Capitolo trentatre

 

Era alla finestra, distinguevo la sua figura in piedi. I suoi occhi erano ancora del colore del carbone, i capelli mostravano qualche tocco di grigio. E io sapevo chi era, lo sapevo dal bagliore dei suoi occhi, dalle ondate di emozione che sentivo provenire dalla sua persona. Mia madre. La madre che ero andata a cercare a Winkfield.

Il cestino che portavo cadde a terra, le mele e le arance rotolarono sulle assi di legno.

‘Ti ho cercata. Sono andata a Winkfield.’ La mia voce tremava.

‘Ed io ero già partita per venire qui. La contessa di Lovelace mi ha scritto.’

‘Ada?’

Annuì. ‘Mi ha scritto dicendo che ti aveva incontrata e che credeva che saresti stata disponibile anche ad un incontro con me.’

Quindi Ada si era ammorbidita riguardo al fatto di non voler avere un contatto diretto con mia madre. Le inviai delle benedizioni per ciò che aveva fatto, anche se il mio viaggio era stato inutile.

‘Mi ha dato il tuo indirizzo di Ludlow Street. Quando sono arrivata lì ho trovato solo rovine annerite e fumo.’ Deglutì. ‘Ma mi sono imbattuta nella tua cameriera, era venuta a cercare qualche oggetto che poteva essere rimasto tra le macerie. Mi ha detto che ora alloggi a Wimpole Street e sono venuta subito qui per scoprire che purtroppo eri partita. La padrona di casa mi ha fatto entrare.’

‘É possibile addirittura che ci siamo incrociate per la strada.’ Ricordai il sogno della donna senza volto dietro il finestrino e rabbrividii.

‘Cosa c’è?’ Scosse la testa. ‘Perdonami, dò troppe cose per scontate.’

‘Non c’è nulla da perdonare.’ Ero impetuosa come una tigre. ‘Sei mia madre, hai il diritto di farlo.’

Emise un piccolo suono. Mi avvicinai a lei e presi la sua mano tra le mie. ‘Vederti qui è come un sogno, un glorioso, meraviglioso sogno.’

‘Sei generosa, Alice, ma non lo merito.’

‘Tu mi hai dato la vita.’

Ancora una volta ebbe un sussulto, senza parlare. Come deve essere stato scioccante per lei rivedermi dopo avermi creduta morta per tanto tempo. Indicò il divano della zia. ‘Possiamo sederci?’

‘Certo.’ Il divano non era ampio; le nostre ginocchia quasi si toccavano.

‘Quando Byron scrisse a Shelley informandolo dei preparativi per il funerale disse che avrei potuto vedere il corpo di mia figlia nella bara prima che fosse sigillata e spedita in Inghilterra.’ Chinò il capo. ‘Andai preparata a guardarla per l’ultima volta. Ma non riuscii a farlo.’ La sua voce era bassa. ‘Non riuscivo ad accettare l’idea che fosse morta, a vedere il suo visetto pallido, le sue manine immobili incrociate sul petto. Pertanto pregai il signor Dunn, un residente inglese che aveva aiutato con i preparativi, di porgere le mie scuse.’

Presi la sua mano tra le mie. ‘Il tuo istinto vedeva bene; io non ero morta.’

‘Per anni continuai a chiedermi se non si fosse sbagliato. Lo sperai. Tutti questi anni trascorsi a badare alle figlie di altre persone, ad assisterle durante le loro malattie, ad insegnar loro la musica, le lingue, la matematica, desiderando che potesse essere mia figlia quella a cui stavo dando lezioni.’

‘Ma ora abbiamo tempo di conoscerci.’

Non disse nulla, rimase seduta lì con un’espressione sul viso che non riuscivo a decifrare. Forse pensava a come avremmo vissuto, noi due insieme. Stavo cominciando a comprendere i problemi che doveva affrontare ogni donna che cercava di condurre la propria esistenza senza un marito o dei mezzi propri.

Come se stesse leggendo i miei pensieri, continuò, ‘E' difficile per una donna non sposata vivere con un figlio. La maggior parte delle persone li considererebbe privi di rispettabilità.’ Mi guardò dritto negli occhi. ‘Ma questa è una situazione che non dovrò mai sperimentare. Nè tu dovrai sperimentare il disprezzo della società per avere me come madre.’

‘Sono fiera di te e sono disposta a proclamare al mondo che sei mia madre, se me lo permetterai.’

‘No.’

Sentii che le mie guance diventavano rosse. Certo lei aveva il suo lavoro da tutelare. La famiglia a Winkfield che la trattava bene.

Aveva lasciato la sua mano scivolare via dalle mie ma ora la aveva posata sul mio braccio. ‘Non perchè non sarei orgogliosa, più che orgogliosa, di dire al mondo che tu sei mia figlia. Tu rappresenteresti un merito per ogni madre, Alice.’

‘Chiamami Allegra.’

Scosse la testa. ‘Non posso chiamarti Allegra.’

Mi misi a sedere diritta. ‘Cosa intendi?’

‘Tu non sei mia figlia.’ Lo disse a voce molto bassa. ‘Mi dispiace. Non potevo sopportare di scrivertelo, dovevo vederti. Suppongo che una piccola parte di me sperava ancora che non fosse così. Ma ora che ti ho vista so che tu non potresti essere Allegra.’

‘Ma…’

‘Io non so cosa ti è stato detto. Sospetto che le tue teorie sul nostro rapporto potrebbero essere parte di un complotto ordito da alcuni dei servi che lavoravano per Byron e Shelley.’

Pensai rapidamente a Maria Prodi, la donna in nero. Non riuscivo a pensare in modo molto chiaro, però. Confusione e tristezza offuscavano la mia mente. ‘Ma anche Ada, la contessa di Lovelace, ha detto…’

‘La contessa non ti ha mai vista da bambina.’ Mise delicatamente una mano sotto il mio mento. ‘Vuoi lasciarmi spiegare, mia cara?’

Annuii in silenzio.

‘Hai begli occhi. Ma non sono del colore di quelli della mia Allegra.’

Ricordai che nella sua poesia Shelley aveva paragonato il colore degli occhi di Allegra a quello dei cieli italiani. I miei erano più di un blu-grigio.

‘E il tuo volto non assomiglia a quello di nessuno della mia famiglia nè di quella di Byron.’ Deglutì.

‘Prima di tutto, il padre di Allegra mi disse che era morta. Era un uomo crudele ma non così crudele da dirmi una bugia del genere. È vero che una volta organizzai di portar via mia figlia dal convento. Non eseguii il mio piano. Shelley disse che sarebbe stata una follia. Ascoltai il suo consiglio e abbandonai il mio progetto.’ Portò le dita alla fronte. ‘Forse il mio piano non era avventato come pensavamo, forse mia figlia avrebbe potuto essere risparmiata, chi può dirlo? Ma in quel momento mi sembrò opportuno lasciare Allegra nel convento, anche se ero turbata da un profondo presentimento della sua perdita. Mi sembrava di prevedere la morte di mia figlia.’ Si tolse le dita dalla fronte e mi guardò dritto negli occhi. ‘E avevo ragione. È morta.’

La sensazione di sconfitta mi inondò. Dopo tutto ciò che era successo, questa non poteva essere la verità. Io dovevo essere Allegra. ‘Mi ricordo di suor Perpetua,’ dissi.

La vidi battere le palpebre.

‘Il fatto che io conosca il suo nome non prova che io ero al convento? Non sto mentendo.’

‘Non credo che tu menta riguardo al convento. Credo che suor Perpetua si sia occupata di te come della mia cara bambina morta.’

Il mio viso doveva rivelare quanto fossi perplessa.

Annuì. ‘Credo che tu e Allegra vi conoscevate.’

Rivolsi la mia mente al passato. Quando ero al convento, non giocavo con gli altri bambini? Non riuscivo a vedere chiaramente le facce dei miei compagni di gioco, ma non c’era stata un’amica speciale? Non riuscivo a distinguerne i tratti, ma mi sembrò di ricordare una giornata calda in cui eravamo sedute all’aperto e giocavamo con le mani sotto l’acqua corrente. Chi era stata la mia compagna allora? 

Sentii suor Perpetua chiamare Allegra. Si stava forse rivolgendo a qualcun’altra, non a me? E gli animali che ricordavo vagamente, l’orso, la volpe e il gufo, non erano creature che Allegra mi aveva descritto?

‘Cosa sai dei primi anni della tua vita?’ Claire Clairmont mi chiese.

‘Molto poco, ho solo la zia…’ mi controllai, ‘Non è una mia vera zia ma mi ha cresciuta.’ Una zia che non era la mia vera zia e ora una madre che non era la mia vera madre. Raccontai alla mia amica i ricordi dei mesi successivi a quando avevo lasciato il convento, quando la zia aveva cercato di togliere da me ogni traccia di Papismo. ‘La zia potrebbe dirmi di più ma giace sul suo letto di morte nella stanza accanto, il suo tempo è quasi finito.’

Mi alzai. ‘Vieni, vediamo se è ancora in grado di parlare.’

Andai verso la porta, le membra pesanti, oppressa dalla desolazione e dalla confusione.