Capitolo diciannove

 

Era passata un’ora, secondo i miei calcoli. La porta si spalancò facendo entrare la luce che anche i miei occhi coperti apprezzarono. ‘Abbiamo parlato con il suo valletto,’ disse un rozzo cockney. ‘Sta tornando a casa, ora. Non intende darci alcun denaro.’

‘Accidenti a lei,’ mormorò la donna italiana, come ora chiamavo la donna in nero. ‘È così sospettosa.’

‘Si può biasimarla?’ disse il secondo uomo.

‘Ne ho abbastanza di tutto ciò, perchè indugiamo?’ La donna si alzò e sentii le sue mani armeggiare intorno alle mie caviglie e slegare i miei piedi dalla sedia, lasciandomi paralizzata. ‘Sta attenta a non farla scivolare. E controllala. È veloce.’

Il carro doveva essere rimasto fuori nel viottolo. Mi aiutarono a salire i gradini e mi fecero stendere di nuovo sul pavimento. Mi ritenni fortunata per il fatto che il fieno era pulito e non puzzava. Forse in mio onore avevano utilizzato una balla nuova. Pensai di nuovo al maiale che veniva portato al macello e avrei voluto poterlo dimenticare.

Ripartimmo, girando e cambiando strada per quasi mezz’ora. I miei rapitori mi tirarono fuori dal carro e mi tolsero la benda che mi copriva gli occhi. Battei le palpebre alla luce del sole e vidi che mi trovavo fuori ad un vicolo adibito a scuderia in quella che avrebbe potuto essere Belgrave o Grosvenor Square o qualche altra parte abbastanza simile di Londra. Non ebbi tempo di guardarmi intorno perchè fui trascinata giù per alcuni scalini che portavano al seminterrato. Entrammo in un retrocucina simile a quello in cui John Osborne aveva una volta pulito il mio abito con la spugna e salimmo le scale fino al piano terra. Strati di polvere ricoprivano i mobili e sembrava non ci fosse nessuno. I furfanti rimossero la polvere da due sedie situate l’una di fronte all’altra nell’ingresso e tagliarono le corde intorno alle mie caviglie, lasciando i miei polsi legati. 

‘Siediti lì.’ L’italiana mi spinse su una sedia. Cercai di individuare qualche oggetto che potesse rivelarmi dove ci trovavamo ma non vidi nulla, tranne un orologio su un tavolino. ‘Non dovrai aspettare a lungo ora.’

‘Aspettare chi?’ Non pensavo che mi rispondesse e invece si voltò con uno sguardo di trionfo.

‘Lady Lovelace.’ Quel nome non significava nulla per me. Rise nel vedere la mia espressione perplessa. 

Osservai ciò che mi circondava ma non trovai indizi relativi agli eventuali proprietari. Cominciai a sospettare che stavamo utilizzando questa casa solo perchè era vuota.

Si udì lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli che si fermavano fuori. Piedi leggeri di donna si avvicinarono alla porta. ‘Falla entrare.’ L’italiana fece cenno ad uno dei suoi scagnozzi. ‘Fa’ presto, non far aspettare una signora.’

Sorrisi all’idea del riguardo che aveva verso una signora e massaggiai i polsi dove la corda li aveva scalfiti. L’uomo aprì la porta principale. Nessun appostamento all’entrata della scuderia per questa visitatrice.

‘Alzati,’ ordinò la donna italiana.

‘Non mi alzerò per nessuno finchè sarò imprigionata e trattenuta contro la mia volontà.’

L’uomo teneva aperta la porta. Una donna velata entrò e si fermò davanti a me.

La signora scostò una sedia dal muro e si sedette. ‘Chi siete?’ Fui sottoposta al suo sguardo indagatore.  

‘Non devo darle spiegazioni.’ Feci un rapido movimento verso la porta. L’italiana mi afferrò. L’allontanai come meglio potevo con le mie mani legate.

‘Vorrei solo sapere chi siete.’ La signora usò maggiore dolcezza. ‘Non volete dirmelo?’  

‘Sono la signora Alice Clarke.’

‘Volete raccontarmi della vostra famiglia, signora Clarke?’

‘Non vedo perchè dovrei dirle altro. Non ha il diritto di interrogarmi.’

Accennò un sorriso. ‘Perchè volevate incontrarmi, signora Alice Clarke?’

‘Non avevo alcuna intenzione di incontrarla, signora. Non so chi è lei.’ Ma intanto il mio cervello faceva dei collegamenti, collegamenti senza senso, magari, tra lei e il greco e il pacchetto di lettere. Fece un mezzo sorriso.

‘L’Onorevole Augusta Ada, contessa di Lovelace,’ disse l’italiana. ‘Lady Lovelace, a voi Alice Clarke, come vi ho detto prima.’

‘Cosa dovrebbe avere a che fare con me una contessa.’ Non volevo dare a questa persona elegante alcun aiuto. Che fosse lei a spiegare che tipo di legame era il nostro.

Aveva spinto il mento in avanti in modo da farlo poggiare su una mano. ‘Parlate come una signora.’

‘Io sono una signora.’ Incontrai il suo sguardo velato. ‘Per lo meno sono educata meglio della maggior parte delle persone che hanno quel titolo e sono stata cresciuta in modo rispettabile.’

‘Perdonatemi.’ Sembrava sincera. ‘Quelli che estorcono denaro di solito non sono rispettabili.’

‘Io non estorco alcun denaro.’ La rabbia nelle mie parole le fece fare un passo indietro. ‘Non voglio niente da lei. Voglio solo essere liberata.’ Mentii. Non mi sarei precipitata via da quella casa per nulla al mondo.

Guardò l’italiana. ‘Ci hai portate qui con dei falsi pretesti, Maria?’ C’era qualcosa nel suo tono che mi faceva pensare che l’italiana non avrebbe gradito le conseguenze se così era stato. ‘Hai avuto il coraggio di ingannarmi?’

‘No, mia signora. Guardate questa persona. Osservatene il viso, in particolare il mento forte. Osservate il vostro mento nello specchio, per piacere.’ Gli occhi della contessa andarono dalla mia immagine alla sua riflessa nello specchio dietro di me.

‘Ci potrebbe essere qualcosa lì, non lo nego.’ Si voltò verso di me. ‘Perdonatemi per questo interrogatorio ma potete raccontarmi della vostra famiglia? Non è una domanda così impertinente come potrebbe sembrare.’ Notò per la prima volta le mie mani legate e le sue guance s’infiammarono. ‘Questo è intollerabile, la state trattando come una vagabonda. Liberatela immediatamente.’ Uno degli uomini tirò fuori il coltello. La contessa lo guardò furibonda. ‘Le farai male. Lascia fare a me, buffone!’ Prese il coltello e si diresse verso di me. La sua mano era ferma e i suoi movimenti veloci mentre tagliava le corde. Vide i segni rossi sui miei polsi e si morse le labbra. ‘Mi era stato detto che avevate intenzione di ricattarmi altrimenti non avrei mai lasciato che vi catturassero.’

‘Io ricattare lei? Perchè mai dovrei farlo?’

Si lasciò cadere in ginocchio e tirò su il velo. ‘Su, su, signora Clarke, basta nasconderci. Voi credete di essere mia sorella, non è vero?’