STELLE IN GOLA

Ecco, la faccenda della solitudine, degli stronzi, dei cessi, degli acquerelli e delle stelle in gola è cominciata tanti anni fa.

Ero in seminario, allora.

Ogni tanto bisognava raggiungere qualche croce sulle montagne. Ci si arrampicava tra radici a fior di terra e sentieri franati per le piogge. Davanti a noi arrancava un abito talare afferrandosi ai rami, con gli occhi fissi alla croce, la borsa piena di pane, stecche di cioccolata e castagne arrostite.

Ma io non arrivavo mai. Mi fermavo sfinito vicino a qualche ruscello e lasciavo continuare gli altri.

«Moresco non arriva alla croce!»

«Moresco non arriva alla croce!» gridavano in coro.

Mi coricavo vicino all’acqua, ascoltavo le loro voci che si allontanavano, si affievolivano e si confondevano con i rumori del bosco. Mi masturbavo tra le radici.

Gli altri tornavano verso sera, cantando. Reggevano in mano rosette grasse di monte. Io me ne facevo regalare una e la piantavo in un barattolo di latta sotto i tigli del parco.

D’inverno la neve sui tetti verdi del tiro al piattello. La città di notte. Le luci.

La scuola era sotto la collina, nella città.

Fu andando a scuola che mi apparvero per la prima volta gli stronzi. Lo scenario era quello delle mistiche apparizioni di cui parlavano le storie dei santi che leggevamo in refettorio. Scalette di pietra, ciuffi d’erba...

Un giorno, durante la discesa, ci apparve uno stronzo sopra un gradino. Il giorno dopo un altro sullo stesso gradino. E così via per una settimana. Crescevano regolarmente, al ritmo di uno al giorno, ed erano sempre bene allineati sullo stesso gradino.

Prima di arrivare alla scaletta ci domandavamo se anche quel giorno ne avremmo trovato uno nuovo. Si facevano persino scommesse. Qualcuno azzardava anche delle diagnosi: questo è nero, è di un alcolizzato, questo è rosso, c’è dentro del sangue, è di uno con le emorroidi, questo è bianco, è di uno che ha mangiato i confetti...

La solitudine della chiesa. La sera, tornando dal refettorio, le stelle. Spalancavo la bocca, erano gelate e mi entravano in gola. Richiudevo la bocca per non lasciarle scappare. Correvo nel dormitorio e quando spegnevano la luce mi addormentavo con la bocca piena di stelle.

D’estate non mi accontentavo delle stelle. Prima di salire in dormitorio giravo tra le siepi tenendo in mano un portamonete aperto, di quelli con la molla. Acciuffavo le lucciole con le mani e ce le mettevo dentro. Le portavo nel dormitorio e quando tutti dormivano le liberavo nel buio. E le lucciole cominciavano a galleggiare nella stanza come stelle di carta su un lago ed erano più luminose persino del lumicino acceso sotto la statua della Madonna e andavano anche nei dormitori del piano di sotto e magari qualche prefetto stava peccando sotto le coperte e spiava il sonno degli altri quando vedeva entrare la processione delle loro lucine...

Dopo un po’ correva su qualcuno dei preti, infuriato, con la tonaca aperta infilata in fretta sul pigiama. Fingevo di svegliarmi di soprassalto alle sue grida, ma subito tornava il silenzio e io mi riaddormentavo scaldando le stelle con la bocca fino a quando si scioglievano come caramelle alla menta.

E le lucciole si spegnevano sotto le ciabatte dei preti, sugli occhi della Madonna, sui muri, nello scarico dei lavandini...

L’essere più sorvegliato in un seminario è “l’uomo dalle mani in tasca”, perché può sempre essere un potenziale “uomo dalla tasca bucata”.

Chiuso nello stanzino della doccia, una volta ogni quindici giorni, scoprivo frettolosamente il mio corpo mentre da fuori i prefetti colpivano le porte con le nocche dure delle mani, gridando di fare presto.

La nicchia.

Ce n’era una proprio sopra il mio posto in chiesa e ci stava dentro un San Giuseppe con un gran labbrone che a me ricordava un uccello nell’atto di alzarsi in volo.

Io l’ho seguito spesso. Di sera la chiesa era una stazione con tanti treni allineati. A volte tutto si sconvolgeva. I banchi mettevano ruote e partivano inseguiti dai sacerdoti carichi di paramenti a cavallo di candele accese (la fiamma era di dietro, segno che erano candele a reazione). Altri viaggiavano su immense ostie volanti. Altri cavalcavano i chierichetti e li guidavano con la corona del rosario. Questo di sera. Di mattina invece la chiesa somigliava a un’astronave. In sconosciuti spazi interplanetari uomini strani dissanguavano il dio Lob del suo invisibile sangue elettronico.

Le mani strette attorno al calice erano verdi insetti spaziali.

Comunque ho cominciato in quei giorni. Forse invidiavo San Giuseppe che aveva la sua nicchia. Mi andavo a chiudere nel cesso e ci restavo più che potevo. Fantasticavo.

Ho cominciato ad abituarmi a quel connubio di tristezza e di orina, di dolcezza e di cloro. Finché un giorno sono esploso. Ho preso di tasca una matita e tracciato un disegno osceno sul muro.

Sono restato a contemplarlo per molto e mi sentivo al sicuro tra quelle quattro pareti bianche e mi dicevo che ormai avevo anch’io la mia nicchia come il San Giuseppe con quel suo labbrone, come il pane eucaristico dietro lo sportellino dorato. Le colline. Il vasto orizzonte come una gengiva da cui spuntava isolato in fondo alla pianura il Dente della Vedova.

È successo il finimondo. Dopo un po’ un seminarista è tornato bianco e tremante dal cesso, ha riferito al direttore. Un gruppo di sacerdoti si è diretto verso il cesso e ci è restato per molto a confabulare. Sono arrivate le suore con mozziconi di scopa, barattoli di detersivo e grandi secchi d’acqua, probabilmente benedetta. Ci sono state inchieste.

Io più che altro pensavo alle stelle. Da un po’ di giorni soffiavano venti violenti e di notte le stelle erano più lustre e gelide che mai. Dall’alto le luci della città sembravano le stesse stelle del cielo riflesse in un immenso mare nero.

Poi la neve sulla pianura. Le luci diventavano più morbide e come sfumate e sembravano venire dal fondo della terra. Allora facevo palle di neve e immaginavo che in ognuna ci fosse nascosta una stella che si liberava dal suo involucro bianco non appena toccava terra. Tutta la pianura scintillava. Un bambino nasceva morto, asfissiato dall’incenso e dal cloro.

Quella notte mi sono alzato mentre tutti dormivano, mi sono chiuso nel gabinetto e ho vomitato tutto quanto, il torrone le stelle le lucciole e il panettone, poi ho scritto Stelle in gola sul muro e vicino ci ho disegnato anche una stella.

È stato la notte di Natale, e intanto il padre del bambino morto con una scopa immensa ammassava tutte le stelle dell’universo sulla mia testa per poi farle cadere attraverso una fessura del cielo sopra di me e sommergermi pazzo di dolore.

Quando sono tornato nel mio letto ho pensato per molto a tutta quella ghiaia sulla mia testa, finché anche il mio letto si è messo a galleggiare nella stanza inseguendo chissà quale orbita.

L’estate. Ci portavano in pianura, curavo le api e andavo con gli altri a fare il bagno nel Serio, con quei suoi sassi aguzzi che tagliavano i piedi.

Poi ancora un inverno.

La notte prima di andarmene sono rimasto a lungo, di nascosto, sulla terrazza e la città brillava da tutte le parti e solo per me nella sterminata pianura.

Fuori. Si poteva camminare con le mani in tasca per quelle strade che non finivano mai. Ascoltavo la radio e non parlavo con nessuno. Anche la radio si sconvolgeva. Le musiche si sovrapponevano e uno speaker gridava in una lingua sconosciuta, forse ungherese, poi il frusciare di tutto l’universo nella scatolina di plastica rossa.

Tutti i luoghi passati davanti ai miei occhi come su una pellicola.

Era chiaro che dovevo morire, sconvolgere l’universo.

Seguivo i binari della ferrovia. Uscivo di sera e andavo a mettere sassi sulle rotaie, poi aspettavo nascosto tra le canne che i treni deragliassero e che tutta la gente volasse fuori dai finestrini.

Davanti alla mia panchina il lago era una muraglia nera e le luci barattoli di vernice colorata rovesciati dall’alto.

Ho scoperto la letteratura. Prendevo un foglio e mi slacciavo i calzoni, poi creavo fantasmi femminili fino a che il cazzo non mi si drizzava e io osservavo il glande con quel suo testone rosso imbestialito e l’espressione idiota che mi guardava chiedendo pietà. Mi masturbavo e poi mi pulivo con il foglio stesso. Lo gettavo nel cesso e tiravo l’acqua. Ai posteri!

Una desolazione che ancora una volta sapeva di cloro e di orina. Non avrei mai cominciato a scrivere per nessun’altra ragione.

Poi ho scoperto i cessi, quelli di fuori. I cessi delle stazioni e uomini come mille altri che vi si chiudono dentro aspettando le coincidenze. Ricordare i luoghi da quell’odore di merda e di orina. Calcolare il tempo che passa. Su quei muri ho trovato programmi politici, richieste e offerte di matrimonio, sentenze di morte, sfoghi lirici punteggiati dai segni di chi si era dimenticato la carta. Il cesso è il quotidiano dell’uomo solo, la sua ortografia è tra le più sincere. A volte si trovano disegni di rara bellezza, donne nude che si masturbano disegnate da una biro che spande e lì vicino il grido del moralista:

Stelle in gola

Le idee non mi mancavano. Avrei scritto un romanzo a puntate, un cesso diverso per ogni puntata, così i critici avrebbero dovuto fare il giro dei cessi di tutta Italia per farne la recensione.

Non era facile, però. Infatti i guardiani dei cessi sono comprensivi con le parolacce e i disegni, ma sono spietati con tutto ciò che ha a che fare con l’espressione e la poesia.

Così per il momento ho deciso di dedicarmi alle arti grafiche. Mi sistemavo dentro il mio studio e prendevo dalla tasca una biro bicolore, col blu disegnavo l’intera figura e per la bocca e il sesso usavo il rosso. Il cesso si riempiva di paesaggi e di sfondi, in alto un cielo grigio e scrostato. Sono certo che, se mi portassero bendato in un cesso qualsiasi d’Italia, da un rapido esame dei disegni tracciati sui muri saprei indovinare dove mi trovo. Perché anche i cessi non sono tutti uguali. Nel Sud, per esempio, il livello artistico è molto alto, le pitture parietali sono aggressive e riguardano un po’ tutti gli argomenti. I cessi del Nord, invece, in un primo momento sembrano spogli e il visitatore inesperto potrebbe pensare che i nordici, più “evoluti”, abbiano trovato altri luoghi e altri mezzi per esprimersi e comunicare. Niente di più sbagliato. Infatti, se concentriamo la nostra attenzione sulle righe che ci sono tra mattonella e mattonella, scorgiamo subito grumi di inchiostro che la spugna non è riuscita a cancellare del tutto. Sono pagine di diario, poemi economici. Tutta l’ansia e la tristezza del nordico del Duemila sono racchiuse in queste fasce smilitarizzate tra mattonella e mattonella.

Inoltre, essendo queste le zone più direttamente toccate dal benessere, i cessi delle grandi stazioni del Nord sono spesso muniti di manopole in modo che il contribuente possa aggrapparsi durante la defecazione, evitando così di finire nel buco con tutti i suoi denti finti, angosce, cambiali da pagare e gioie domestiche. Amen.

Se in futuro, dopo un cataclisma atomico, uomini di altri pianeti capitassero qui e trovassero intatto solamente qualche cesso, potrebbero sapere tutto della nostra civiltà decifrando gli affreschi e i geroglifici sui muri. I cessi sarebbero visitati da turisti muniti di ventose e da uomini rana, così come oggi si visitano le rovine di Ercolano e Pompei.

Ma ben presto la biro non mi accontentò più, un po’ perché spandeva, un po’ perché il suo segno era troppo sottile. Passai al lampostil. Allora disegnavo dappertutto grandi stelle. Attorno ci tracciavo anche la cornice, e sopra ancora persino la cordina col chiodo.

Ci passavo anche delle ore. Sistemavo per bene la sciarpa e il cappotto sull’attaccapanni di filo di ferro, tiravo fuori di tasca gli attrezzi di lavoro. Il mio studio si trasformava in un ambientino molto accogliente. Ci mancava solo la televisione.

Però anche del lampostil mi sono stancato presto. Adesso volevo i colori.

Così ho comperato una scatola di tempere che potesse starmi in tasca e un piccolo recipiente per l’acqua. Andavo a dipingere soprattutto nei cessi delle stazioni e ormai il tempo che ci stavo dentro non lo calcolavo neanche più.

E pensavo sempre che dovevo sconvolgere l’universo. Di parolacce ormai non ne scrivevo più, tranne qualcuna ogni tanto per non perdere l’esercizio. Le piazzavo proprio vicino ai cieli stellati, così, per non sbilanciarmi troppo.

Allora sognavo suicidi collettivi. Lasciar vuoti i palazzi, i giardini, le case, come un teatro dopo la recita, come un granaio abbandonato. Esaminavo tutti i possibili tipi di morte. Pensavo di impiccarmi in un cesso, dopo avere scritto sulle pareti le parole del Golgota:

Stelle in gola

E pensavo alle campagne della mia infanzia, alle colline e agli autunni tutti viola e gialli, alle vendemmie, le forbici che non si riuscivano più a chiudere, bloccate dagli zuccheri dell’uva, e quando ci buttavamo nel tino coi calzoni corti e i piedi polverosi di cantina, il mosto nella scodella di legno, vino acquoso per ubriacare la mia esistenza.

Intanto anche i miei mezzi di comunicazione si evolvevano. Le tempere avevano lasciato il posto alle matite colorate, che erano più pratiche e più efficaci per lo sfumato. Disegnavo grandi Ofelie nude lungo le correnti dei fiumi, oppure impigliate nelle lunghissime stelle filanti di un ipotetico carnevale cosmico.

Di sera il ricordo dei monti. Con la faccia rovesciata contro la sera vedere i monti annegati nel firmamento,

Stelle in gola

I ricordi, la morte nella stanza più buia della casa. Entravo e mi fermavo in un angolo a guardare, ci stavo per delle ore. Mi sembrava il posto migliore dove io potessi stare. Osservavo senza un pensiero la vecchia che amavo tirare le cuoia. La lingua come un bastone, la schiena bucata dalle piaghe, che le lavavano ogni sera. I movimenti automatici attorno a lei. Il flusso dei ricordi visti attraverso il delirio, quando cambiava voce e si aprivano nella sua memoria squarci luminosi oppure orrendi. Chiudeva gli occhi, tremava. Sembrava godere. La maschera dell’ossigeno che l’infermiera avvolgeva con cura nel cellophane dopo l’uso. Io registravo, filmavo, di più non potevo fare.

Stava morendo. Sconvolgeva l’universo?

Quando è diventata dura ho pensato ecco, ecco in questo momento, ecco un animale uomo, uno dei tanti, di sesso femminile, è crepato, sono saltate le valvole, sono saltati i pistoni.

Lì vicino le suore hanno cominciato di colpo a biascicare, automaticamente.

Allora sono corso fuori con la moto. La strada delle colline, gli alberi volavano ai lati, il vento mi scartavetrava i lineamenti del volto. Arrivai al lago dove c’erano le montagne e l’acqua e gli ulivi e il sudore dei corpi e la vita.

Ho preso una barca e l’ho lasciata andare dove l’acqua la portava e intanto mi dicevo morte, morte, vecchia puttana vestita da suora non riuscirai a venirmi alle spalle perché sarò io a vederti per primo e ti verrò incontro e ti strapperò di mano la falce, se la terrai molto stretta ti strapperò anche la mano assieme a essa e se mi uccidi ucciderò anche la morte, se mi mozzi la testa anch’io ti mozzerò la testa e gli darò un gran calcio e la farò rotolare nel pozzo della tua fasulla eternità mentre la bocca continuerà a gridare bestemmie e la lingua a sputare sangue e stelle.

È stato un periodo ricco di attività artistiche. Disegnavo con le matite colorate preti nudi chiusi dentro le loro polverose sagrestie. In mano reggevano un’ostia con la quale cercavano di coprirsi il cazzo.

Ricordare è come guardare contro un muro, dare un senso alle porosità della calce, costruire folle sulla nuda estensione di un soffitto.

Le corse in macchina attraverso la notte, sul vetro passavano alberi e luci contro il profilo immobile dell’autista e io mi dicevo che gli Assiro Babilonesi, gli Ittiti, le civiltà del Fiume Giallo, del Nilo e dell’Eufrate non avevano visto quelle composizioni astratte sul vetro di una macchina. E mi domandavo cosa tutto ciò potesse significare.

Le notti. Il faccione del cielo con le sue narici, i suoi occhi, i suoi denti di ferro e tutto quel dilagare di lentiggini nello spazio. Avrei voluto un cesso col soffitto a cupola e la cupola doveva essere colorata d’azzurro con tante stelle dorate, quelle di carta che si attaccano sui cieli dei presepi, sui muri quella polverina dorata che si vede sulle ali degli angeli nelle cartoline di Buon Natale. Per riuscire finalmente a volare.

Sì, perché da bambino volevo imparare a volare e gli adulti mi dicevano che, per poterlo fare, dovevo cospargermi le braccia di polvere d’oro. Allora prendevo un coltello dal cassetto della cucina, raschiavo via la polvere dorata dalle cartoline e me la facevo cadere sopra le spalle e sulle braccia e poi sbattevo le ali senza successo in un angolo buio del cortile, sotto gli occhi gelati delle stelle.

Forse se riuscissi ad avere un cesso così, con le stelle e la polverina dorata, voglio dire, forse riuscirei finalmente a volare.

Un giorno un viaggiatore impaziente si domanderà perché il cesso resta sempre occupato, griderà per sapere se c’è dentro qualcuno, poi chiamerà il custode. Dopo un po’ sfonderanno la porta, certi di trovarci dentro un suicida in un lago di sangue. Dalla porta sfondata uscirà invece una luce immensa e mi vedranno sospeso a un metro dal suolo. Sarò lontano, librato su un paesaggio di water ingorgati e mattonelle ditate. Mi solleverò piano piano sulla città, volando sulle case che cominceranno a spegnersi per la notte, agitando benedicente lo scopino per cacciar giù la merda.

Quando curavo le api con la veletta davanti agli occhi. E quando facevo andare la centrifuga e inscatolavo tutto ciò che le api avevano raccolto volando fuori dalle mura del convento, nei campi di trifoglio e di ravizzone. Il miele in gola era una promessa di libertà.

Ma un giorno ho fatto una stupidaggine: ero appoggiato al muro del convento e guardavo la punta del campanile quando un’ape ha cominciato a volarmi vicino. Mi è preso un improvviso desiderio di sentire il sapore del miele e continuavo a ripetermi che quell’ape doveva esserne piena. Così ho deciso di catturarla con la bocca: con un morso l’avrei uccisa prima che fosse riuscita a pungermi, poi me la sarei mangiata.

Però non sono stato abbastanza svelto e l’ape mi ha punto proprio in fondo alla lingua, che si è gonfiata tanto che a un certo punto mi è parso di non poter più respirare. Mi svegliavo nel letto e mi sembrava di soffocare, andavo di nascosto alla finestra del dormitorio e ci restavo a lungo guardando la notte immensa sulla pianura e il campanile del convento e l’altro, quello del paese, e più la lingua mi faceva male e più mi infuriavo e sotto i miei occhi i campanili diventavano enormi cazzi e che lo mettessero loro nel gran culo nero del cielo fino a farlo sanguinare, il sangue colasse pure dalla polpa delle stelle e scivolasse lungo i muri dei campanili fino a coprire quella stupida terra addormentata di un sugo rosso fino ai poli, il sangue della Redenzione.

Stelle in gola

Natale in riviera. I cenoni di capodanno. La grottesca follia del lungomare. Vecchie borghesi e contesse semicieche venute a svernare, allineate sulle panchine a gambe spalancate, carni staccate dalle ossa, inconsistenti come preservativi e in mezzo ancora grovigli di nylon, finimenti pendenti e in mezzo ancora un allegorico bastone col manico d’avorio.

Alla sera la sfilata davanti al golfo notturno. I gabbiani. Il lungomare si trasforma improvvisamente in una passerella di moda. Ragazze giallognole con scheletri dinoccolati avvolti in abiti multicolori e multicolori riflessi di lamiere su una passerella spaziale. Le mogli degli impiegati incantate di fronte a un pachiderma appoggiato a una Maserati che le guarda con la faccia da maiale, muovendo la mano nella tasca. Le luci della riviera, le notti di Sestri e di Santa Margherita. L’alta borghesia ha firmato un temporaneo patto di sopportazione con la piccola borghesia venuta giù a spendere la tredicesima. L’Italia-bene è affacciata alle ringhiere davanti al mare per chilometri e chilometri con i crani sospesi nel vuoto. Di colpo le teste si gonfiano tutte assieme come preservativi in un orgasmo smisurato, si staccano dai corpi e si alzano come palloncini sopra il mare. Sono teste variopinte e leggere col filo spezzato. Si alzano a grappoli nella notte e il becco dei gabbiani le fa esplodere.

Il mattino dopo le strade sono deserte, solo alcuni pescatori che rammendano le reti. Su tutto il golfo galleggiano i variopinti resti dei palloncini.

Poi c’è stata la ragazza con la quale andavo a camminare sulla montagna lungo le siepi piene di lucciole. Ogni lucciola era una stella che aveva smarrito la strada che le era stata assegnata per l’eternità.

La notte quelle due lucciole morte su una siepe. Avevano ancora qualche segmento illuminato e lei ne ha presa una in mano, l’altra l’ha data a me. E andavamo per quella strada che portava al castello, ciascuno con una lucciola morta nel palmo della mano. Io guardavo lo spazio dalla parte del lago, i covoni notturni, i ramarri tra i sassi, il cielo che si accartocciava dietro le montagne, la mia mano, la mano della ragazza, che sembrava fatta apposta perché vi morisse una lucciola. La sera scendeva come un aereo in picchiata e le macchine che venivano giù dal monte portavano in giro due scodelle d’acqua illuminata. E altre macchine portavano in giro come candele i loro lumicini sul dorso delle colline, dall’altra parte del lago.

Fantasticavo su posti che non avevo mai visto, mi sbucciavo come una cipolla senza mai arrivare all’ultima pelle.

I battelli illuminati sul lago e le veglie dietro le finestre spalancate, crocefissi a tre stelle dell’Orsa nello spazio.

Su di lei le parole e le cose erano come secchi d’acqua contro uno specchio. Io ora non so più niente di lei. Comunque allora. Però in mezzo a tutto quel casino. E il solo fatto che respirasse. E che in questo caos squinternato potessi sentirmi dire C CO COS COSA COSAVUOICHEFACCIA? E che potessi dare un senso concreto a questi suoni tanto da poter rispondere R RE RES RESPIRA RESPIRASOLTANTO, e che in questo caos squinternato ci fosse una squinternata forza di attrazione e di repulsione che fa girare la faccia al girasole, che sposa un atomo di Na con un atomo di Cl negli abissi della materia...

L’aria della notte e le luci, le solite pazze luci per l’universo e le altre, le pazze luci a forma di lingua attraverso il lago.

Alle tre il temporale, una gran pisciata, sul legno marcio del porto, odore di pece e di catrame nel cantiere, le strade lucide, le strade bagnate, come le scie, come le scie di enormi lumache.

Le ho scritto un’ultima poesia d’addio, sulle pareti di un cesso di Stresa:

Così forse è meglio, mia cara

che ognuno vada per la sua strada

è che qui raggiungi qualcosa

solo se metti i piedi sulla testa di un altro

qui ci sono solo

rumori che impregnano l’aria

e i rumori sono sempre il suono

di qualcosa che si allontana.

Finiamola così questa sera

per te c’è ancora un pezzo di strada

prima di giungere a casa

per me c’è qui questo vecchio

Stelle in gola

Questo è quello che ti volevo dire

questo o parole che ci assomigliano.

Ora lasciami in pace.

Poi ho passato un lungo periodo come in un acquario. Mi muovevo nella vita come in una strana vegetazione di alghe e di coralli, strisciavo col ventre sulle strade come se fossero di vetro. Quando camminavo abbassavo la testa per non sbatterla contro il cielo. Tutto l’universo era un insieme di suoni e di luci che volavano stampati nell’aria. Alle otto di sera ciondolavo sui selciati e da tutt’intorno veniva il frastuono dei piatti nelle case, i rumori dei televisori e densi odori di minestre e di soffritti. Allora spostavo appena con la punta del piede un piccolo, piccolissimo sassolino finito contro il muro e mi dicevo ecco, adesso sì che ho sconvolto l’universo, l’ho modificato nella sua essenza, nulla sarà mai più uguale a prima.

E una gioia ribelle mi faceva pensare comunque posso ancora amare la curva impercettibile del fiume, la parabola delle voci, tutto il bazar della storia e dei sentimenti. Ecco, io vi lancio questa sfida.

Mettevo bucce d’arancio sui cerchi della stufa. Le bucce diventavano nere e si accartocciavano, si diffondeva attraverso la stanza il loro aroma.

Quei giorni sono stati tutti profumati d’arancio, la stufa era come certi tramonti con chiazze arancione tra le nuvole nere, le bucce sciamavano per la stanza come le lucciole di un tempo, come le stelle, e io sapevo che morendo non si sconvolge l’universo, che siamo parte indistinta di un magma immenso, come le stelle e gli spazi o, se volete, come bucce d’arancio sopra la stufa. E bastava tuffarsi nel fiume immenso di un’esistenza che continuamente si rigenera dall’interno come un bulbo di patata nel fondo della terra. E bastava che mi dicessi sono vivo perché la giostra riprendesse a girare con le sue luci e i suoi spaventi, trenino fantasma attraverso il cielo e le filosofie, con le stelle che facevano l’autoscontro dietro le nebbie che coprivano la mia città, gelide come sopra il mio cortile, sopra la terra profumata d’arancio, nascosta nelle foglie della magnolia, nel minuscolo corpicino delle lucciole, paradossali.

In quei giorni mi capitava di scrivere poesie su dei pezzi di carta che mi trovavo per le tasche. Giravo molto e a volte nelle stazioni mi succedeva di dover correre d’urgenza al cesso per il freddo. Allora tiravo fuori di tasca le mie poesie e mi ci pulivo il culo senza rimpianti.

Quasi tutta la mia produzione in versi ha fatto quella fine. Sono certo che quando morirò troveranno la più grande opera poetica del Novecento sul buco del mio sedere.

Io sono un figlio della guerra.

Certe volte penso a come tutta questa storia è cominciata. In una stanza sigillata e con la stufa accesa. Penso a mio padre di ritorno dalla guerra, penso a mio padre di ritorno dalla prigionia.

Mio padre era appena tornato dalla prigionia, aveva perso molti denti, restava tutto il giorno chiuso in una stanza e aveva sempre freddo perché era abituato al caldo dell’India e del deserto. Dovevano tenere una stufa sempre accesa nella stanza, anche in pieno agosto, eppure batteva i denti, la finestra sempre chiusa perché non tollerava la luce, non poteva vedere la gente.

Guardava in strada attraverso le fessure delle ante, spiava il mondo. Aveva nella cassapanca il pepe indiano e il tè e un portachiavi scolpito che era stato un tempo una gavetta: con la punta di un chiodo ci aveva inciso sopra un Budda in preghiera e un incantatore di serpenti.

Ecco, certe volte penso che tutta questa storia è cominciata in quella stanza buia e rovente, col pavimento di legno, che è in quella fornace che sono stato concepito. Quando vedo mio padre mangiare a occhi chiusi con la faccia nel piatto, mio padre e le notti col coltello sotto il cuscino e un sacco di riso per barricare la porta quando diventava folle. Mio padre che muove a lungo il cucchiaio nella minestra e ci vede dentro le macchie dell’olio, come crateri di bombe, poi le macchie si muovono e si scontrano e allora pensa a quando gli inglesi li hanno presi prigionieri. Al Cairo. Ce l’ha con gli arabi perché mentre passavano ammassati sui camion sotto un ponte quelli gridavano «Fascisti!» e «Mussolini!», e si tiravano su quei loro sottanoni e gli pisciavano addosso. Poi l’India. Ce l’ha con gli inglesi perché li avevano sepolti nel Bopal, dove morivano come mosche, dove aprivi un rubinetto e veniva fuori un dente di coccodrillo.

Gira il cucchiaio nella minestra e non parla con nessuno, guarda il televisore. Ci vede dentro due uomini che si muovono leggeri e tutt’intorno ci sono crateri come di bombe, come macchie d’olio nella minestra. Mio padre alza ogni tanto la testa dal piatto per guardare i due uomini che si muovono lentissimi sulla luna, chiusi nei loro enormi scafandri, in un mondo deserto e senza peso. Che piantano una bandiera piena di stelle proprio sotto il suo naso, nel piatto della minestra.

La notte di Santa Lucia sulla panca dell’anticamera col cuore in gola. Non prendevo neppure fiato perché sentivo il rumore del campanello lungo la scaletta e allora voleva dire che Santa Lucia stava arrivando carica di doni in groppa all’asinello. Stava arrivando e io non fiatavo neppure. Ma mio padre mollava una tremenda scorreggia e poi rideva, rideva perché io scoppiavo a piangere pensando che se Santa Lucia ci sentiva sarebbe corsa via senza occhi nella notte. Ma poi si andava in cucina e c’erano tanti bei regali, carri armati, sciabole di latta, fucili, e se per terra c’era tutto quel bagnato non poteva che essere stato l’asinello che aveva pisciato sul pavimento per la paura, sentendo di là della porta la voce potente di mio padre.

Certi giorni veniva mio zio Napoleone che guidava i treni e aveva le unghie nere di carbone e un grosso orologio da taschino. Quando ripartiva correvo sui tetti e vedevo da lontano la stazione davanti al lago e mio zio che passava alla guida del treno, facendo fischiare a lungo la locomotiva per salutarmi, e io sapevo che quel fischio era solo per me che lo stavo guardando dall’alto.

Pensavo alla mia famiglia sconosciuta, a mio zio Demostene che era stato in Jugoslavia e poi in Brasile, che un tempo girava da solo per il paese, faceva figli con le prostitute e si ubriacava dalla disperazione. Mio zio senza lavoro, mio zio minatore in Belgio e in Istria, mio zio sbattuto fuori anche da lì ed emigrato in Brasile. Quando volevano spaventarmi dicevano che avrei fatto la sua fine. Lo zio che si era rovinato per la politica e che era partito con la nave degli emigranti.

Allora pensavo solo a quello zio che avevo visto in fotografia e che aveva la mia faccia. Mi coricavo sulle tegole e guardavo il cielo. Il tetto era la terra e il glicine il mare.

Sono arrivato a Milano che era autunno, il giorno che è morto Che Guevara. Guardavo il treno e la gente nella nebbia e pensavo che stavo per iniziare una nuova vita. Avevo la morte in cuore, ma pensavo al sorriso del Che sul lavatoio di Vallegrande.

La mia nuova casa non aveva il glicine e il lago. Stavo appollaiato lassù, in cima a un casermone come una scimmia, e pensavo che avevo sbagliato tutto, che ero partito alla cieca, che il mio futuro era quella stanza buia e i miei amici le ombre mostruose proiettate dalla candela contro i muri.

La città era lontana, in fondo allo stradone nero con le sue tentazioni a bocca di pesce e i mille fuochi per incendiare il cuore del viandante.

Quando veniva notte spalancavo la finestra e guardavo nei mille teatri a forma di tomba che avevo davanti, nei mille forni del palazzo di fronte, dove la gente sola si toglieva i vestiti dietro le tapparelle socchiuse e si masturbava come nelle fornaci dell’inferno e scambiava cenni d’intesa, linguaggi mille volte sperimentati con qualcuno del palazzo di fronte che io non vedevo, sei o sette piani sotto di me, amico o amica sconosciuta di quell’ora di solitudine, si toglieva i vestiti per dire sono cento notti che aspetto che tu torni dal lavoro e ti spogli, cento notti con un grosso verme che mi scappa dalle mani e striscia sul tuo corpo, cento notti con gli occhi a ventosa incollati alla tua finestra, storia d’amore del ventesimo secolo nel ghetto di una metropoli, io e te e tutti i nostri bambini invisibili, irrealizzati, sospesi nei trenta metri di notte che ci dividono.

Ed era ancora come nelle nicchie dei santi, nei cessi che si moltiplicavano e si illuminavano davanti ai miei occhi, i mille cessi-alveare dove la gente si lasciava oscenamente andare col cuore in gola, le monte selvagge e clandestine dei giovani, i pesanti colpi metodici dei vecchi e poco più in là la sega, il pompino e donne angelo che offrivano un sogno scatenato a un occhio appiccicoso nell’oscurità.

E i bambini che nascono e i vecchi che muoiono e le giovani donne, crisalidi farfalle bruchi nei bozzoli di cemento, con le ali trapassate da un occhio immondo, col sesso spalancato, chiocciola conchiglia marina sopra una spiaggia carbonizzata.

Stavo appollaiato lassù e pensavo a tutti quelli che avevo lasciato senza neppure un saluto. Avevo la morte in cuore. Ma pensavo al sorriso del Che sul lavatoio di Vallegrande.

Non ho chiuso occhio tutta la notte e ho la febbre addosso. Per ore ho spiato nel buio il palazzo di fronte con le sue bocche aperte nella notte e mi dicevo che forse tutto tornava al punto di partenza, a quella stanza buia, alla finestra dalla quale mio padre spiava il mondo, ciclo orribile tornare nei lombi della notte con una stella che già si spegne.

Una storia può finire con una porta che si apre e con una finestra che si chiude. Certi chiudono la porta e aprono la finestra. Io chiudo porte e finestre e scendo in strada. Alle sette di mattina a Milano ci sono quegli stronzi coperti di brina agli angoli delle strade che se li pesti scivoli come sul ghiaccio. Sono così grossi che sembrano umani. Prendi il giornale per sapere cos’è successo e quando l’hai letto sembra che ti sia pulito il culo con le dita.

Riprendo a camminare verso la mia periferia lontana, verso l’anello di Saturno attorno alla città, dove ci sono mucchi di rifiuti, dormitori, pattumiere giganti, montagne di carbone e nuvole di ruggine rossa e ancora montagne di immondizia del gran banchetto che si celebra ogni giorno sotto gli occhi d’oro della Madonna, sulla guglia più alta del Duomo, dove ci sono i grandi palazzi di vetro e gli uffici delle grandi società industriali, delle assicurazioni, e le grandi banche ovattate con gli immensi forzieri nascosti sotto terra in vasche d’acqua, come stive affondate piene d’oro e di carne umana vomitata, dove in ascensori spaziali dentro l’acqua muta attraversata dai mille raggi rossi e gialli delle fotocellule uomini bianchi come vermi e senza occhi, abitanti delle oscure cisterne senza suoni, scendono direttamente nel ventre della stiva affondata e con firme piccole come granchi aumentano la velocità delle immense ruote dentate con la mano metallica dello schiacciateste che disintegra un cervello al secondo spappolando pensieri che non potranno mai più essere pensati, da nessuno e per sempre, fino alla consumazione dei secoli...

Quante volte nel dormiveglia ho immaginato una fila di camion proveniente dalla parte del lago di Mantova e una fila di cavalli e bandiere e il crepitare delle mitragliatrici... E quando entravano in piazza Sordello i camion sobbalzavano sull’acciottolato e gli uomini alzavano al cielo grida e bandiere e gli zoccoli dei cavalli contro i sassi facevano scintille e le scintille volavano nel vento delle bandiere al di sopra della città come le stelle di un tempo.

Poi entravano nel budello del Corso e dalle finestre delle vecchie case volavano giù occhiali a stringinaso e manichini di paglia che si conficcavano nelle picche delle bandiere.

Com’era bella la mia vecchia città quando la sognavo insorta e camminavo con l’amico in tuta verde e con la maschera antigas fino a un grande magazzino appena aperto dove le camicie da notte e le mutandine erano tossiche e non potevi annusarle senza la maschera antigas e le commesse e le padrone rincorrevano tra i banconi l’amico che alla fine travolgeva tutto e finiva sotto una montagna di biancheria sintetica. Quando alzava la testa, un paio di mutandine a fiori pendeva dal filtro della sua maschera antigas.

Poi scendeva la sera e il cielo d’estate si riempiva di scintille e per i vicoli cominciavano a sciamare le strane comparse del mio sogno e le bandiere erano attorcigliate attorno all’asta e un cavallo cagava all’angolo di Vicolo Frutta e le strade si riempivano del solito rumore dei televisori e degli odori di soffritti e gli anarchici pisciavano contro un muro vicino alla loro sede e una vecchietta spalancava la finestra e gridava al vicolo che c’erano gli anarchici che pisciavano sulla sua rosa, che c’erano gli anarchici che stavano facendo la guerra biologica al suo rosmarino mentre due pretini scendevano per la strada di ciottoli che c’è a fianco del Duomo al ritmo di una musichetta d’altri tempi fino a quando uno dei due pestava una merda e allora la musichetta si interrompeva e il pretino si metteva a ciabattare infuriato, pulendosi la scarpa contro lo spigolo del marciapiede, e quando aveva finito riprendeva a scendere serafico per la stradina e di nuovo veniva quella musichetta e il cielo era tutto pieno di scintille.