Capitolo diciotto

 

Martin rotolò giù dal mio corpo. ‘Ordina una buona cena per domani sera. I miei nuovi conoscenti della City ceneranno con noi.’

Libera dal suo enorme peso respirai profondamente. Come poteva trattarsi dello stesso atto che avevo quasi portato a termine con John Osborne? Come era accaduto più di una volta negli ultimi mesi, Martin non sembrava ricavare alcun sollievo dai rapporti con me. Dopo il nostro accoppiamento era cupo come prima.

‘Ci sono i polli. Chiederò alla signora Wheatley di ordinare anche della carne di manzo. E poi potrebbe fare una crostata di prugne.’

Annuì. ‘E falle preparare anche un dessert a base di crema e vino bianco. E della minestra, qualcosa di raffinato.’

Mi alzai. Erano solo le sette, ma già l’odore del gas aleggiava sulla strada. Chiusi la finestra.

Mi guardò. ‘Tra poco potrai godere della luce a gas per ricamare.’ L’accusa era dipinta su tutto il suo volto.

‘Questo è vero.’ Anche se la vecchia lampada ad olio non emanava la puzza di uovo stantio.

Ci sedemmo per fare colazione. Spingevo la mia fetta di pane imburrato sulla piastra. Da quando avevo saputo del naufragio avevo poco appetito. Avevo anche cominciato a pregare la Stella del Mare di Molly, usando parole che non pronunciavo da tantissimi anni. Qualche volta desideravo avere ancora il Rosario che stringevo tra le mie mani da bambina quando suor Perpetua mi portava a pregare in cappella. Sforzai la mia memoria per ricordare ulteriori dettagli. Ero stata sempre con le suore? Dove avevo alloggiato prima, quando Shelley era venuto a trovarci? La zia lo sapeva? Doveva saperlo. Me lo avrebbe mai detto in caso lo sapesse?

Rivolsi i miei pensieri alla giornata che iniziava. Cosa avrei fatto? Come mi sarei distratta? Le mie passeggiate nel parco erano avvolte dalla malinconia autunnale, le prime foglie e le castagne cadevano sui prati per la gioia degli scolari e la luce si attenuava in un color oro ricco. Una volta questi cambiamenti mi entusiasmavano; ora li vedevo solo come segni del tempo che passava, mentre io restavo sempre ferma. Intorno a me Londra sembrava pulsare di un’energia che aumentava ogni giorno di più. Tutti dicevano che stava sorgendo una nuova era, che la Gran Bretagna era una potenza dominante, il commercio, l’industria e la supremazia marittima indicavano che il mondo era nostro. Ma tutto questo progresso mi passava intorno lasciando la mia situazione immutata. 

Anche il congetturare sulla mia parentela era diventato meno intenso. Ero andata molte volte al British Museum a prendere in prestito altre poesie di Shelley, ma non avevo trovato nulla nei versi che mi dicesse qualcosa di più. Quanto avrei voluto saperne di più sulla letteratura moderna, quanto avrei voluto che Martin mi avesse consentito di abbonarmi ad una di quelle pubblicazioni letterarie che mi avrebbero potuto aiutare nella ricerca della conoscenza. Forse avrei potuto pensare a qualche indirizzo al quale farmi consegnare queste riviste. Le avrei portate al parco con me per leggerle.

Presi il cappellino e mi diressi verso sud. Martin voleva che mi fermassi dall’orologiaio di Regent Street e chiedessi quando sarebbe stato pronto il suo orologio. Avrei potuto mandare Emily, ma la passeggiata mi avrebbe distratta. I miei piedi si trascinavano sui marciapiedi. Perchè correre? Completare la commissione mi avrebbe solo lasciato più tempo della giornata da dover riempire. Avrei potuto terminare il ricamo sulle tovagliette. Avevo cucito dei piccoli cardi intorno ai bordi in omaggio alla Scozia della zia. Forse i cardi erano come spine sulla scorza del suo vecchio cuore. I miei sentimenti verso la zia sembravano andare ora da una parte, ora da un’altra, come una banderuola. Mi ero indurita anch’io, soffocavo le emozioni adeguandomi alla sua austerità, ma a volte non potevo fare a meno di provare un po’ d’affetto per lei. Mi aveva curata da bambina. Sicuramente dentro di lei doveva esserci un po’di tenerezza per me…

L’orologiaio mi disse che aveva bisogno di altri tre giorni per completare le riparazioni. La luce del sole che aveva assunto il colore delle calendule illuminava Regent’s Street. Arrivai a Golden Square. Foglie morte e sporcizia riempivano la vasca della fontana e da essa non scorreva acqua. Tuttavia questa doveva essere stata una bella piazza in passato; qualcosa del suo antico fascino era ancora presente.

Scugnizzi mi adocchiavano dalla strada e ammiccavano tra di loro. Un gruppo di uomini borbottava in un portone. Probabilmente cercavano di immaginare la quantità di denaro che avevo in borsa. Decisi di proseguire. Un vero peccato perchè mi piaceva questa parte di Londra. Soho riceveva rifugiati provenienti da tutta Europa. Intorno a me sentivo parlare francese, tedesco e italiano, ma c’erano anche polacchi e greci. Pensai al mio gentiluomo greco. A parte una breve menzione sul giornale, non erano state più riportate informazioni relative al suo assassinio. Nessuno aveva nominato un sospetto. Di nuovo scavai a fondo nella mia memoria. Cosa o chi esattamente avevo visto mentre sedevo sulla panchina con il greco e lui aveva iniziato a dirmi il nome dell’uomo a cui Shelley aveva fatto visita? La confusione e l’emozione dovevano aver annientato il mio senso della vista. Riuscivo a ricordare solo il profumo dei giacinti.

La mia mente non badava all’ambiente che mi circondava. Mentre camminavo lungo Silver Street notai una carrozza fermarsi davanti a me. Udii dei passi dietro di me. All’improvviso un uomo balzò fuori da un portone e mise una mano sulla mia bocca per cui potevo solo scalciare e colpire invano.

Il conducente del carro saltò giù per aiutare l’uomo che mi aveva afferrata. Insieme mi tirarono giù dal marciapiede e mi spinsero nella parte posteriore del carro. Lottai, tentai anche di mettere in atto il mio vecchio trucco di mordere i miei rapitori, ma erano in troppi. Appena entrata nel carro mi spinsero sul pavimento coperto di paglia. L’uomo che mi aveva afferrata tirò fuori un coltello. 

‘Ti taglierò la gola se ti permetterai anche solo di gemere.’ Era un londinese, ma lo sentivo parlare in italiano con uno dei suoi compagni. Mi sedetti sul pavimento, mi legarono mani e piedi e mi infilarono un fazzoletto in bocca.

Il conducente fischiò. Un’altra figura apparve sulla porta del carro. La donna in nero mi guardava di sbieco. ‘Non più così piena di te adesso, vero?’ L’accento era italiano.

Imbavagliata com’ero, potevo solo fissarla e cercare di darle dei calci con i piedi legati.

‘Creatura irritabile.’ Pizzicò il mio braccio con tanta forza da farmi venire le lacrime agli occhi.

Il carro girò così tante volte che potevo solo immaginare la direzione in cui stavamo procedendo. Mi rendevo conto che ci stavamo dirigendo verso est e che percorrevamo strade laterali poichè non sentivo il rombo e il fracasso delle arterie principali. I miei piedi legati quasi raggiungevano l’altro lato del carro. Pensai di prendere a calci il legno, ma uno sguardo della donna italiana mi lasciò capire che le sarebbe piaciuto molto punirmi di nuovo. Ci fermammo ad un incrocio. Mi resi conto che eravamo fermi perchè riuscivo a intravedere la luce che entrava da un’apertura tra le assi di legno. I miei occhi incontrarono un altro paio di occhi. Il mio cuore batteva. Aiutami, mormorai a mezza bocca. Gli occhi, rotondi e piccoli, mi guardavano. Pensai di scorgervi comprensione. Qualcosa fece rumore dietro di noi.

‘Sposta il tuo maiale!’ gridò qualcuno.

Un maiale. Eravamo sulla strada verso uno dei mercati, verso Smithfield, probabilmente. Un compagno di prigionia diretto verso un destino che sarebbe terminato con il colpo della lama del macellaio. I miei occhi incontrarono quelli dell'animale condannato e di nuovo un barlume di qualcosa sembrò passare tra di noi. Forse i maiali erano più intelligenti di quanto l’uomo credeva? Il carro sobbalzò, persi l’equilibrio e non riuscii più a guardare attraverso le assi.

Successivamente il veicolo sbandò a sinistra e si fermò. ‘Mettile questo intorno agli occhi, ho sentito che conosce bene la zona.’ La donna in nero, che ora sapevo essere italiana, porse una sciarpa ad uno degli uomini. Senza poter vedere nè udire dovetti lasciare che mi portassero giù per i gradini. Inciampavo per mantenere l’equilibrio su una strada pavimentata con ciottoli. ‘Prendetele le braccia, stupidi. Non vorrete danneggiare la merce.’ Scoppiò in una breve risata.

Non ero in grado di vedere dov’ero ma potevo servirmi del mio naso e il mio naso urlava che questo posto era ripugnante. E che lo conoscevo. I commenti della donna mi fecero pensare che lei sapeva che ero stata qui prima d’ora. Ero certa che i miei rapitori mi avevano portata nel Rookery. Mi sentii piena di coraggio. Questo posto era malvagio, pericoloso, addirittura mortale. Ma io lo conoscevo. Ne ero scappata già una volta. Pensai a John Osborne, a come il suo viso era pieno di ammirazione mentre gli raccontavo della mia fuga con Molly. Mi considerava una donna coraggiosa. Avrei confermato la sua opinione.

Mi condussero in un tugurio, l’odore del quale stava per farmi vomitare tutta la colazione. Speravo che mi togliessero la benda dagli occhi, ma mi spinsero su una sedia e mi legarono ad essa per le gambe senza permettermi di vedere nulla. ‘Uno di noi ti controllerà continuamente,’ disse la donna italiana. ‘Pertanto nessuno dei tuoi trucchi.’ La sentii andare verso la porta. ‘Va’ alla casa e dille che il piano va come speravamo,’ disse a qualcuno. Sentii il rumore della porta che sbatteva. L’italiana tirò a sè una seconda sedia attraverso il pavimento e la sentii sprofondarvici dentro. ‘Santa Maria, graffi come un gatto. La mia mano sta sanguinando, maledizione.’

Come fui felice di quella mia manovra intelligente! Si sarebbe ritrovata tutta insanguinata se avessi potuto mettere di nuovo le mani su di lei. Un orologio battè le undici. L’italiana si mise a ridere. ‘Com’è divertente pensare che sei stata portata una volta in quella chiesa da piccola per essere battezzata e ora ci sei tornata di nuovo.’

Mi sedetti come meglio potevo, ogni parte di me intenta ad ascoltare ciò che stava dicendo.

‘Vedo che ho la tua attenzione. Sfortuna per te. Dovrai aspettare per capire ciò che voglio dire.’

Avevo sempre pensato di essere nata in Italia. Com’era possibile che io fossi nata qui? Mia madre era inglese? L’avevo immaginata per metà italiana, o forse svizzera, considerando che avevamo soggiornato a Ginevra dopo aver lasciato l’Italia. Pensando a queste cose, e all’identità della “lei” che avevo sentito menzionare prima, sedevo nella stanza maleodorante e aspettavo.