PRIMO DIARIO

Guardo fuori dalla finestra, verso i binari della ferrovia e il lago.

Mi avvicino ancora di più al vetro, per vedere meglio. Ma l’alone del mio alito cancella la visione.

Tutto il mondo è dietro un vetro che l’alito appanna.

Per esempio: chi mi dice che lo specchio non renda una realtà assolutamente travisata? Che io, guardandomi dentro, non veda un volto del tutto diverso dal mio volto?

Facciamo qualche prova. Io mi pongo di fronte a uno specchio tenendo in mano un oggetto del quale conosco la forma: questa grossa conchiglia fermacarte. Lo specchio non tradisce la realtà della conchiglia e me la rende nello stesso modo in cui io la vedo. Allora perché dovrei pensare che lo specchio sfalsi una figura e non un’altra? Questo pensiero logico, conseguente, dovrebbe bastare a tranquillizzarmi. Ma non è così. Chi mi dice che la conchiglia, che io vedo in un determinato modo con gli occhi e dentro lo specchio, non sia assolutamente diversa? In fondo anche i miei occhi sono una specie di specchio in cui si riproducono le immagini e quindi, come dubito dello specchio, posso dubitare anche di essi. Ancora: può darsi che io veda la conchiglia con gli occhi in un modo e nello specchio in un altro e che, inconsciamente, io prenda come realtà la seconda (quella dello specchio) e scordi la prima (quella della vista). Se poi mi capita di guardare di nuovo la conchiglia con gli occhi, mi adatto ancora alla nuova realtà e scordo la precedente, e via di seguito...

Il fatto che noi, sempre, ci adattiamo all’ultima realtà scordando le precedenti è più che evidente e lo si può provare parlando di prospettiva. Non c’è alcun rigore nella ricerca della realtà da parte dei nostri occhi, c’è al contrario adattamento, elasticità. Se così non fosse, noi non troveremmo mai gli oggetti e le figure, a meno di vederle dall’identico punto di vista della volta precedente. Se io guardo un cubo, ad esempio, in qualsiasi posizione lo metta, egli nasconderà sempre a me qualche faccia, e così per qualsiasi altro oggetto. L’occhio non può cogliere, di nessun oggetto, la realtà, il volume, la totalità.

Penso che se noi possedessimo questo rigore visivo non potremmo avere una casa, dei vestiti, né ogni altra cosa. Cammineremmo tra prospettive che sempre si trasformano, non riconosceremmo nulla se non per rare, fortunate e casuali combinazioni. Andremmo a letto, metteremmo gli abiti su una sedia e il mattino dopo non riconosceremmo assolutamente nulla in quei panni appallottolati lì vicino.

Forse solo la sfera, allora, che non cambia da qualsiasi punto la si guardi... Solo la sua forma, però, perché anche nel caso della sfera non se ne può cogliere con gli occhi la totalità.

Pensiero a proposito della sfera:

Il mondo era un tempo perfettamente sferico, e così le altre forme celesti e lo stesso universo – secondo Hoyle – ha forma sferica. Questo poteva essere un curioso accorgimento di un eventuale Dio che volesse avere una visione delle sue creazioni. Ora anche la Terra è schiacciata ai due poli, si è come ribellata allo sguardo di Dio cambiando forma, non rendendogli più possibile il riconoscimento. È sfuggita al suo controllo.

Nel cielo capovolto un uomo si divide dalla sua ombra e la dà in pasto a un monotono verso di rane notturne.

Un filo di ferro teso da cosmo a cosmo allinea su di sé il suo perenne bucato: in fila, ancora impregnati d’acqua, stanno piccole fasce bianche, poi microscopiche mutandine, poi mutande più grandi, poi pannolini di spugna sporchi di sangue, poi busti sempre più grandi, sempre più attraversati da cinghie...

C’è qualcosa di travolgente nella vita: è la stasi.

Alle sei lunga contemplazione del mare. Con i piedi appoggiati a un remo, mi è parso di vedere in un istante tutto il mondo. C’è qualcosa che si disgrega continuamente dentro di noi...

Si preannunciava un temporale, che poi non è scoppiato. Quelli che si sentivano non erano tuoni veri e propri, erano rumori come di chi si aggiusti meglio su una poltrona, pareva che il cielo fosse costituito da diversi blocchi cubitali che si mettevano a posto. Erano simili a quegli accordi disordinati che gli orchestrali producono prima di iniziare il concerto e che si trascinano per un po’. Sopra i nuvoloni neri rotolavano questi strani rumori e tutta la gente fuggiva. Oggi alle sei c’era qualcosa di apocalittico nella spiaggia.

Ma adesso andiamo in pizzeria!

Spettacolo della luna sul mare. In cielo qualche leggera nube sfuma appena la luna che questa notte è leggermente rossa. Il mare è nero, percorso al centro da una lingua luminosa e vibrante. In mezzo al cielo c’è uno squarcio dentro il quale si possono vedere molte stelle. Lontanissima, si scorge la lucina di un aeroplano che carambola tra di esse. L’aria è percorsa dalle luci allineate lungo la riviera, da voci, suoni indistinti, dalla musica di un’orchestrina che suona chissà dove. Camminando lungo la spiaggia, uno strano effetto di pesantezza, come se la sabbia fosse infinitamente più pesante del solito, il cielo più basso, l’oscurità più nera. Le onde vengono a adagiarsi compostamente sulla riva bagnata e resa lucida dalla luce della luna. Il flusso e riflusso ritmico del mare è come un ansimare caldo e lento che sale dalla pancia buia della notte. Sensazione straziante di fugacità. Seduto su un moscone guardo il frangersi delle onde. A volte, in questa nerissima notte, un’onda si abbatte con un po’ più di forza sulla riva e forma per un istante un ricciolo di schiuma. Confusamente penso che così è anche l’umanità. Sarò almeno una di quelle onde delle quali intravedo appena per un istante il biancore nella notte?

Alle quattro si è alzato un gran vento. I nuvoloni pesanti ammucchiati l’uno sull’altro nel cielo stagnavano già da qualche ora sulla spiaggia. Si aspettava un grosso temporale, invece, anche questa volta, niente: si è levata d’un tratto una brezza leggera che poi si è trasformata in forte vento che ha dragato il cielo scompigliando le nubi, stracciandole in mille pezzi e gettandole infine al di là della linea dell’orizzonte, verso la Jugoslavia.

Sto tutta la notte a sentire le grida e i bagordi di una ventina di persone al piano di sopra. La pioggia ha lucidato le strade. Albeggia. La festa finisce. Uno dopo l’altro i festanti scavalcano la ringhiera del balcone e si buttano giù.

I suoni si compenetrano. La stasi si tende come un elastico.

Ogni giorno di più sperimento l’inadeguatezza, la falsità delle parole. Ad esempio: ci sono in questo momento due persone che scendono a fare il bagno, uno è un uomo, l’altra una donna, probabilmente la moglie. Sono circa quaranta metri più avanti di me, parlano, io non sento quello che dicono, si tengono per mano, lei ha in testa un cappello di paglia e porta un grosso paio di occhiali da sole. Una ciocca di capelli neri le esce dal cappello insieme a un nastro di velluto rosa ecc ecc...

Se io ora volessi, in un romanzo, descrivere questi due bagnanti mentre passeggiano vicino a x, personaggio principale dello stesso romanzo, direi: “x camminava lungo la spiaggia gremita di bagnanti, restò... fece... pensò... da ultimo decise di fare il bagno, si spogliò... si incamminò... vide (descrizione), oltrepassò una coppia che scendeva a fare il bagno ecc...”.

Ecco, io, così dicendo, non ho detto assolutamente niente. Non esiste nessuna possibilità di romanzo “realista”, tutto questo è solo mistificazione. Come ci si dovrà dunque regolare nella stesura di un romanzo, che cosa si dovrà scrivere senza doversi addossare la colpa di mutilare, stravolgere e banalizzare la cosiddetta realtà (magari dietro l’arrogante pretesa di volerla rappresentare)? Più onesto è, a mio parere, partire dalla povera parola che abbiamo e lasciare che essa, se lo può, porti a una qualsiasi concretezza, a un qualsiasi pensiero. Lo sbaglio, l’arroganza è di credere di poter porre un freno a questo distacco e a questa astrazione servendoci della parola piuttosto che far nascere una “realtà” aggrappandoci ed esasperando questa nostra astrazione. Non credo che porti a qualcosa di grande il tentativo di alcuni intellettuali di arginare questa crisi “costruendo” il nuovo romanzo. Penso che, al contrario, sia più onesto spingere ed esasperare la crisi fino in fondo.

Le parole hanno tre possibili campi di forza: quello “reale”, quello “sensazionale” e quello “totale”. Campi di forza che non restano necessariamente staccati l’uno dall’altro ma che si fondono e si accavallano continuamente, liberando il valore espressivo della più grande costruzione astratta su cui si basa l’estrinsecazione del pensiero, dei sentimenti, della conoscenza e di ogni altra cosa.

Lettura dell’Etica di Spinoza, un vecchio libro ingiallito rubato dalla libreria di una casa di vacanza presa in affitto ad Angera e portato di nascosto a Mantova.

Ogni cosa è due cose. La cosiddetta bellezza artistica nasce dal contrasto cromatico, dal contrasto tra oggetto e soggetto, tra interiorità e opera contemplata.

Tutto l’universo è mosso da due cose opposte (il buio e la luce, la vita e la morte, il flusso e il riflusso ecc...). Anche nella morale cattolica di bene e male (Dio-Demonio). Solo che i due concetti contrastanti hanno, secondo me, uguale forza, sono ugualmente motori, uno non è motore dell’altro (in questo caso Dio del Demonio). Quella cosa che hanno chiamato l’Ente, allora, è cosa staccata da Dio e dal Demonio cattolico, sta al di fuori dell’uno e dell’altro e li comprende entrambi.

Provo a dirlo con una figura:

Stelle in gola

Un cerchio diviso in due semicerchi (su ognuno di essi possiamo scrivere bene o male, Dio o Demonio, ecc...). Facciamo ora ruotare vorticosamente questo cerchio e immaginiamo che ogni semicerchio sia stato dipinto di un colore diverso. Girando vorticosamente il cerchio, dai due colori ne otterrò uno solo, che è la fusione dei primi due ma che è nello stesso tempo del tutto diverso.

Basta non muoversi e si vede tutto. Noi non raggiungiamo la verità non perché essa si muove e così ci sfugge, ma perché ci muoviamo e le sfuggiamo noi. Ma è anche chiaro che noi non possiamo non muoverci. In questo caso la verità si identificherebbe con il nulla.

Mi ero gettato sull’amore come su un telone di sicurezza da una finestra del ventesimo piano. Ma all’ultimo momento il telone si è spostato. Sono andato a sfracellarmi sul marciapiede.

La felicità e l’infelicità sono due punti opposti di una circonferenza che ruota su un perno:

Stelle in gola

Riuscire, accelerando al massimo la rotazione, a fondere questi due punti sarebbe, al momento, non dico la Felicità ma, perlomeno, l’unica felicità possibile. Questi due punti potrebbero rappresentare l’uno l’apertura verso gli altri esseri, il cosiddetto amore, l’altro l’impossibilità di uscire dalla prigione di se stessi. Bisognerebbe riuscire a fonderli, e si otterrebbe alla fine, forse, nient’altro che l’accettazione di se stessi. Nel migliore dei casi non un’ottundente e narcisistica vanità ma un rapporto vero, duraturo, di ampio respiro, propulsivo, profondo di cui saremmo nello stesso tempo il soggetto e l’oggetto.

Si può dire, allora, che l’ermafroditismo sarebbe l’unica forma di pienezza e di gioia?

Per sfuggire a una metafisica ne creiamo un’altra. Ci si continua a dibattere in una ragnatela di metafisiche sempre più fitte e più soffocanti, una di seguito all’altra.

Respirando miriadi di sensazioni frantumate, fino alla svolta che nasconde un paese di case, di finestre e di panni stesi. Mai come adesso la terra è un’ebollizione di fantasmi.

Lascio a ogni angolo una parte di me. Certo da qualche parte, lontano da qui, banchetti si imbandiscono con il mio corpo, tra rosmarino e profumi di mensa le mie membra squisitamente cucinate per il palato dei buongustai...

In quest’aria è sufficiente aggiustarsi la cravatta per sentirsi cadaveri eleganti.

Per non sentirci cose, anonime parti di un tutto, bisognerebbe cambiare continuamente ambiente, evadere ininterrottamente, sostare brevissime particelle di tempo in un luogo e poi lasciarlo. Bisognerebbe però sostare per un periodo di una brevità impossibile perché basterebbe un attimo per vedere almeno un oggetto (quella radio di legno, quella poltrona graffiata dal gatto, quella riproduzione del Piazzetta...) e quindi per riportarlo irrimediabilmente dentro di noi. Per non sentirci cose bisognerebbe essere non solo ciechi (poiché gli oggetti rimarrebbero in noi per mezzo del tatto, dell’udito ecc...) ma anche completamente privi di ogni forma di sensibilità, cioè non esistere materialmente, essere morti o come morti.

Ma, in questa pesantezza, tutto si solleva per aria...

Questa mattina, poco prima dell’alba, un sogno così nitido da sembrare una visione:

Correvo, come volando, a cavallo. Avevo già oltrepassato una china verde tutta coperta di uliveti, si vedeva già una barriera di rocce a picco sul mare. Il raggio celeste dell’alba ravvivava la bava attorno alla bocca del mio destriero e ogni cosa riaffiorava alla mia fantasia come se una lontana terra dimenticata avesse preso forma di fronte ai miei occhi. Tutto taceva, il cavallo, la mia bocca, tutto, anche il mare taceva. Arrivato al limite delle rocce, il cavallo si è impennato all’improvviso. Poi, con un balzo, si è tuffato dall’alto nel mare.

Il sole mandava i suoi barbagli luminosi fin sotto l’estensione dell’acqua e le creste lontane delle onde si illuminavano tutte di quella luce. Più m’inabissavo e più l’oscurità cresceva. L’acqua tersa lasciava intravedere una leggera superficie piena di macchie di luce sul nero fondale. Poi, all’improvviso, una stupenda visione è apparsa di fronte ai miei occhi bagnati: laggiù in basso, su una collina sottomarina, un immenso trono prendeva forma e, ancora lucente, mandava i suoi riflessi d’oro fino a me. Sopra di esso giaceva un pesante scettro arrugginito e tutt’intorno cento e cento troni minori coprivano l’intero fondo scintillante del mare. Su un cartello che torreggiava lì vicino c’era scritto: QUI GIACCIONO I TRONI.

Inebetito, mi sono avvicinato al trono più grande e mi ci sono seduto sopra. Ho preso in mano lo scettro. Un’enorme, violentissima scossa è corsa per tutto il mio corpo, un’immensa forza ha attraversato i miei muscoli e una potenza mai posseduta ha pervaso i miei pensieri e la mia voce. Al colmo dello stordimento, ho fatto per lanciare un grido, ma la bocca mi si è riempita d’acqua.

Allora sono rimasto muto, seduto sul trono.

Poi, faticosamente, ho cominciato a fuggire verso la superficie. I troni pian piano si inabissavano sempre più, le orecchie mi ronzavano sul punto di sfondarsi per la pressione, la pelle delle mie mani era raggrinzita come quella di un corpo appena nato. Finché, finalmente, ho visto balenare un lontano chiarore. Allora ho teso le mani verso l’alto, verso la luce.

Sono uscito dal mare, ho cominciato a risalire la china frastagliata delle rocce, e mi sentivo libero, leggero. Un solo pensiero non mi abbandonava: da quel momento ero un re.

Oggi, mentre camminavo lungo via Solferino, ho avuto all’improvviso la percezione di abbracciare tutto il cerchio della mia vita, dall’inizio alla fine, passato presente e futuro tutto in un solo istante, con una chiarezza definitiva.

“Morirò suicida” ho pensato.

Poi, così come è arrivata, altrettanto fulmineamente questa assoluta trasparenza è scomparsa e, sempre nello stesso istante, ho provato la certezza che non l’avrei mai più incontrata una seconda volta per il resto della mia vita.