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I fratelli, le sorelle e gli amici accompagnarono Karl allo Yacht Express che partiva da Treviri alle quattro del mattino; splendeva in cielo la cometa di Halley. La barca coperta, dal nome così pomposo, scendeva fino al Reno il corso della Mosella, il fiume che costituiva quasi la sola via di comunicazione verso l’Est. Poi si scendeva il Reno su uno dei vaporetti che da poco lo percorrevano.

Guardò in giù, tra quella foresta di gambe nella vettura della metropolitana. Aveva festeggiato da poche ore il suo quinto compleanno e lo stavano portando a visitare lo zoo: le scimmie con quei sederi rossi pieni di piaghe e di emorroidi, quello stupido elefante che da anni faceva sempre gli stessi esercizi per divertire i cosiddetti bambini, il leone artritico, l’orso col muso spaccato, rosso di sangue a forza di battere contro le sbarre.

Evidentemente stava in qualche modo recando disturbo, nella vettura straripante di gente, perché uno dei genitori gli disse: «Adesso ti prendo e ti lego!».

«E io mi slego e ti taglio i piedi!»

«E io ti butto sulle rotaie così mangiamo la marmellata!»

Il dialogo era andato avanti per molto, in un crescendo continuo, mentre il convoglio continuava a sferragliare nelle gallerie. Lui immaginava di essere su un’astronave e di reggere in mano un’immaginaria bussola. Guardò in su, verso sud-est. Piccolo com’era, poteva scrutare nell’incavo sudato tra due gambe di donna. La faccia issata là in alto parlava e parlava ma da quella non era possibile sospettare l’esistenza di quell’incavo sudato. Spostò gli occhi altrove. A sud-ovest c’era l’ingresso molto grigio e sfilacciato di una vecchia vagina senza mutande. Ispezionò meglio, entrando con la testa sotto le sottane: vide dei puntini luccicanti tra i peli. Dovevano essere minuscoli ganci per tenere chiuso in qualche modo l’ingresso e impedire così la fuoriuscita di visceri, sieri, piccoli organi, brandelli e liquidi che altrimenti sarebbero schizzati fuori a lunghi getti come da una botte sfondata.

Uscì, si girò verso nord, trovandosi faccia a faccia con uno scroto che rigonfiava i calzoni flosci di un vecchio seduto a gambe spalancate a un centimetro appena dai suoi occhi. Esaminò il gonfiore (dove l’aveva visto prima di allora? L’aveva già visto da qualche parte, ne era sicuro, ma non ricordava dove...). Notò che il pantalone rigonfio era un po’ giallastro in quel punto. C’entrava forse con i piccoli ganci? Avvicinò la bocca al gonfiore e, appena fu ben sicuro che il grumo giallastro fosse a tiro, morse a sangue.

Ciò che successe da questo punto in poi non si sa bene. Dicono che quando finalmente il bambino arrivò allo zoo aveva due denti in meno, l’orecchio sinistro era mezzo strappato, penzolava rovesciato in giù sulla guancia e, perché non si rompesse anche l’ultimo filo di carne a cui era attaccato, il bambino non trovò di meglio che tenerlo bloccato contro la testa mediante un paraorecchie di lana.

Arrivò di fronte all’elefante, aspettò che terminasse il solito esercizio con le zampe sul vecchio cilindro di legno scolorito, poi, quando l’animale si girò verso di lui allungando la proboscide, aprì il fagottino che aveva in mano, diede un’ultima occhiata alle lancette, e porse con dolcezza il cartoccio all’elefante che, dopo averlo afferrato con la proboscide, se lo introdusse lentamente in bocca e trascorsi pochi secondi il grosso testone scoppiò facendo volare a centinaia di metri di distanza schegge di cranio, pelle grigia coriacea e pezzi di cervello.

Chi racconta questa inverosimile storia assicura che di tali brandelli ne trovarono per giorni e giorni nella zona che circondava lo zoo, fin sulle cime degli alberi e dentro le case che in quel momento avevano per caso le finestre aperte.

Lei non riusciva mai a imparare una volta per tutte la disposizione delle stanze, dei piani, delle cantine e dei solai, dei negozi, delle camerate e dei gabinetti in quella grande sede. Sembrava persino che cambiasse continuamente senza far rumore e c’era sempre qualcuno in posti diversi o lungo le scale. In effetti spesso venivano alzati muri nuovi per dividere una stanza e ricavarne due uffici, o venivano abbattuti quelli vecchi, aperte nuove porte e murate altre, a seconda delle decisioni che venivano prese in alcune riunioni molto riservate, e spesso succedeva che uno stesso muro venisse abbattuto e ricostruito due o tre volte e che qualche porta venisse per sbaglio murata o si costruisse qualche nuova stanza dimenticando di aprire una porta per arrivarci.

Quel giorno quattro stanze erano chiuse per riunioni. Lo erano da venti giorni almeno. Che fosse davvero così? pensò lei. Forse le riunioni erano finite da tempo e i partecipanti avevano per caso lasciato la stanza in un momento in cui il resto della sede era deserto. Ma era rimasto ugualmente quel divieto di non entrare nelle stanze per non disturbare. Ma no, forse non era neppure così, forse dentro c’era ancora qualcuno, dato che ogni tanto si sentivano voci e poi lunghi silenzi. D’un tratto a lei parve addirittura di sentire che avessero fatto il suo nome.

Rispose a una telefonata, poi scese a pianterreno per comperare un po’ di affettato al negozio della sede. Risalì al primo, poi al secondo piano, dove si sedette accanto a una mensola per mangiare. C’era qualcun altro là in fondo, negli angoli, ma lei non capiva se stava divorando qualcosa perché non sapeva se quel giorno alla mensa davano qualcosa da mangiare oppure no. Anzi, non capiva neppure se c’era la mensa. Appoggiò la testa alla mensola e si addormentò un poco. Sognò che era nella grande sede. Si svegliò e vide che lo stanzone era deserto. Salì al piano superiore in cerca dei gabinetti, ma non c’erano più. Chiese a uno che passava, ma non sapeva dove fossero. Imboccò un corridoio appena aperto, che sbucava inaspettatamente a metà di una rampa di scale, girò due o tre angoli e si trovò di fianco una lunga fila di gabinetti senza porte, con le pareti di vetro smerigliato. Fece per entrare nel primo, ma non appena fu vicina al water si accorse che era completamente ingorgato da un grosso gnocco nero in mezzo al quale c’erano anche pezzi di carta di giornale bagnati, forse pagine intere appallottolate. Ne passò in rassegna altri, ma erano tutti ingorgati oppure senza catenella, oppure avevano cartelli con la scritta NON FUNZIONA L’ACQUA! Ne trovò uno, più piccolo degli altri, in condizioni un po’ migliori. Entrò e solo allora si accorse che proprio di fronte c’erano dei letti, vuoti, per fortuna. Più precisamente erano tutti vuoti tranne uno, sul quale si indovinava una sagoma maschile girata di schiena. Lei si accucciò e orinò guardandosi macchinalmente tra le gambe, come faceva sempre durante questa operazione.

Liebknecht racconta nei suoi ricordi come Marx festeggiò verso il 1860, a Londra, un incontro con Edgard Bauer. Organizzarono per le vie di Londra una piccola spedizione, nel corso della quale non tralasciarono una sola taverna che si trovasse sul loro percorso. Quando non furono più in grado di bere, cominciarono a lanciare pietre contro i lampioni finché furono messi in fuga dall’arrivo della polizia.

Uscì dal gabinetto e si avvicinò per curiosità alla sagoma girata di schiena (forse qualcuno rimasto a letto perché malato). Ma quando gli fu vicina si accorse che non dormiva, che aveva gli occhi spalancati e che piangeva.

Fuori cominciava a piovere. Lei guardava gli occhi di lui che diventavano sempre più grandi. Gli si sedette vicino, gli slacciò i calzoni, gli prese in mano il pene e lo masturbò.

Quando ebbe finito, gli circondò il collo con un braccio e lui lasciò andare la testa nell’incavo del gomito di lei. Passarono così alcuni minuti, poi lei si allontanò un istante per andarsi a lavare la mano. Quando ritornò, lui non c’era più.

Risalì un altro piano, dove c’erano i ciclostile, altri letti e la sala di studio. Da sopra venivano rumori soffocati. Notò una botola aperta in un angolo del soffitto, con una scala a pioli infilata dentro.

Si arrampicò sulla scala. Quando la sua testa cominciò a spuntare nel solaio i rumori soffocati cessarono di colpo. C’era un gruppo di persone attorno a un uomo solo, che era finito con la schiena contro una colonna. Uno del gruppo le fece segno di stare zitta.

«Sei stato tu a spifferare agli altri dov’era la roba!» stava dicendo a quello contro la colonna.

«No! Io non ho detto niente!»

«Traditore!»

Uno del gruppo lo afferrò per le spalle, gli si buttò addosso con tutto il corpo per tenerlo intrappolato contro la colonna. Intanto gli dava dei piccoli pugni ai fianchi e al ventre. Le due facce erano una di fronte all’altra e quasi si toccavano. Gli altri, tutt’intorno, formavano un anello che si stringeva e i più bassi di statura erano saliti sulle spalle di quelli davanti per riuscire a vedere, aggrappati con le braccia e le gambe al collo e ai fianchi di questi che, per sostenerli meglio, avevano infilato le braccia sotto le loro gambe all’altezza delle ginocchia. Di nuovo quello contro la colonna venne schiacciato due o tre volte dal corpo dell’altro, che lo comprimeva e lo spingeva con tutto il suo peso. Gli aveva preso tutta la faccia in una mano e gliela torceva piano spostandogli i lineamenti. Lei notò che a quello contro la colonna si gonfiavano sempre più i calzoni sul davanti. Era anche spuntata una macchiolina di bagnato, piccola come una capocchia di spillo.

Di cosa stavano parlando? Lei continuò a girare per il solaio. C’erano rotoli di manifesti sopra scansie di legno polverose. Qualche grande volto era attaccato ai muri, con piccoli segmenti di nastro adesivo là dove la carta dei manifesti era tagliata. Dietro la colonna c’era un grande armadio scardinato, coperto da un vecchio lenzuolo sporco.

Lei sollevò il lenzuolo, aprì appena l’anta sconnessa, tanto quanto bastava per vedere il contenuto dell’armadio: vecchi elmi di legno, finti cappelli da carabiniere con tanto di pennacchio, spade di latta, mantelli rossi coi bordi ornati di frange che un tempo dovevano essere state dorate, qualche abito ricamato, da regina, soprammobili per lo più spezzati e riattaccati, centrini, scarponi e gambali di cartone.

«Non camminare da quella parte!» le gridò qualcuno.

«Non camminare sulla volta!» cominciarono a gridarle gli altri.

«Proprio sotto c’è la sala studio!»

«A quest’ora molti sono là!»

«Sentiranno i passi sulla volta!»

«Andiamo via subito!»

«Hai rovinato tutto!»

«Guastafeste!»

Uno tirò su una scala a pioli a forza di braccia e chiuse la botola. Poi ne aprì un’altra più in là. Per arrivarci bisognava camminare in fila sulla parte centrale di un’armatura di legno a cassettoni.

Quando arrivò là, anche lei guardò giù e vide che la botola dava, tre metri più sotto, proprio su uno dei letti del dormitorio. Ci si poteva saltare sopra ammortizzando la caduta.

Ma non appena i primi, uno dopo l’altro, saltarono giù, si parò vicino al letto uno dei dirigenti. Dietro di lui c’erano altre persone appoggiate al muro. Il dirigente faceva cenni con la testa e sorrideva.

Quando toccò a lei saltare, puntò i piedi ai due lati della botola, appoggiandosi anche alle mani. Si rese conto che doveva tirare su la sottana per poter infilare le gambe nella botola. Ma nel frattempo avrebbe dovuto anche divaricare completamente le gambe per qualche istante, per di più piegandole in due al ginocchio nella contrazione prima di saltare.

Il dirigente aspettava di sotto e sorrideva. Il suo occhio pareva volerla sverginare.

Rimase bloccata per alcuni secondi, mentre gli altri da dietro la spingevano. Non le restò che puntare i piedi ai lati della botola. Discese allargata col bacino sulle gambe spalancate. Poi si buttò giù.

Due ore dopo era al primo piano. Batteva a macchina una lettera. Arrivò un gruppo di persone, che si fermò a bisbigliare dietro una colonna. Lei si allontanò lungo il corridoio e, passando davanti a una porta semichiusa, vide attraverso la fessura il capo della sede. Da fuori si scorgeva solo la sua testa e non era possibile capire che cosa stesse facendo. Certamente non leggeva e nemmeno scriveva. I suoi occhi erano persi nel vuoto da chissà quanto tempo.

Lei rimase a contemplarlo a lungo, attenta a ogni più piccolo rumore per essere pronta a scappare nel caso fosse arrivato qualcuno. Fissava in particolare la piega del mento e la mascella dell’uomo, che ogni tanto si tendeva, si gonfiava, pulsava, si sporgeva, digrignava i denti, oppure cadeva giù di colpo da una parte. L’aveva spiata spesso anche in altre occasioni, quando era ben sicura di non essere vista, aveva persino guardato dal buco della serratura quando lui si fermava a lavorare fino a tardi e in sede non c’era nessuno o erano tutti ai piani superiori. Aveva anche notato che spesso, in solitudine, lui se la toccava con uno strano movimento circolare.

Improvvisamente scappò via, perché non riusciva più a sostenere quella vista. Andò a rispondere a un paio di telefonate, batté un altro brano della lettera e infine si alzò, girò a lungo attraverso la sede, prima di entrare in una stanza da cui venivano voci concitate.

Si sedette al tavolo, sforzandosi di non fissare i volti di chi partecipava alla riunione per non scatenare reazioni impreviste, ma ugualmente notò che a tutti tremavano un po’ le mani allineate al di sopra del tavolo. Ci furono quattro interventi. Il volto di chi parlava pareva sbalzare in primo piano e dilatarsi, come nel video di un televisore a circuito chiuso. I volti che stavano di fronte annuivano, poi di colpo si impensierivano, oppure avevano un moto rabbioso, facevano ostentatamente segno di no con la testa oppure, fingendo di sbadigliare o di passarsi la lingua sui denti, spalancavano la bocca di scatto, lasciandola aperta fino a che la faccia di chi stava intervenendo non smetteva di colpo di parlare.

Quando arrivò il suo turno si sforzò di intervenire a sua volta. Ma si accorse che la voce le usciva in modo innaturale e che aveva lo stesso accento di chi aveva appena parlato. Cercava di controllarsi, ma le venivano gli stessi verbi, le stesse tecniche per prendere tempo, persino le stesse smorfie e gli stessi gesti dell’altro. Si sentiva come se qualcosa di molto pesante le schiacciasse la pancia fino a farla vomitare. Le pareva di vedere dall’esterno la propria faccia. Gli altri intanto la fissavano, scrivevano bigliettini, se li passavano tra di loro, la fissavano di nuovo. Due, dopo aver letto i bigliettini, si abbassarono scivolando giù dalla sedia, come intenti a cercare qualche piccolo oggetto caduto sul pavimento. Al di sopra del tavolo spuntavano solo le loro teste. Rimasero così per un po’, poi, uno dopo l’altro, scesero tutti, completamente, sotto il tavolo, continuando a parlare a bassa voce.

Nella piccola finestra in alto si affacciò la notte. Lei uscì dalla stanza, imboccò il corridoio. Intanto pensava: “Com’è la mia voce? Non mi ricordo più com’è la mia voce!”. Passò davanti alla porta semichiusa e vide che dentro non c’era più nessuno. Cos’era successo? Perché il capo se n’era andato all’improvviso? Entrò nella stanza e notò che sullo scrittoio c’era una cosa di colore giallastro. La prese in mano, cominciò a esaminarla attentamente: sembrava uno strano osso contorto. “La mascella!” si rese conto all’improvviso. Lui se n’era andato ma aveva lasciato lì la mascella. A meno che quella cosa non fosse un pezzo di cranio dell’elefante che, come dicevano i giornali, un bambino aveva fatto scoppiare con un ordigno (ne avevano trovati pezzi fin dentro le case, nel raggio di un chilometro dallo zoo).

Lei afferrò quella strana cosa e la nascose sotto il vestito. Poi salì le scale, arrivò fin dove c’erano i gabinetti, si infilò in uno dei letti più lontani. Si coprì tutta, lasciando fuori soltanto gli occhi. Negli altri letti non sembrava che ci fosse nessuno, solo in un paio di essi si intravedevano forme raggomitolate e molto corte. Ma era impossibile capire se erano persone o giochi d’ombra oppure le stesse coperte appallottolate. La grande stanza era buia. Sotto le coperte lei accarezzava quella cosa.

Passò ore e ore così, cercando di non fare il benché minimo rumore. Intanto la notte cresceva oltre ogni limite contro la finestra. La cosa era adesso posata su un suo seno, scoperto silenziosamente e con precauzione nel buio. Guidata dalla mano, discese sul ventre. Lei si girò lentamente a pancia in giù, si passò la cosa in mezzo alle natiche allargando un po’ le gambe, quanto bastava perché le potesse sfiorare la vagina con quelle strane tacche, forse radici di denti o qualcosa di simile, mentre un piccolo beccuccio di appena un paio di centimetri si affacciava alla porta della vagina, messaggero di quella scheggia d’osso o mascella o cranio d’elefante.

Strinse forte le cosce attorno a quella cosa, cercando di soffocare contro il cuscino i gemiti e i versi che le uscivano dalla gola nell’orgasmo.

Marx fece grandissima fatica ad abituarsi all’idea che il potente movimento che era stato anni prima all’avanguardia del proletariato europeo dovesse finire così. Sperava sempre che qualche azione spontanea rianimasse quella fiamma. Quando nel giugno del 1855 circa duecentomila operai artigiani e piccoli commercianti manifestarono a Hyde Park contro il Sunday Trading Bill, Marx pensò che questa dimostrazione fosse il principio della rivoluzione inglese. Egli vi aveva preso parte in compagnia di altri emigrati tedeschi. Liebknecht racconta nelle sue memorie che Marx, molto incline a eccitarsi in occasioni simili, era stato acchiappato da una guardia.

Ripeté l’operazione molte volte nella notte, fino a quando l’aurora cominciò a spuntare dietro il vetro. Si sentiva venire da lontano un abbaiare di cani.

Quando gli altri la trovarono era febbricitante, tremava ed era inondata dal sudore. Non ricordava niente, aveva perso conoscenza.