta, così che da un ronzio modesto si passa a un’insopportabile massa che impedisce anche di respirare. La consideravano una strega e volevano ammazzarla.

Hania la strega.

Hania l’impiccata.

Via da quel regno e subito.

Quindi scosse la testa. Lentamente batté il pugno sul suolo.

«No?» chiese Haxen.

«No» confermò Dartred. «Troppo pericoloso. L’Oscuro sa di me, certo, prima o poi ci troverebbe. Il primo posto che verrà a setacciare è casa vostra, la reggia, il secondo casa mia, le montagne del nord».

«In una città?» chiese Haxen.

«Dispersi in una folla? Sembrerebbe una buona idea, ma basterà che la manica della piccola si alzi, che per un qualsiasi motivo il suo polso si scopra e saremo persi. La principessa Haxen e la sua bambina fatta di ombra. La storia impiegherà pochissimo a propagarsi. Il terrore renderà tutti nemici» disse Dartred. Decisamente quello più intelligente dei due.

Hania stancamente indicò a sud, l’unica direzione, e poi ripeté il gesto della mano che indicava lontano, oltre.

Il silenzio si prolungò ancora un po’, poi finalmente Haxen mormorò il suo assenso.

«Andremo a sud, alla Valle degli Zampilli. Era il mio programma originario, quando ancora non avevo capito che sarebbe stata un veleno per Hania. Lì saremo al sicuro e soprattutto avremo l’Acqua Sacra. E forse lì non ci cercheranno. E vedremo il da farsi giorno per giorno. E poi se quel tafano aveva qualcosa di oscuramente malefico, di atrocemente sovrannaturale, l’Acqua Sacra lo guarirà!»

Hania sussultò. La guaritrice era lei. Per quella roba lì arnica e mandragora sarebbero bastati. L’idea di un suggerimento la infastidì. Poteva curarlo da sola.

«Bene» disse Dartred. «Vada per la Valle degli Zampilli. Adesso che siamo tranquilli potete spiegarmi come è possibile che tutti sappiano tutto? A Kaam sapevano che la bambina esiste, che sembra molto più grande della sua età e che è figlia vostra. Qualcuno lo ha scoperto e la notizia si è sparsa. Chi è stato? Nemmeno facendo appendere in tutto il regno una grida avreste potuto diffondere la notizia della vostra maternità in così poco tempo».

«La contadina» rispose Haxen. «La madre del bambino che era stato accusato di essere il figlio dell’Oscuro. Dire che si tratta di una donna maligna è usare termini lievi. Mi ha rubato il cavallo, la spada, e ha fatto tutto quello che poteva per scatenarmi addosso l’odio di tutti. Ho recuperato la spada, del cavallo ho imparato a fare a meno e per l’odio di tutti non c’è stato nulla da fare».

«La contadina? Quella a cui ho salvato la vita? No, veramente, fatemi capire! Quella a cui ho salvato la vita e per cui sono finito in quel maledetto sotterraneo?»

Dartred imprecò, a lungo. Lui poteva farlo. Hania invidiò quella capacità, che però non cambiava le cose. La loro generosità aveva regalato la vittoria al nemico.

Haxen confermò.

«Lei, quella a cui anche io ho salvato la vita, rischiando la mia e quella di Hania, visto che il suo peso ha rallentato la fuga e che la sua presenza ci ha attirato addosso tutti gli armigeri in grado di tenersi in sella. Gli altri li avevate addosso voi. Ci ha abbandonate dopo averci rubato il cavallo, e ci ha denunciate appena ha potuto».

Hania aveva l’impressione che la sua mente girasse in tondo. Avevano sottovalutato l’incredibile, immarcescibile e inarrestabile potere dell’invidia, certo, ma non era solo quello: c’era qualcosa che le sfuggiva.

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Andarono verso sud. Per la terza volta Hania avrebbe attraversato il Deserto delle Torri Perdute, e di nuovo con mezzi scarsi e provviste contate. Haxen e Dartred erano una principessa braccata e un evaso inseguito, ambedue strenuamente contrari all’elementare concetto del furto. Stupidi. La stupidità era un crimine.

Loro dovevano fare il bene, giusto? Loro erano l’unica possibilità che il bene trionfasse, perlomeno che il male non diventasse l’infinito assoluto, come il buio di una notte senza stelle e senza luna trascorsa in una caverna piena di vipere e di scorpioni. Era evidente quindi che il piccolo male di un minuscolo innocente furto avrebbe dovuto essere accettato in nome del bene supremo della loro sopravvivenza. A essere troppo puri si rischiava di morire prima, e loro non se lo potevano permettere. Onestà e generosità erano beni preziosi, quindi meglio che imparassero a centellinarli Era essenziale, se volevano salvare il mondo, che restassero vivi. Da defunti il massimo di cortesia sarebbe stato il concimare qualche fiore con i loro corpi in putrefazione, o forse, meglio, verze, cavoli e filari di fagioli.

Il modesto furto di un carretto, un cavallino, qualche monetina d’oro avrebbe facilitato la vita, ma i due erano integerrimi e non se ne fece niente.

Partirono quindi per attraversare il Deserto delle Torri Perdute sobriamente a piedi e con i generi di conforto ridotti al minimo. Tutto quello che si erano potuti permettere con il guadagno che Haxen aveva ottenuto lavorando come sguattera per tre giorni era poco e insufficiente.

Oltre che per l’onestà i due brillavano per la speranza: qualcosa sarebbe successo, in qualche maniera se la sarebbero cavata.

Durante i tre giorni di lavoro di Haxen, Dartred e Hania erano rimasti nascosti in una provvidenziale grotta. Lì lei aveva dato fondo a tutte le sue notevoli capacità di guaritrice, aveva usato tutta l’arnica e tutta la mandragora che era riuscita a trovare per cercare di mettere in piedi quel sacco di ossa ed ecchimosi che era stato il più grande guerriero del regno.

Dartred era di nuovo in grado di camminare correttamente e anche con una certa velocità, le escoriazioni più piccole avevano addirittura cicatrizzato, e le ecchimosi si erano rimpicciolite. Hania aveva sperato che Dartred tirasse fuori tutta la sua forza, ma non era successo. Sulla faccia pulita e sempre livida, l’impronta del tafano spiccava ancora di più, e la stanchezza restava grande, una febbriciattola compariva all’improvviso spossandolo. Ormai era evidente quanto fosse stato avvelenato. Il suo maledetto padre col suo maledetto tafano, mentre era ridotto a un sorcio in un sotterraneo, si era dato da fare. Un altro punto per lui.

Hania si chiese cosa altro avrebbe potuto fare, qualcosa di più potente dell’impacco di arnica con la mandragora, e capì faticosamente che sarebbe stato necessario lavarlo con l’Acqua Sacra. Era una scoperta fastidiosa, un altro segno della sua impotenza, particolarmente irritante dopo aver sognato di essere invincibile, particolarmente sgradevole visto che era un’idea in effetti ovvia ed era venuta in mente ad Haxen per prima. Nello sterminato numero di conoscenza che aveva dentro di sé da sempre l’esistenza stessa dell’Acqua Sacra mancava. Aveva creduto di essere una guaritrice di infinita potenza e non era vero, aveva creduto di aver distrutto l’Oscuro con un’unica battaglia e scopriva di essere un implume anatroccolo e non un’aquila.

Lo sconforto le scivolò dentro, e lei rischiò di annegarci, ma si riprese, con un colpo di volontà d’acciaio. Il Cavaliere di Luce non si arrendeva mai, nemmeno quando scopriva di essere stato preso a calci.

Si era battuta contro l’Oscuro, di cui i suoi poteri erano un’emanazione, e aveva vinto solo una battaglia, non la guerra, ma una battaglia comunque l’aveva vinta. Haxen era solidamente in vita e Dartred non era ancora morto. Il Cavaliere di Luce non si arrendeva mai e combatteva una battaglia alla volta. Ora occorreva evitare di farsi ammazzare, scappare in un luogo sicuro, e rimettere Dartred all’onore del mondo, che fosse in grado di tenere una spada in mano e produrre qualche bambino, così lei non sarebbe più stata sola a portare avanti quella guerra.

Se l’avvelenamento era stato causato dall’Oscuro, era logico, ovvio e prevedibile che l’Acqua Sacra lo curasse. Purtroppo non poteva fare la prova: Kaam era piena di Acqua Sacra, ne era stata inzuppata come un biscotto finito nel latte, ma a nessuno dei tre era venuto in mente di prenderne un otre nella fuga, o anche semplicemente di bagnarsene.

A pensarci, col senno di poi, sarebbe stata una bella idea.

A pensarci, col senno di poi, sarebbe stata anche una gran bella idea farsi gli affari propri e non interessarsi alle sorti della maledetta contadina.

A pensarci, col senno di poi, sarebbe stato tanto bello se nella maledetta città di Kaam non ci avessero mai messo piede.

E adesso che queste cose se le era dette erano al punto di prima, quindi smise di dirsele.

Il Cavaliere di Luce non si arrendeva mai e sapeva quanto il rimpianto fosse stupido, un’inutile perdita di energia.

Però il Cavaliere di Luce imparava dai propri sbagli: l’Acqua Sacra era un’arma non meno importante della spada e dell’ascia, anzi forse ancora più indispensabile.

Fortunatamente andavano a sud: la Valle degli Zampilli era sulla loro strada. Di Acqua Sacra lì ce ne era a volontà, il guerriero sarebbe guarito e avrebbe interrotto la nuova abitudine di essere insopportabile, lei se ne sarebbe fatta una scorta da avere sempre con sé insieme alla radice di mandragora, i petali di arnica, qualche foglia di aconitum album, e un po’ di scorza di nux vomica.

Con l’arnica e la mandragora il morbo non sarebbe aumentato, sarebbe rimasto lì circoscritto; il guerriero avrebbe ritrovato, sia pure con un grande lentezza, una piccola parte della sua forza, e poi l’Acqua Sacra avrebbe fatto il resto.

La Valle degli Zampilli lo avrebbe guarito.

Forse non era così strana l’idea di fermarsi lì. Avrebbero coltivato melograni e lei sarebbe stata al sicuro. Un buon rifugio. I melograni erano buoni, ed erano anche facilmente vendibili. Una piantagione di melograni cresciuti nella Valle degli Zampilli sarebbe stata un’interessante possibilità di guadagno, una volta che i frutti fossero stati avviati ai mercati specificando che la loro nascita su un suolo sacro li avrebbe garantiti per ogni guarigione e contro il malocchio: si potevano vendere a una fortuna.

Magari nella Valle degli Zampilli invece di una casetta avrebbero potuto avere qualcosa di meno modesto, una decina di stanze di cui almeno un paio per la servitù, così che di pulire e cucinare si sarebbe occupato qualcun altro, e lei avrebbe potuto avvicinarsi al progetto originario di fare la principessa o qualcosa di simile.