CANDICE
Ho l’affanno, i piedi mi fanno un male cane e sono tutta sudata.
Questi tre stupidi pensieri mi tengono compagnia, mentre io e mio fratello Charles corriamo in direzione della stazione degli autobus, con l’intento di riuscire a prendere l’ultimo della sera che ci porterà via per sempre da questa maledetta città: Atlanta.
L’ho sempre odiata; ci ha procurato solo sofferenze e guai.
Qui ho visto mio padre ammalarsi e spegnersi senza che potessimo farci nulla e non certo perché il cancro fosse incurabile. Sarebbe stato ancora possibile fare qualcosa per lui, ma la nostra disastrosa situazione economica, ha stroncato tutte le speranze. All’epoca io e mio fratello eravamo solo due quattordicenni.
Siamo gemelli omozigoti, quasi identici fisicamente ma non caratterialmente, per la fortuna di entrambi.
Da quando mio padre è morto, il mio gemello Charles è la mia roccia, la mia ancora di salvezza, la persona che più mi capisce e soprattutto mi accetta per quella che sono, solo con lui mi sento pienamente al sicuro.
Lo stesso non si può dire di nostra madre. Piper Smith è morta dentro quattro anni fa, quando papà ha chiuso gli occhi per non riaprirli più, e fisicamente sei mesi fa.
Dopo la scomparsa del marito, si lasciò completamente andare, fino ad abbandonarci a noi stessi, trovando conforto prima nell’amico alcol e nella compagna droga poi.
Quando morì, essendo ancora minorenni, i servizi sociali, ci affidarono a uno zio di cui non sapevamo neanche l’esistenza, il fratello maggiore di mia madre: zio Tom.
All’inizio né io, né Charles capivamo perché mia madre ci avesse nascosto per diciassette anni l’esistenza di uno zio. Non fu mai menzionato, neanche quando da bambini chiedevamo notizie sui parenti, notando la totale assenza di visite. Desideravo ardentemente avere una cugina, una nonna o uno zio.
Nel mio immaginario fantastico di ragazzina stupida e ingenua, pensai che se lei ce lo avesse detto prima, avremmo potuto contattarlo e farci aiutare a superare l’enorme baratro, che aveva risucchiato la mia famiglia, soprattutto mia madre.
Ci ho messo meno di una settimana a capire perché la mia adorabile mamma non avesse mai fatto parola, con noi o con altri, della sua esistenza. All’apparenza poteva sembrare un tipo alla mano, bassino e nerboruto, un uomo mite e lavoratore, single per scelta, ma sostanzialmente l’apparenza non conta un cazzo e noi, lo sappiamo bene.
Così Charles e io abbiamo aspettato, pazientato per ben sei mesi affinché compissimo la maggiore età, per poter scappare via, il più lontano possibile da questo posto e soprattutto dalla sua casa.
Ma non tutto è andato come avevamo minuziosamente immaginato. Perché nella vita, come ho amaramente imparato, nulla va mai come previsto.
«Candice, prima di andare a comprare i biglietti, dobbiamo andare un attimo in bagno a darci una ripulita, qualcuno potrebbe notare qualcosa di strano» sussurra mio fratello spingendomi letteralmente verso i bagni pubblici.
Annuisco e mi avvio verso quello delle donne, ma lui mi afferra per il gomito.
«Non dobbiamo mai separarci, devo poterti tenere sotto controllo in ogni momento» dice aprendo la porta di quello maschile e trascinandomi all’interno con lui. Controlliamo che sia vuoto e ci rechiamo ai lavandini.
Apro il rubinetto e strofino vigorosamente le mani, mi guardo allo specchio e trasalisco davanti alla mia immagine riflessa e ad alcune macchie rosse secche sul viso e sul collo. Prendo del sapone e inizio a sfregare energicamente. Osservo Charles che sta facendo la stessa cosa.
Il mio sguardo cade nel lavandino, prima il suo e poi il mio, e per la seconda volta questa sera, prima m’immobilizzo e poi inizio a tremare convulsamente guardando l’acqua rossastra scendere giù nello scarico.
«Candice, che stai facendo? Sbrigati potrebbe entrare qualcuno da un momento all’altro» mi incalza mio fratello scuotendomi, per sbloccare il mio momento di panico.
Annuisco e continuo a ripulirmi fino a che, la mia pelle diventa rossa e screpolata. Lui termina di lavarsi, apre il borsone e prende una felpa nera, togliendo quella che indossa, leggermente macchiata di rosso e la getta nella sacca alla rinfusa, indossa quella pulita e fa lo stesso per me porgendomi una mia maglia blu e io, titubante, me la rigiro tra le mani.
«Candice, muoviti, metti la maglia pulita, la tua è macchiata» dice con uno sguardo spazientito; aspetta impaziente che esegua i suoi ordini, poi getta anche la mia nella borsa malamente tanto che una manica sbuca fuori, mi chino per rimetterla dentro, ma Charles mi blocca, mentre con l’altra tira via il borsone.
«Faccio io» impone, guardandomi in modo alquanto strano.
Chiude la sacca, mi passa lo zaino e mi afferra la mano trascinandomi all’esterno del bagno. Compriamo due biglietti per Richmond e ci avviamo verso l’autobus in attesa, sto per sospirare di sollievo, quando improvvisamente, intravedo delle luci blu e rosse in lontananza e mi gelo sul posto.
«Candice, saliamo sull’autobus, sta per partire» ordina Charles e io, con il solo movimento del volto gli indico le luci, fortunatamente, ancora distanti. Sbarra gli occhi, mi trascina sull’autobus quasi del tutto deserto e prendiamo posto in fondo.
«Stai tranquilla, andrà tutto bene, sta per partire e poi non è detto che siano qui per noi» sussurra più per convincere sé stesso, che me.
Inizio a tremare e calde lacrime iniziano a scorrermi sulle guance senza che riesca a fermarle, mi manca l’aria, le mani mi sudano, i polmoni sono in affanno e il diaframma è completamente bloccato. Un vero e proprio attacco di panico, credo. Tento con tutta la forza che ho di non annaspare e attirare così l’attenzione su di noi, metto la testa tra le gambe e faccio respiri profondi, imitando una mia ex compagna di scuola che ne soffriva. Inspiro, conto fino a due, espiro. Inspiro, conto fino a quattro, espiro e così via fino a dieci, solo allora riesco a prendere un respiro profondo e contemporaneamente il mio battito cardiaco rallenta mentre il gelo si impossessa del mio corpo. Mi sento spossata, stanca, come se la mia essenza vitale mi fosse stata portata via, tremo convulsamente e solo dopo vari minuti riesco ad assumere una parvenza di normalità.
Le luci si avvicinano e mio fratello inizia a tamburellare sulle ginocchia nervosamente, mentre con una mano sulla mia schiena tenta di tranquillizzarmi e di non dare nell’occhio, ma questo non aiuta il mio stato.
È nervoso, preoccupato per me, ma subito si rilassa quando l’autista chiude la porta e mette in moto. Le luci si avvicinano e ci passano davanti continuando per la loro strada.
Tira un sospiro di sollievo e poggia una mano sulla mia gamba per tentare di rassicurarmi, dapprima inutilmente e poi, quando l’autobus finalmente si immette in autostrada, con successo.
Mi rilasso e prendo a respirare normalmente.
«Hai visto? È andato tutto bene» sussurra e io mi volto a guardarlo furiosa.
«Tutto bene?» chiedo con voce gracchiante e ruvida, quasi al limite dell’isteria.
Con uno sguardo minaccioso mi avverte di calmarmi, poi dà un’occhiata attorno e infine punta i suoi occhi azzurri su di me.
«Candice, questa è l’ultima volta che parliamo di quello che è successo stasera, appena arrivati a Richmond andremo a casa del mio amico Stuart che ci ospiterà per qualche giorno, e troveremo un lavoro per tentare di racimolare i soldi che ci servono per scappare via, lontano da questa nazione del cazzo. Stuart, ci fornirà anche dei documenti falsi, che useremo solo se ne dovessimo aver bisogno, quindi smettila con questa scena e riprenditi, perché non possiamo attirare l’attenzione di nessuno, dobbiamo essere invisibili, mi hai capito?»
Annuisco, non posso fare altro, non c’è via d’uscita ed è per questo motivo che da questo momento in poi devo lasciarmi alle spalle tutto ciò che ero fino a questa sera.
Devo dire addio a Candice Elaine Smith e andare avanti.
Ed è quello che faccio… per proteggerci.