Avevo cominciato con esercizi preliminari: piegamenti, flessioni, punte a terra, palme a terra...
Una di quelle notti Lenin mi era apparso in sogno in una stanza miserabile e buia. La luce entrava da una finestrella contro il soffitto e le altre persone, di cui avvertivo la presenza, non si vedevano, forse erano rannicchiate o sedute sul pavimento o appiattite sul fondo buio di quell’enorme locale che sembrava un sotterraneo, una cantina. Lenin era seduto vicino a un tavolo, girato di schiena. La sommità del suo cranio nudo spuntava dal bavero rialzato di un pastrano unto che emanava un odore fetido di tabacco e sudore. Gli ero girato attorno per capire chi fosse e finalmente l’avevo riconosciuto, anche se sembrava decrepito, gli occhi pieni di rughe, la barba non curata. Avevo cercato di parlargli. Lui mi aveva guardato e sulla sua faccia un sorriso spaventato aveva scoperto per un attimo il buco della bocca senza denti. Doveva essere ubriaco. Aveva ficcato tutte e due le mani nelle tasche del pastrano. Ci frugava dentro. Dopo una lunga ricerca aveva tirato fuori un oggetto insolito, si era premuto contro la gola una macchinetta che emetteva vibrazioni affannose, indecifrabili. Soltanto allora mi ero accorto che attorno al suo collo era legata una pezza bianca per nascondere il buco della laringectomia.
Raggiunta una certa elasticità, mi ero iscritto a una palestra dove si tenevano corsi di addestramento per varie discipline. Avevo scelto quello di scherma perché, prima di cominciare a prendere in mano il fioretto, per un lungo periodo si eseguivano esercizi alla spalliera, alle parallele e a corpo libero.
Erano passati alcuni mesi. Sentivo che le mie membra cominciavano piano piano a sciogliersi. Nei pomeriggi più caldi prendevo una barca e remavo fino ai più lontani punti del lago che circonda Mantova e mi lasciavo dondolare sull’acqua, scivolavo dietro qualche canneto e mi denudavo. Spesso, passando vicino a certi grandi fiori di loto che galleggiavano immobili, mi sporgevo sull’acqua e, a forza di braccia, ne caricavo uno sulla barca perché mi facesse compagnia, liberandolo dall’intrico ombelicale di cordoni e di alghe di palude nella solitudine piena di occhi di rana. Riprendevo a remare compiendo lunghi giri sull’acqua ferma e il fiore stava immobile di fronte al mio corpo nudo e si lasciava portare dove volevo. Le sue grandi foglie bruciate dagli scarichi industriali oltrepassavano i bordi della barca e ricadevano nell’acqua. Intanto continuavo a pensare: “Io vivo a Ugarit e tu a Enkomi in Mesopotamia, con i morti sepolti sotto le case. Nel deserto si sollevano nuvole di polvere rossa, stanno arrivando gli eserciti di Babilonia”.
Avevo iniziato a consultare libri di scienze naturali ed enciclopedie mediche. Studiavo soprattutto la colonna vertebrale, le sue possibilità di piegarsi al massimo senza spezzarsi. Ma tutti questi libri, dopo avere fornito un gran numero di particolari, non sapevano alla fine dire nulla di quanto mi interessava. Cos’era in realtà la colonna vertebrale? Ne potevo sapere di più tastandomi la schiena con la mano. Che fosse in realtà una cosa calcolata? Tutte le vertebre sono, come s’è detto, sovrapposte in modo da formare una colonna, lunga in media settantacinque centimetri, non diritta ma con due caratteristiche curve anteriori e due posteriori, a guisa di doppia S. I fiorami vertebrali si corrispondono e ne risulta un canale, detto canale vertebrale, nel quale è racchiuso e protetto il midollo spinale. Inoltre, tra una vertebra e l’altra, è interposto, a guisa di cuscinetto, un disco cartilagineo o disco invertebrale. La curvatura anzidetta, insieme alla presenza dei dischi e delle articolazioni tra vertebra e vertebra, fa sì che la colonna vertebrale non sia un tutto rigido ma possegga una certa elasticità e flessibilità atte a impedire in caso di caduta contraccolpi violenti al capo o pericolose fratture.
Mi alzavo tardi la mattina, facevo esercizi per almeno mezz’ora in una grande stanza buia, sotto un lucernario. Finché ero passato alle prime applicazioni sul pavimento duro della mia stanza. Mi ero piegato in due, completamente, con la faccia a poca distanza dai testicoli e dal pene che, visitato da quello strano muso di uccello antidiluviano, aveva compiuto un breve spostamento, si era gonfiato un po’ e poi si era drizzato ma, siccome la sua sommità era ancora a una lingua di distanza dalle mie labbra, non mi era restato che bagnare di saliva la minuscola bocca rossa che si apriva nella sua testa senza occhi, spalancata e chiusa da due dita della mia mano.
I giorni successivi avevo intensificato gli esercizi, prima di passare a una nuova applicazione. Remavo fino alle canne lontane, catturando gli ultimi fiori di loto bucati dopo un braccio d’acqua in cui non c’era più traccia di alcuna forma di vita, né batteri o microrganismi. Ormai era chiaro: mai sarei riuscito, attraverso la sola spinta dei muscoli, a piegare fino in fondo quella quantità enorme di ossa, nervi e cartilagini. Occorreva l’intervento delle due mani che, passando sotto le gambe un po’ sopra le ginocchia e fuoriuscendo dall’interno di esse, afferrassero la testa e la tirassero giù.
Ci avevo provato una notte nel piccolo cerchio della lampadina, mentre dalle tre porte che davano sulla mia stanza venivano i rumori del sonno degli altri. Guardavo le porte e mi sembrava che, se si fossero aperte, l’intera notte si sarebbe di colpo scoperchiata. Avevo dato un primo strattone con le mani e per un attimo la testa del pene era entrata tutta dentro la mia bocca. Il midollo spinale è un cordone cilindrico di sostanza nervosa che, in continuazione diretta col bulbo rachidinoso, attraversa il forame occipitale e corre nel canale vertebrale fino all’altezza della regione lombare. Avevo allentato la pressione delle mani e la testa si era risollevata un po’. Mi pareva che i rumori provenienti dalle tre stanze fossero cresciuti di intensità, come se le tre bocche spalancate nella notte operassero adesso in un’enorme cavità senza suoni. Mi aveva assalito un improvviso terrore: forse la colonna vertebrale si sarebbe spezzata, paralizzandomi per sempre in quell’oscena contorsione, alla vista di tutti. Mi avrebbero disposto sopra un tavolo e ogni visitatore della casa mi avrebbe guardato con un misto di compiacimento e di orrore. Così sarei vissuto ancora molti anni. Invecchiando, la cosa sarebbe apparsa sempre più indecente e spaventosa. Per nutrirmi avrebbero dovuto estrarmi il pene dalla bocca, facendo attenzione perché i denti non lo strappassero, e poi introdurre i brandelli di cibo facendomi stare capovolto. Per farmi orinare avrebbero dovuto estrarre di nuovo il pene eretto dalla bocca, torcendolo da una parte. Quando poi avrei dovuto defecare, un foglio di cellophane sulla faccia avrebbe impedito l’estremo oltraggio di ricevere gli escrementi contro gli occhi. Per permettermi di leggere, infine, mi avrebbero rovesciato sulla schiena, posandomi il libro aperto sulla parte posteriore delle cosce: così, tra le gambe leggermente aperte, avrei potuto vedere le parole da una vicinanza estrema.
Avevo capito di non avere studiato a sufficienza le implicazioni nervose di quanto stavo facendo, partendo dall’encefalo del quale sapevo solo che era una massa molle, di colore grigiastro, che esternamente ha l’aspetto come di visceri fortemente compressi.
Per la sepoltura avrebbero dovuto ordinare una cassa molto più corta e più alta del normale, mettendo a conoscenza quelli delle pompe funebri del vergognoso segreto di famiglia. Mi avrebbero esposto a cassa scoperchiata nella camera ardente, tra due file di ceri, e molte persone mai viste prima, passandosi parola, sarebbero venute da ogni luogo a visitare la mia salma per un’irresistibile curiosità.
Qualcosa nella mia testa tesa nello sforzo e piena di sangue aveva deciso di non fermarsi neppure di fronte a questo. Avevo schiacciato giù al massimo la nuca e mi era parso di essermi spezzato in due, ma più della metà del pene era entrato dentro la mia bocca. Le mani erano intente a comprimere la testa e quindi non potevo utilizzarle per masturbare la parte di pene che fuoriusciva (in futuro avrei dovuto esercitarmi per diventare quadrumane, per poter utilizzare anche uno dei piedi).
Per il momento non mi restava che spingere la testa su e giù con le mani fino a che, partendo da un punto vicinissimo e compiendo un interminabile giro tortuoso pieno di giravolte e strozzature, il mio sperma, scaturito dalle alte zone molli, midollari, cerebrali, mi aveva riempito completamente la bocca, che si trovava poi solo a pochi centimetri di distanza dal mio cervello.