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A ogni angolo, in ogni spazio libero, si radunavano piccoli gruppi: soldati e studenti che discutevano. La notte scese rapidamente. Palpitarono le lampade a larga distanza l’una dall’altra e la corrente della folla seguitò a fluire instancabilmente. Come sempre in Pietrogrado, prima dei torbidi...

La prima volta che la vidi, sulla metropolitana, seduti di fronte a me c’erano un uomo e una giovane donna. Anche lei li stava osservando. La giovane donna aveva sollevato la maglietta sulla schiena dell’uomo, scoprendo un grosso bubbone dalla punta gialla. Aveva cominciato a tormentarlo con le dita, incurante della gente, fino a quando il bubbone non si era aperto come un cratere sprigionando grossi schizzi di materia (chi sarà stato il primo a chiamare “materia” proprio quella cosa lì?). Uno schizzo era finito sulla poltrona, un altro sul corrimano, mentre un ultimo schizzo che non era riuscito ad alzarsi in volo penzolava sulla schiena foruncolosa dell’uomo. La giovane donna aveva schiacciato ancora fino a far uscire un po’ di sangue, subito asciugato con un fazzolettino di carta che poi aveva lasciato cadere per terra.

Finita l’operazione, lui, per riconoscenza, le aveva accarezzato un seno, certamente nudo sotto la maglietta. (Solo allora mi ero accorto che la sua non era una mano ma una strana cosa con le dita attaccate tra di loro, simile a uno zoccoletto con due grossi unghioni divaricati sul fondo.) Poi si era chinato a baciarle il seno, morsicandolo leggermente.

Lei intanto aveva distolto lo sguardo dai due, si era alzata per avvicinarsi alla porta, pronta a scendere. Afferrandosi con la mano a una maniglia, aveva sfiorato in modo appena percettibile la mia mano e io nello stesso istante avevo pensato: “Morirò come non muore nessuno, mi chiuderanno nell’armadio coi vecchi sogni, le stagioni, le pietre, mi stenderanno sul letto con le scarpe da ginnastica e i calzoni di fustagno. Assicurandomi che nessuno mi guardi, mi darò un’ultima aggiustata ai capelli...”.

Avevo visto che le sue unghie erano tutte rosicchiate.

Il giorno dopo la ritrovai sulla stessa vettura della metropolitana. Ci fissavamo come due ossessi.

Quando scese, mise di nuovo la mano vicino alla mia, ma stavolta poggiò anche la parte interna dell’avambraccio contro la mia guancia, e io ero assolutamente certo che non avrei mai più provato niente di simile per l’eternità.

Scese. Io camminai tutta notte per le periferie buie e senza fuochi.

Per tre giorni non la vidi. Il quarto salì a una stazione diversa e, appena mi scorse, venne vicinissima, si schiacciò interamente contro di me. Sentivo il suo respiro a pochi millimetri dal mio collo.

Quando scese, la seguii lungo i corridoi della stazione, sulle scale mobili, poi fuori per un lungo tratto di strada, a distanza di un centinaio di metri, fermandomi quando lei si fermava, fino a un tunnel basso e stretto che passava sotto un grande condominio.

Quando arrivai anch’io e passai oltre il tunnel, lei non c’era più, era entrata di certo in una delle decine di porte dei condomini che si aprivano ad anfiteatro.

Da quel giorno cominciai a seguirla ogni volta che la incontravo, apertamente, oppure dopo averla aspettata all’uscita del tunnel. Le camminavo dietro sempre alla solita distanza di un centinaio di metri. Nei rettilinei più lunghi mi potevo allontanare anche di mezzo chilometro. Lei lanciava un’occhiata ogni tanto per vedere se c’ero ancora, girando impercettibilmente la testa agli angoli delle strade con la scusa di dare un rapido sguardo a una vetrina. A volte succedeva che si voltasse senza preavviso, cambiando direzione di centottanta gradi. Allora mi trovavo improvvisamente davanti a lei, che iniziava a sua volta a seguirmi. Una di quelle mattine in città avevano chiuso tre pozzi perché l’acqua era avvelenata.

Sul pianerottolo incontrai Rjazanov, vicepresidente del Sindacato Operaio, torvo e mordace con la sua barba grigia. «È una pazzia, una pazzia!» gridava. «La classe operaia europea non si muoverà! Tutta la Russia...»

Era sera e aspettavo la metropolitana seduto su una panca di marmo. Alzai gli occhi e la vidi seduta di fronte a me, oltre la fossa dei binari, in attesa del treno che andava in direzione opposta. Mi guardava da lontano, in mezzo alla gente in attesa. Pochi istanti prima dell’arrivo del treno, quando già si cominciava a sentire il suo rumore nella galleria e molti si erano nascosti dietro gli angoli per non essere investiti dallo spostamento d’aria, lei alzò le ginocchia, mise le piante dei piedi sulla panca, allargò al massimo le gambe, sollevò la sottana scoprendo la sua vagina nuda e spalancata.

Rimasi a guardarla e mi sembrava che lei soffrisse nello sforzo di divaricarla al massimo con le dita.

Arrivò il treno e la coprì. Quando ripartì, lei non c’era più.

L’andavo a cercare nell’anfiteatro dei condomini, spiando porte e finestre. Avrei voluto arrampicarmi sui tetti per rimanere di guardia anche la notte. E lei sarebbe venuta verso di me camminando sopra le tegole. E allora io mi sarei alzato in piedi gigantesco contro la notte, vicinissimo alle stelle che cominciavano ad accendersi, e tutto il mio corpo avrebbe cominciato a esultare schizzando lunghissimi getti di seme bianco sulle stelle.

L’avevo rivista molto tempo dopo, quando meno me l’aspettavo. Un giorno, salendo sulla solita vettura della metropolitana, l’avevo sorpresa addormentata su un sedile. Mi ero avvicinato e, mentre dormiva, l’avevo guardata per la prima volta in tutta la sua estensione. Riuscivo a distinguere contemporaneamente il viso e la nuca, le dita dei piedi dentro le scarpe e la radice di ciascun capello. Il sedile accanto al suo era libero. Mi ci ero coricato sopra, appoggiandole la testa in grembo.

Lei non si svegliò e anch’io mi addormentai subito, mentre il treno correva all’impazzata nelle gallerie nere.

Dietro di noi il grande Smolny brillava di luci e ronzava come un gigantesco alveare.

Di notte fantasticavo nel dormiveglia: sono seduto nella metropolitana e lei è in piedi di fronte a me, tra le mie ginocchia, e siamo davvero faccia a faccia.

Lenin era apparso, accolto da una potente ovazione, e aveva preconizzato la Rivoluzione Sociale in tutto il mondo.

«Cosa stai leggendo?» le chiedo.

Mi mostra il libro che ha in mano. Lo apre in mezzo, spalancandolo al massimo, si sente il fragore della colla della rilegatura che si spezza. Mi fa annusare la scriminatura tra le pagine: emana odore di vagina, da qualche punto sgorgano persino secrezioni che inumidiscono le pagine.

Comincia a toccarmi i lineamenti del volto con la punta delle dita senza unghie. Anch’io la tocco e per dieci lunghissimi minuti ci sfioriamo i capelli, la fronte, le sopracciglia, le palpebre, le occhiaie tenere, le narici, i lobi delle orecchie, le labbra fino all’interno umido vicino ai denti, l’esofago, passando e ripassando e poi usando anche la punta della lingua e assieme anche la punta delle dita e di nuovo ripassando con la punta della lingua fino a che le nostre facce sono lisce ed è possibile navigarci sopra, bagnate dappertutto di saliva che si asciuga in fretta e mischia gli odori.

Presidente del Consiglio: Vladimir Ul’janov (Lenin)

Interni: A. I. Rykov

Agricoltura: V. P. Miljutin

Lavoro: A. G. Šljapnikov

Esercito e Marina: un comitato composto di V. A. Ovseenko (Antonov), N. V. Krylenko e P. E. Dybenko

Industria e Commercio: V. P. Nogin

Educazione popolare: A. V. Lunačarskij

Finanze: I. I. Skvorcov (Stepanov)

Affari esteri: L. D. Bronštein (Trockij)

Giustizia: G. I. Oppokov (Lomov)

Approvvigionamenti: I. A. Teodorovich

Poste e Telegrafi: N. P. Avilov (Glebov)

Presidente per le Nazionalità: I. V. Džugašvili (Stalin)

«Ecco, adesso rifacciamo tutto a occhi chiusi e intanto parliamo!» propone lei.

«Non ci vedo più.»

Le reazioni nucleari di fusione sono di fondamentale importanza in tutto l’universo: esse sono responsabili dell’immensa quantità di energia radiante emessa dalle stelle (dunque anche dal sole) e quindi della presenza stessa della vita sulla terra.

Ripassiamo a occhi chiusi le dita e la punta della lingua sugli occhi, la gola, le guance, le mani.

«Ora non ci vedo più neanch’io.»

L’esplosione di una bomba nucleare, sviluppando temperature di decine di milioni di gradi, produce nell’aria una sfera di fuoco (fireball) che, a somiglianza di un piccolo sole, emette radiazione elettromagnetica, con uno spettro determinato dalla sua temperatura. Tale radiazione, luminosa e termica, viaggia con la velocità della luce. La sfera di fuoco prodotta dalla bomba di un megatone, esplosa in aria, apparirebbe a una distanza di 100 km diverse volte più luminosa del sole. L’enorme aumento di pressione prodotto dall’esplosione genera un’onda d’urto, cioè una superficie che separa la regione perturbata e viaggia con velocità un po’ superiore a quella del suono. Se l’esplosione avviene nell’aria, a piccola altezza, tale onda d’urto viene riflessa dal terreno e provoca un cratere: per una bomba da 1 megatone esso è profondo 80 metri e largo 700. Qualche decina di secondi dopo l’esplosione il gas caldissimo contenuto nella palla di fuoco acquista un’elevata velocità ascensionale, risucchiando violentemente verso l’alto l’aria e i detriti circostanti ed espandendosi nella caratteristica forma a fungo.

Usciamo tutti e due a occhi chiusi dalla stazione della metropolitana, tastando con le mani i muri, le colonne, le ringhiere. Per le strade tastiamo i portoni, i marciapiedi, i semafori, i volti dei passanti. Saliamo sui tram e scendiamo dove capita. A notte fonda ci corichiamo a dormire su un indecifrabile pezzo di terra o asfalto o groppa di elefante o parete altissima di condominio, mentre vicino, da qualche parte, scorre l’acqua o crepita il fuoco.

In linea di massima, la natura del danno biologico associato alle radiazioni è tale da danneggiare gli organismi viventi tanto più quanto maggiore è la loro complessità, e quindi ne risultano favorite le forme di vita inferiori rispetto alle superiori, sia nel regno animale che nel regno vegetale. Nella fauna, la distruzione di uccelli e animali predatori causerebbe probabilmente esplosioni demografiche di insetti e forse roditori, cioè le specie che hanno una grande capacità riproduttiva, esplosioni che potrebbero risultare in flagelli di proporzioni bibliche. Nella flora, c’è da attendersi la sparizione di intere foreste a causa del fuoco, delle radiazioni, delle epidemie, delle invasioni di insetti. Da una stima, certo molto approssimativa, risulta inoltre che l’esplosione di migliaia di megatoni al suolo potrebbe iniettare nell’atmosfera una quantità di polvere sufficiente a modificare drasticamente la temperatura su tutto il globo, con diminuzione media dell’ordine di parecchi gradi. La durata di questo fenomeno dipenderebbe dal tempo necessario per la ricaduta delle particelle di polvere sulla terra, e sarebbe dell’ordine di anni. Non si può neppure escludere la possibilità che abbia inizio un ciclo irreversibile, che porti a una nuova glaciazione.

Ci svegliamo e forse è mattino da parecchie ore, o forse è ancora notte. Non riusciamo a capirlo. Il rumore d’acqua o di fuoco non si sente più. Si sente invece, da qualche parte, un verso sottile: forse è un piccolo uccello. Poco distante uno strillone grida il titolo del giornale: «LENIN HA PUBBLICATO L’ORDINE DI FAR SALTARE I SOTTERRANEI DELLA BANCA DI STATO».

Ci alziamo e riprendiamo a camminare. Chiedendo informazioni ai passanti, riusciamo a raggiungere un’altra stazione della metropolitana. Scendiamo, prendiamo il primo convoglio che arriva, senza conoscerne la direzione. Dentro la vettura lei si solleva improvvisamente la maglietta, scoprendo i fianchi. Lo so perché intanto mi ha afferrato una mano e se la passa sulla pelle fino all’inizio delle costole. In piedi vicino a noi, due persone parlano tra di loro. Non le vedo perché ho gli occhi chiusi ma, da come emettono i suoni, capisco che stanno parlando senza aprire la bocca né muovere le labbra, solamente con un’impercettibile vibrazione del labbro superiore.

Ora hanno abbassato ancora di più la voce per non farsi sentire. Fingendo di grattarmi un orecchio, con la mano a imbuto, sposto con cautela la testa verso di loro. Stanno dicendo: «Infine vi è un secondo tipo di conseguenze a lungo termine, e sono quelle di natura psicologica, sociologica, etico-politica. È molto difficile immaginare che dopo una guerra nucleare globale i superstiti si dedicherebbero con tranquilla razionalità all’opera di ricostruzione, o quanto meno ad affrontare cooperativamente i problemi drammatici della vita nelle nuove condizioni. Più probabilmente si avrebbe una prevalenza di reazioni irrazionali e violente, e una totale modificazione del sistema di valori su cui era fondata prima la società».

Scendiamo dalla vettura, usciamo dalla metropolitana camminando a tentoni per almeno un chilometro alla ricerca di un posto adatto. Ci fermiamo in un luogo che sembra vasto e senza traffico. Restiamo in ascolto per un po’.

«C’è troppa gente!» dice lei.

Si sente infatti un brusio crescente e anche della musica.

Ci incamminiamo per una strada che sembra più silenziosa, fino a una porta o imbocco di galleria dove il silenzio è assoluto. Si avvertono solo, a tratti, rumori lievissimi, come cigolii di piccole ruote metalliche.

«Qui va bene!» sussurra la sua voce vicino al mio orecchio.

Ci lasciamo cadere per terra. Lei solleva di nuovo la maglietta e guida la mia mano verso un punto imprecisato del proprio corpo, probabilmente sopra le costole fluttuanti. Mi avvicino con la bocca, leccando e inumidendo la parte per alcuni minuti. Poi comincio a mordere, ma i denti non riescono a conficcarsi, inoltre devo vincere continuamente la tentazione di smettere, di lasciar perdere. Sento che la pelle si è un po’ strappata, ora i denti affondano in qualcosa di gommoso e di molle, di sfuggente. Devo spostare da una parte all’altra la mascella in modo che i denti compiano un difficile movimento a sega.

Finalmente sento che il brandello è quasi completamente staccato, restano solo alcuni filamenti e altri tessuti connettivi. Avverto il sapore dolciastro del sangue. La mano e la lingua di lei, nel frattempo, mi sfiorano e mi leccano l’incavo dell’ascella.

Do lo strattone finale e tutto il pezzo si stacca nella mia bocca. Lei si alza verso il mio viso, mi infila due dita in bocca e tira fuori il brandello della propria carne. Mi prende le dita per farlo toccare anche a me, poi me lo mette in mano, se lo fa mettere in bocca da me, lo tiene così per un po’, poi lo tira fuori, lo rimette di nuovo nella mia bocca. «Adesso mangialo!» mi dice abbracciando la mia testa che mastica.

Prendo la sua mano e la guido nella piega tenera all’interno del mio gomito. Sento arrivare la sua bocca e i suoi denti. Credo che abbia incontrato qualche tendine perché non riesce a strappare. Allenta la presa, si sposta di qualche millimetro e finalmente ci riesce.

Ripetiamo l’operazione e alla fine lei mangia, mentre io le sfioro le palpebre con la punta della lingua. «Adesso prendi un altro pezzo di me!» mi incoraggia. «Portalo a casa, cuocilo e mangialo quando non ci sarò.» Le strappo un altro brandello di carne, poroso e pieno di ghiandole. Lo avvolgo nel fazzoletto e lo metto in tasca. Lei intanto spinge la lingua nella mia bocca, la ritira, risucchia la mia lingua nella sua bocca, la prende tra i denti e, con una pressione inesorabile, ne trancia un pezzo. Sento una scarica nel cervello.

«Questa te la chiedo come ricordo» mi sussurra alla fine.

Adesso la musica soffusa ci avvolge. Capisco che lei si è alzata di colpo in piedi.

«Devo andare!» dice soprappensiero.

Le persone e il pubblico a cui fu permesso di girare liberamente nel Palazzo d’Inverno per parecchi giorni dopo che fu preso, portarono via argenterie da tavola, orologi, coperte, biancherie da letto, specchi, alcuni vasi rari di porcellana preziosa e pietre per il valore di circa 50.000 dollari.

Mi alzo in piedi anch’io, spalanco gli occhi e la vedo mentre si allontana. Tutt’intorno a me è luce accecante, nel gigantesco supermercato in cui mi trovo.

Col dorso della mano mi asciugo la bocca sporca di sangue, incamminandomi verso casa.