Capitolo uno

Londra, novembre 1838

 

Sotto le mie dita la pelle di John Osborne era come il burro o come quella morbidissima pelle di vitello con cui sono rivestite le copertine dei volumi preziosi. Il profumo che emanava era quello di foglie d’alloro, limetta e spezie: cardamomo, cannella e coriandolo, che mio marito avrebbe senza dubbio considerato troppo avvolgente e mia zia troppo pagano. Non potevo evitare di far scorrere la mia lingua lungo il petto di John e giù verso il suo ombelico dove i peli si facevano strada, attorcigliandosi, verso la cicatrice, ora bianca e quasi guarita. Il suo respiro era ansimante mentre proseguivo nel mio percorso verso il basso. Riuscivo quasi a sentire il sangue che pulsava nelle sue vene. Un incantesimo ci legava: Londra sarebbe potuta crollare intorno a noi e non ce ne saremmo accorti. Mi stavo godendo il paradiso mentre mi lasciavo coinvolgere dall’inferno.

In quel momento mi ero veramente liberata dei panni di Alice ed ero diventata Allegra. Ora, finalmente, Alice e le sue mussole fiorite e le sue cuffiette discrete divenne Allegra con le sue sete e i velluti. Alice mangiucchiava animelle; Allegra inghiottiva ostriche intere.

‘Aspetta,’ disse, mentre una mano accarezzava il mio viso per fermare il movimento della mia lingua. ‘Così mi farai finire troppo presto. A meno che le ferite alla schiena non ti facciano ancora male.’

‘No.’ Martin aveva colpito la mia schiena con una cintura di cuoio la settimana precedente ma il mio corpo era giovane e sano e guariva presto. ‘E la tua?’

‘Me ne ero quasi dimenticato.’ 

Braccia allargate, gambe aperte, Allegra accoglieva John Osborne, ed era un saluto sfrenato, di tutto cuore, che faceva sì che i suoi occhi si spalancassero per la sorpresa. E poi anche i miei occhi si spalancavano. Alice si sarebbe morsa le labbra per evitare di strillare e disturbare la signora Richardson della porta affianco. Allegra mormorava parole in italiano che non sapeva neanche di ricordare e… al diavolo la signora Richardson se sentiva.

Restavamo poi sdraiati lì mentre la campana di St James’s suonava. Quando ero molto piccola sentivo la campana che suonava per richiamare le suore alle preghiere del mattino. Restavo stesa nel mio angusto lettino, raggomitolata e contenta di non essere chiamata ad inginocchiarmi in preghiera nella fredda cappella. Mia zia faceva tutto il possibile per cancellare i miei ricordi del convento, per farmi dimenticare delle suore con i grani del rosario e le preghiere, dei giardini con le erbe e delle nitide file di fagioli e di lattughe. Spesso ci riusciva, ma a volte suoni e profumi del passato attraversavano la mia mente. John ed io restavamo sdraiati, immobili, e la polvere dei mattoni delle case in costruzione dall’altra parte della strada si posava su di noi. Se fossimo rimasti lì ancora a lungo avremmo acquisito l’aspetto di antiche statue grigie in posa erotica. Io starnutivo e rompevo l’incantesimo, e, quasi di rimando, la campana della chiesa di St James suonava il quarto d’ora.

‘Devo andare. Ho da sbrigare degli affari per una nave al molo.’ John si alzò con un solo movimento, aggraziato come una pantera che una volta vidi al Giardino Zoologico di Londra. Mi piacevano le bestie, più erano selvagge meglio era. Ma a volte avrei voluto spalancare le loro gabbie e liberare i prigionieri. Immaginavo un leone in libertà nel mio giardino, un leopardo disteso sul mio divano, libero di andarsene in giro per casa mia, di cacciare cervi nel mio parco, se mai ne avessi avuto uno. John avrebbe potuto essere considerato una bestia selvaggia, e senza dubbio alcuni uomini lo ritenevano tale. Sognare di ingabbiare il capitano Osborne era come sognare di rinchiudere il leone più feroce d’Etiopia. C’era qualcosa di eccitante al pensiero di farlo. Immaginare che lui fosse mio prigioniero, perchè ci potessi giocare, potessi addomesticarlo, torturarlo. Eppure anche quando le mie mani scivolavano sui suoi stinchi e gli davo il bacio di saluto ero consapevole della sua natura selvaggia. Non sarebbe mai stato domato. 

‘Addio, Alice.’

‘Allegra, d’ora in poi.’

‘Va bene.’ Si sporse in avanti e mordicchiò il mio labbro inferiore con la stessa delicatezza con cui avrebbe potuto mordere una prugna per verificarne il grado di maturazione. Desideravo ardentemente che questa degustazione della frutta continuasse per un’altra mezz’ora. C’erano sicuramente un centimetro o due di dolcezza nella parte recondita delle sue cosce che non avevo ancora assaggiato. ‘Allegra è il nome perfetto per te, amore mio. Qual è quel termine musicale che ha lo stesso suono?’

Allegro.’

‘E cosa significa allegro nell’inglese parlato dal buon Dio?’

Sembrava che John ne capisse di arte quanto le scimmie del Giardino Zoologico.  Quando però cantava per me, la sua voce era profonda e sincera. Se avessimo avuto tempo a disposizione gli avrei insegnato la musica. Che dolce lavoro sarebbe stato: do, re, mi, fa, sol, con un bacio ad ogni nota che avrebbe imparato. ‘Significa vivace.’

Rise, e intanto stringeva uno dei miei seni tra le sue mani racchiuse. ‘È un bel nome quello che hai.’

Sollevai il corsetto che avevo messo da parte. ‘Mi aiuti ad indossarlo?’

Lo avvolsi intorno a me e mi inginocchiai sul bordo del letto. John strinse i lacci. ‘Pizzica?’

‘Oh, no. Va benissimo.’  

‘E tu sei bellissima, mia signora, impacchettata come un regalo. Custodirò quest’immagine fino al nostro prossimo incontro.’

E andò via, chiudendo la porta senza far rumore.

Mi coprii, avvolgendomi tra le lenzuola che si erano staccate dal letto a causa dei nostri movimenti, e mi attardai alla finestra dietro la tenda per osservarlo mentre percorreva la strada a grandi passi. Avevamo organizzato questo incontro con attenzione: per raggiungere la strada, John andava verso il retro della nostra casa ed attraversava l’estensione di fango quasi desolata che era il nostro giardino. Scavalcava il muro che ci separava dai nostri vicini, ripetendo quest’azione due volte ancora finchè non raggiungeva l’ultima villetta della fila, dove un viale stretto lo riportava sulla strada. In tal modo nessuno lo vedeva spuntare dalla nostra porta principale. Nessuno avrebbe potuto associare il capitano John Osborne al numero otto di Ludlow Street. Meglio ancora che mio marito Martin fosse stato costretto ad andare nella City oggi a causa dei suoi affari. E che mia zia – continuavo a chiamarla così nonostante sapessi che non era una mia vera zia – dovesse presenziare ad una conferenza sui martiri protestanti in qualche polverosa sala di riunione a Marylebone.

Mi spostai dalla stanza da letto verso la finestra del pianerottolo che affacciava sulla strada. Fuori un centinaio di operai martellavano chiodi per farli penetrare nelle tavole e impilavano i mattoni uno sull’altro secondo le istruzioni fornite dalla società di mio marito. 

John spuntò sulla strada ed io mi morsi il labbro guardandolo: diritto come se si ergesse su un piedistallo a Regent’s Park ma flessuoso come un ballerino. Una nuvola di polvere si alzò su di lui e ben presto solo il suo cappello fu visibile. Continuai lo stesso a guardare. Un venditore ambulante svoltò l’angolo e si avvicinò alle case, invitandoci a gran voce a portargli coltelli e lame perchè li affilasse. Ora la nostra zona residenziale era più affermata, gli ambulanti venivano a farci visita con i loro vassoi di fiammiferi, frutta, dolciumi e stravaganze. Provai odio verso l’arrotino perchè non era John. Fu solo quando la campana della chiesa scoccò la mezz’ora che mi allontanai dalla finestra.

La passione era stata consumata. Il mio cuore aveva rallentato i suoi battiti, la mia pelle si raffreddava nell’aria del tardo pomeriggio. Mio marito sarebbe ritornato tra poco e avrebbe chiesto limonata e pane fresco per liberare la sua bocca dal gusto della City e, prima del suo ritorno, avevo un bel po’ di lavoro da fare in camera da letto. Non potevo neanche chiedere ad Emily, la mia cameriera, di riordinare al suo rientro dal mercato di Covent Garden. Si sarebbe chiesta come mai un cuscino era sul pavimento accanto ai miei vestiti abbandonati. Il laccio della mia vestaglia era stato anch’esso strappato. Per fortuna potevo provvedere io stessa a sistemarlo perchè ero abilissima nel cucire, anche la zia lo riconosceva.

Avrei voluto restare avvolta tra le lenzuola. La moda imponeva abiti sempre più stretti ogni mese. Avrei giurato che quelli che ne decidevano le tendenze non si sarebbero dati pace fino a che non avessero ingabbiato la forma femminile fino ad impedirle ogni qualsiasi movimento tranne il minimo necessario per lasciarla vivere. Avevo guardato i figurini che mostravano abiti di dieci o venti anni fa e mi rammaricavo del cambiamento. Il mio corpo sarebbe stato adatto a quegli abiti a vita alta, che scivolavano morbidamente. Martin diceva che non avevo curve femminili, anche quando indossavo il corsetto. Martin diceva molte cose su di me che non mi piacevano.

I miei capelli, castani e mossi, non avrebbero riacquistato la loro precedente dignità. Rinunciai ad ogni sforzo e mi limitai a raccoglierli in alto con un nastro. Se Martin se ne fosse accorto, gli avrei detto che il vento li aveva scomposti durante la mia passeggiata pomeridiana e che non ero stata in grado di sistemarli senza l’aiuto di Emily. C’era qualcosa di poetico nell’immagine dei capelli che sfuggivano ad ogni tentativo di ordinarli, di riccioli baciati dalla brezza, che si muovevano liberi intorno al viso e sulle spalle. Alice non avrebbe mai osato scrivere tali versi. Allegra avrebbe potuto prendere carta e inchiostro e comporre. 

Odiavo mio marito. Amavo John Osborne. Signore mio, non sapevo chi ero.  Mentre cercavo di ricompormi preparandomi al ritorno di Martin la mia mente dava una scorsa agli eventi che avevano portato John Osborne nel mio letto come se fossero stati carte da gioco in un mazzo.

Il greco. Incontrarlo mesi fa era stata la svolta. La mia vita aveva già cominciato a cambiare prima di allora, il nostro incontro era stato però il lievito che aveva accelerato il processo.