Capitolo trentuno

 

Winkfield Place era una casa rettangolare bianca a tre piani. Pagai la vettura che mi aveva condotto lì dalla fermata delle carrozze postali a Slough Village, sperando di avere un aspetto rispettabile. L’abito di seta nera certamente mi dava un’aria molto elegante e lo scialle che avevo preso in prestito dal guardaroba della zia era sobrio e di ottima qualità, come la maggior parte dei suoi abiti. Il mio cappellino era nuovo. Christopher Willis mi aveva dato un po’ di contanti per quelle che lui definiva le mie spese immediate, essendo tutte le nostre banconote e monete scomparse tra le fiamme. Sospettavo che questo denaro provenisse da un suo conto bancario e lottai con il mio orgoglio prima di accettarlo. Avrei restituito ogni scellino non appena sarei stata in grado di farlo.

Camminavo lungo il viale discutendo tra me e me se fosse il caso di annunciarmi alla signorina Clairmont come a qualsiasi altro membro della famiglia e cioè suonando il campanello della porta principale. O una governante riceveva gli ospiti all’ingresso della servitù? Una governante era considerata parte della famiglia o una serva? Io ero una signora, vero? Avrei fatto visita a mia madre entrando dall’ingresso principale e non avrei abbassato lo sguardo di fronte all’impertinenza di nessun servitore. Suonai il campanello con forza come se fossi stata la duchessa più robusta sulla faccia della terra.

Il domestico dei Sanford mi fissò senza espressione. ‘Mi dispiace, signora, ma la signorina Clairmont è fuori questa settimana per far visita alla sua famiglia.’

‘Fuori?’ Mandai giù a fatica. ‘Ma ho inviato una lettera dicendo che sarei venuta.’

Un vago segno di compassione illuminò il suo volto arrossato. ‘È partita domenica. Pobabilmente non ha ricevuto la sua lettera.’

‘Grazie.’ Gli eventi della settimana sembravano avermi sopraffatto. Le mie gambe tremavano. ‘Posso sedermi un attimo?’

Mi fece sedere. ‘Vuole che il cocchiere la riporti alla diligenza postale? Temo che non partirà che fra due ore.’

Una porta si aprì e una bambina di dieci anni ne venne fuori correndo. ‘Chi è questa qui, Maddison?’

‘È una conoscente della sua governante, signorina Horatia.’

Questa bambina era un’allieva di mia madre. ‘Ti piacciono le lezioni?’ le chiesi.

Aggrottò la fronte alla mia domanda. ‘Odio la geometria e il francese.’

‘E com’è la signorina Claire? È gentile?’

Storse il naso, fermandosi a riflettere. ‘È piuttosto severa. Ma è anche buffa.’

‘Buffa?’ Sperai che mia madre non fosse il bersaglio di scherzi.

‘Sa come farmi ridere.’ Un sorriso riluttante comparve sulle labbra di Horatia. ‘Scherza con me per farmi imparare i verbi avoir e être. Ma quando è arrabbiata, è terribile. Papà dice che c’è qualcosa del temperamento mediterraneo nella signorina Claire, anche se suona il pianoforte come un angelo.’

Una donna con il senso dell’umorismo e il temperamento mediterraneo. Mi piaceva la sua descrizione.

‘Ti faccio vedere una cosa. Aspetta lì.’ Si precipitò fuori, tornando in un batter d’occhio con un dipinto. ‘Le ho fatto un ritratto. Dice che le ho fatto gli occhi come quelli di uno scarafaggio, ma le piacciono i capelli.’ Presi il piccolo quadro incorniciato. Mia madre era di carnagione scura, aveva riccioli neri e una bocca che sembrava promettere un sorriso appena accennato o un rimprovero ugualmente rapido. Una mano superiore doveva averla aiutata a disegnare i tratti del viso che erano stati eseguiti con precisione. 

‘Grazie per avermi mostrato il ritratto.’ Lo restituii alla sua pittrice.

‘Horatia? Con chi stai parlando?’

Una donna in un abito di lana di ottima fattura con un raffinato colletto di pizzo entrò nella sala d’ingresso. Doveva trattarsi della datrice di lavoro di mia madre, la signora Sanford.

‘Con un’amica della signorina Claire, mamma.’

‘Oh.’ La donna mi guardò. ‘Lei cercava la signorina Clairmont. Vuole lasciarle un messaggio, signorina …?’

‘Signora Clarke.’ Mi alzai. ‘Grazie per la sua gentilezza ma preferisco non lasciare alcun messaggio.’

‘Credo che sia andata a far visita alla sua famiglia,’ aggiunse la signora Sanford, con gli occhi che le brillavano per la curiosità. ‘Vuole bere qualcosa prima di andar via, signora Clarke?’

‘No, grazie.’ Assicurando tutti che avrei recuperato le mie energie lasciai Winkfield Place.

I miei piedi sembravano essere diventati di piombo mentre ritornavo al villaggio. Passai davanti alle case quasi camminando per inerzia, senza far caso ad un solo dettaglio. Percorsi a piedi tutti i quindicimila chilometri per tornare a Slough Village, nonostante il trasportatore locale avesse fermato il cavallo passando davanti a me e mi avesse offerto un passaggio fino alla fermata della diligenza postale. Attraversai Windsor dando solo una rapida occhiata al castello. Che mi importava dei reali e dei loro palazzi? 

Ad alcuni chilometri da Slough fui colta improvvisamente dalla stanchezza. Mi sedetti su un vecchio muretto di pietra dove potevo godere di un debole raggio di sole invernale. Naturalmente avevo messo troppe aspettative in questo viaggio. Avrei dovuto chiedere a Christopher Willis altri soldi per effettuare un altro viaggio a Winkfield. La sua cortesia non gli avrebbe consentito di chiedere che gli giustificassi le spese, ma si sarebbe sicuramente chiesto perchè una donna che viveva in casa della zia avesse bisogno di queste somme, avendo già pagato i costi del funerale.

Mi alzai e proseguii. Quando raggiunsi il villaggio la diligenza stava già sferragliando lungo la strada per raggiungere la fermata. Mi lasciai cadere al suo interno e sprofondai in un sonno simile ad uno stato di trance. La strada era stretta e dopo pochi chilometri del nostro viaggio incrociammo un’altra carrozza dalla quale ci distanziava solo qualche centimetro. Per metà dormendo, per metà sveglia, aprii gli occhi e mi sembrò di aver visto un passeggero, una donna, nell’altra carrozza. Il suo volto era pallido, gli occhi privi di pupille. Mi sforzai di reprimere un urlo e mi aggrappai al mio mantello. Non ebbi più il coraggio di addormentarmi.

Raggiungemmo la sommità di una brughiera del Middlesex. In lontananza, in basso, le luci di Londra brillavano sotto un cielo folgorante di stelle. Guardai la scena incantata. Ogni puntino bianco e giallo sembrava sfidarmi a ricaricare il mio spirito, a lanciarmi di nuovo nell’esistenza. Londra, che qualche volta avevo odiato, qualche volta amato, ma che mi aveva sempre comunicato la sua energia, mi reclamava come una dei suoi. 

Quando i miei occhi si furono abituati all’oscurità mi accorsi che altre persone si muovevano verso le sue luci. Uomini e donne, e anche bambini, si spostavano verso la metropoli portando fagotti, indossando abiti laceri e non adatti a riparare dall’aria umida della notte. Se questi poveri disgraziati credevano di poter avere una vita nuova a Londra, perchè dovevo io, giovane, sana, educata, temere per me stessa? Questi viaggiatori avrebbero dovuto subire l’esperienza dei ricoveri pubblici se non avessero avuto fortuna. Nulla di così terribile era riservato a me.

Mi misi diritta e promisi a me stessa che non sarei stata schiacciata da questo contrattempo.